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Tribù

Scritto da Giorgio Rinaldi il 1 giugno 2012
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Sono più o meno grandi.

Sono più o meno organizzate.

Sono più o meno strutturate in forma statale.

Gli elementi che generalmente le contraddistinguono sono l’omogeneità caratteriale, culturale, linguistica, la comunanza di interessi.

Le maggiori dimensioni di una tribù, con tutto ciò che ne comporta a livello di stratificazione della società in classi, categorie, gruppi, caste, hanno contribuito all’evoluzione in nazione e l’organizzazione in stato.

Ciò nonostante, alcuni sottogruppi come il clan e la famiglia sono sopravissuti e, addirittura, si sono rinforzati.

Si pensi alle organizzazioni criminali come la mafia, la ‘ndrangheta,  la camorra, nate e cresciute su base familistica e territoriale.

Altri “microrganismi”  si sono sviluppati, senza troppo rumore, abbandonando la caratteristica della territorialità per privilegiare solo gli interessi del gruppo.

Dalle lobbie ai vari club è tutto un fiorire di associazioni che tendono solo all’auto- protezione.

C’è, però, una tribù che resiste ad ogni frazionamento, ad ogni legame territoriale.

Refrattaria ad ogni analisi politica e sociale; impermeabile ad ogni classificazione biologica e antropologica; impenetrabile ad ogni possibile infiltrazione dall’esterno; inaccessibile a qualsiasi tentativo di modificarne i privilegi.

Addirittura non ha neanche un nome, ma si muove trasversalmente all’interno dei meccanismi che regolano il Potere.

E’ una tribù fatta da quelli che una volta si chiamavano i “grand commis” i “boiardi di stato”.

Persone che sono cresciute all’ombra e nel sottobosco del potere politico ed economico e poi, con il passare del tempo, si sono fatte classe dirigente esse stesse.

Provate, per esempio, a sfogliare i giornali o rivedere servizi televisivi degli ultimi 15 o 20 anni.

Troverete sempre gli stessi nomi che, come nel ballo della “Quadriglia”, si fanno gli inchini, fanno la passeggiata, scambiano il partner, modificano le figure, ma per tutto il ballo i ballerini restano sempre gli stessi.

Passano da un ente ad un altro (spesso inutile), da un’azienda pubblica ad un’altra, da una presidenza di una banca a un consiglio d’amministrazione di una compagnia di assicurazioni e così via.

Accumulano stipendi, gettoni di presenza, liquidazioni, pensioni, privilegi enormi, senza rendere conto di nulla mai a nessuno.

Come se tutto fosse dovuto, per grazia di Dio e volontà della Nazione.

Spesso non sanno fare niente, dei veri inetti, e quando proprio sono costretti a fare qualcosa, sono capaci di procurare danni stratosferici alla collettività: pensate solo allo stato in cui versano le più grandi aziende italiane di trasporti…

Sono poche migliaia di persone che non amano la pubblicità, ma impazziscono per il denaro, il potere, i privilegi.

Quando capita di vedere qualche loro foto sui giornali, sembra che siano stati fatti con lo stampino: si assomigliano in modo straordinario tutti.

Il pensiero corre al film del grande Totò “Siamo uomini o caporali ?”.

L’indimenticato Paolo Stoppa nel film ricopriva  più ruoli, sempre però di “prepotenti”, i quali avevano tutti un neo su una guancia, a simboleggiare che modificando le latitudini, i mestieri o i ruoli sociali, la matrice non cambia.

Il Potere li alleva e li nutre e loro ricambiano assicurando ai “capi tribù” quanto necessario alla conservazione del “comando”.

E’ uno scambio, una simbiosi mutualistica nota in Natura: il fungo con l’albero, tanto per citare un esempio.

Un ciclo chiuso.

Non c’è giorno che la stampa non parli dei “capi tribù” e ogni tanto accende i riflettori sugli ossequiosi “dignitari”: frequentano gli stessi luoghi, gli stessi locali, amano le stesse cose, in un’immensa girandola auto celebrativa.

E, sessanta milioni di italiani che stanno a guardare, inebetiti.

Come una volta i bambini che andavano al porto a vedere i figli dei “signori” sulle barche che mangiavano il gelato.

 

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