FARONOTIZIE.IT - Anno III - n° 26, Giugno 2008
Questa pagina contiene solo il testo di tutti gli articoli del n° 26/2008
Redazione
e amministrazione:
Scesa Porta Laino, n.33 87026 Mormanno
(CS)
Tel. 0981 81819 Fax 0981 85700 redazione@faronotizie.it
Testata
giornalistica registrata al Tribunale di Castrovillari n°02/06
Registro Stampa (n.188/06 RVG) del 24 marzo 2006
Direttore responsabile Giorgio Rinaldi
QUANDO IL DIAVOLO T’ACCAREZZA…
Editoriale del
Anni
fa si inneggiò ad una grande vittoria politica e sindacale per essere stata introdotta in Italia la CIG,
la cassa integrazione guadagni, un istituto che mirava a salvaguardare i salari
dei lavoratori nei momenti di crisi delle aziende, prevenendo un possibile
licenziamento.
Con
una piccola, apparentemente microscopica,
dimenticanza: i costi dei salari erogati ai lavoratori non sarebbero ricaduti
sulle imprese, sul padronato, bensì sull’intera Collettività.
Come
al solito, tutti noi avremmo pagato (e lo abbiamo fatto e lo facciamo !) i
costi che spettavano, invece, alle aziende.
Quando
c’era da incassare, incassava ed incassa il solo imprenditore, quando c’era e
c’è da pagare pagano, invece, tutti gli italiani!
Guadagno
garantito per le imprese a rischio ZERO !!!
I
furbacchioni che governavano all’epoca, e che oggi –seppur con casacca diversa
o per protesi ereditaria- ancora alloggiano nella “stanza dei bottoni”, anziché
istituire un fondo alimentato con i denari delle imprese, ovvero prevedere un
prestito da parte dello Stato che poi l’azienda avrebbe dovuto restituire una
volta ristabilitesi le condizioni di floridità economica, pensarono bene di
accollare tutto sulle spalle dei contribuenti.
Nel
clima di euforia sindacale del tempo, venne abolito, di fatto, il rischio aziendale, ovvero l’unica ragione
che in qualche modo giustificasse il profitto.
Un
fatto epocale.
Il
carezzevole cacciatore aveva usato una trappola sopraffina.
Oggi,
in un clima surreale di pericolosa
letargia mentale generale, con un Governo che è diviso da grandissima parte
dell’opposizione da appena…un’ombra, si varano provvedimenti di straordinaria
importanza in assenza di ogni serio dibattito, dovuto studio, necessaria
analisi.
Vediamone
qualcuno:
1)
Detassazione degli straordinari.
A
chi giova ?
Quante
ore di straordinario potranno mai fare i lavoratori per assicurarsi un buon
guadagno con la porzione detassata?
Di
certo, però, con quel po’ di ore straordinarie che qualcuno sarà invogliato a fare,
le imprese potranno ben rinunciare ad assumere altri lavoratori, che sarebbero
costati ben più di qualche ora di straordinario.
E
così, un apparente guadagno, diventerà un costo per tutti noi che dovremmo
mantenere in qualche modo dei cittadini disoccupati, a tacere il mancato
gettito fiscale da mancati stipendi di mancati assunti.
2)
Dagli allo zingaro.
Gli
zingari non sono amati (per usare un eufemismo), si sa.
Neppure
Hitler li amava (per usare un eufemismo).
E,
fanno di tutto per non esserlo (senza eufemismi).
Ma,
per chi non lo sapesse, o fa finta di non saperlo, o pensa che noi abitanti del
Belpaese siamo “tutti brave gente”, gli
italiani ovunque sono andati hanno lasciato il segno, ovviamente negativo, per
decenni e decenni.
Negli sud degli Stati Uniti, la parte geografica
più razzista al mondo nei confronti dei negri, gli italiani erano considerati
“quasi-negri”.
Nel
nord degli USA ogni italiano era
considerato un mafioso, un delinquente, e non c’era emigrato italiano che non
portasse in tasca un coltello.
In
Egitto e in Turchia i bordelli erano riforniti solo da prostitute italiane.
In
altre parti del mondo gli italiani erano famosi perché si vendevano i figli.
Eppure
ci siamo battuti con forza per far cadere il pregiudizio, per dimostrare che
qualche mela marcia non poteva gettare ombre su tutto il frutteto.
Ancora,
è bene dirlo, non ci siamo riusciti del
tutto…
In
una situazione di insicurezza generale, più psicologica che reale, ci
scateniamo nella caccia allo zingaro, al romeno (magari confondendo i Rom –che
sono solo una componente del popolo zingaro- con i Romeni…), agli albanesi, ai
marocchini…, accusando queste comunità di immigrati, nella loro generalità, di
ogni nefandezza.
Il
problema centrale, verosimilmente, è - la mancanza di regole condivise tra chi
c’è e chi arriva.
Ogni
comunità, grande o piccola che sia, si dà delle regole, che ogni membro conosce
ed osserva.
Chi
si mette fuori da queste regole, o le viola, o ne crea delle altre alternative,
non è ritenuto degno di far parte di quella comunità.
Ecco,
allora, che i “diversi” creano
–inevitabilmente- un senso di ansia, di
insicurezza, di accerchiamento nei membri di quella comunità.
Le
tensioni sociali si creano così sia all’interno della comunità, sia
all’esterno.
Una
città, ad esempio, oltre che essere fatta di cemento, è fatta di abitudini, di
tradizioni, di consuetudini, di cibi, di bevande, di riti che gli abitanti
consumano, in una parola: identità cittadina.
Se
chi arriva in una città, magari medio-piccola, dalla forte connotazione
identitaria, porta intere le sue liturgie senza armonizzarle con l’ambiente
circostante, è inevitabile il conflitto.
Moltiplichiamo
i numeri e l’effetto sarà dirompente.
Quella
piazza che tradizionalmente vedeva i mediatori far stringere affari ai
mercanti, oggi è invasa da tamburi africani;
quel bar ove si celebravano le vittorie della
squadra locale è diventato il capolinea di giocatori d’azzardo;
quel
parco deputato agli incontri sentimentali di giovani coppie è ricettacolo di
disperati ubriachi extraunionitari, e
così via.
L’identità
è persa, l’insofferenza e l’intolleranza avanzano…
Il
passo per la xenofobia è breve.
Poi,
se le sanzioni non vengono equamente applicate, ovvero le regole eluse con
diversa considerazione a seconda delle persone o dei luoghi, la strada al
razzismo si apre…
Tu
lasci l’auto mezzo minuto in doppia fila e il carrattrezzi –implacabile- te la
porta via.
Un
gruppo di extraunionitari fa i suoi bisogni corporali tranquillamente sul
famoso monumento, e la macchina dei vigili sfreccia senza neanche un accenno a
fermarsi….
Tu
hai appena ridipinto le finestre con una prima mano di giallo ocra, perché il
giallo osso di seppia arriverà tra una settimana, in tempo però per la prevista
seconda mano, e poco ci manca che il Sindaco ti faccia deportare nella Siberia
Orientale.
Accendi
la TV e vedi interi paesi del sud Italia le cui case sono da decenni degli
scheletri, soli pilastri senza pareti, oppure rappezzate di mattoni senza
intonaci, nella quasi totalità costruite abusivamente. E, nessuno mai dice
nulla.
Entri
nella “zona a traffico limitato” 10 secondi dopo che il divieto è iniziato e ti
sequestrano la moto.
Poi,
vai in vacanza in una qualche stazione balneare e vedi motorini con conducente
senza casco e tre passeggeri incastrati in
Si
accendono i rancori, l’egoismo fa capolino, l’odio si affaccia per chi la fa
franca, per i furbi che vivono “con i nostri soldi” ecc., ecc.
E,
si spiegano certe vittorie elettorali, e –di più- certe sconfitte di chi è
incapace di fare un minimo di analisi sociale, prima ancora che politica.
Nella
melassa politica di questi giorni, vediamo l’opposizione artatamente
“coinvolta” nelle “grandi” scelte politiche:
se
i risultati saranno positivi, aveva ragione il Governo che le ha proposte, se
saranno negativi, l’opposizione non potrà
certamente criticare ciò a cui ha partecipato !!!
Ma,
carezzando-carezzando, chissà che non si raggiunga il più alto Colle di Roma.
lntanto,
lasciano a dir poco sgomenti le immagini di aggressioni da parte di gruppi di
cittadini con bombe incendiarie ad una intera comunità, la stigmatizzazione
etnica, i pestaggi premeditati di bande
armate adoranti simboli di passate sanguinarie dittature, le ronde di cittadini
aspiranti vice-sceriffi…
Non
impareremo mai la lezione ?
A JOHN E ALLA SUA FAMIGLIA
di Joseph
Simionato
Innumerevoli libri e fiumi di parole stampate sono stati scritti per descrivere, o meglio, tentare di descrivere i veri e propri padroni della terra australiana e la loro storia.
Gli
aborigeni. Abitanti di questa terra da almeno 40,000 anni.
Ho
avuto la fortuna di essere vicino a questa meravigliosa gente per più di dieci
anni, frequentandoli sia sul lavoro, che socialmente, e, senza nessuna pretesa,
voglio condividere piccoli e semplici fatti personali che mi hanno affascinato
di questo meraviglioso popolo sperando cosi di ripagare in parte
quell’amicizia, fiducia e ospitalità nonché di posti visti e racconti che non
molti bianchi hanno avuto modo di vedere o farne esperienza, ma che mi vennero
a me donate durante il tempo che ho speso a Port Hedland e dintorni generosità
e semplicità di spirito.
Centocinquanta
anni fa, gli aborigeni del west, nord-west, centro e nord-est australiano, e
duecento anni per il sud-est australiano, hanno per la prima volta nella loro
esistenza, conosciuto l’uomo bianco.
Prima
d’allora, essi sono praticamente vissuti alla stessa, identica maniera per gli
ultimi quarantamila anni, la loro maniera di coprirsi, cacciare e il loro
sistema sociale e’ rimasto intatto per tutto questo tempo.
Gli
aborigeni non hanno mai avuto l’alfabeto, la carta per scrivere, case,
agricoltura con granai per i tempi difficili, non conoscevano la ruota, ne i
cavalli, non facevano la guerra e non si sono mai curati di sviluppare ne il
ferro ne il bronzo.
Basilarmente
sono sempre stati un popolo nomade di cacciatori che vivevano in piccoli gruppi
e senza nemici in una terra che a prima vista sembrò inospitale ai
colonizzatori ma per gli aborigeni era ed e’ ancora una terra che permise la
loro razza di vivere indisturbati e felici per decine di migliaia di anni.
Uno
potrebbe argomentare a questo punto che solo dei selvaggi non riuscirebbero a
fare dei passi avanti in quarantamila anni, ma e’ proprio questo il punto, non
ne hanno mai avuto bisogno!
I
loro bimbi venivano allevati da tutto il gruppo, le donne raccoglievano i
frutti della terra e del bosco, gli uomini cacciavano e pescavano in gruppo e i
vecchi si assicuravano di scegliere con cura i successori che avrebbero
tramandato la loro storia e saggezza nonché la storia della loro gente.
Alla
fine della giornata il gruppo si riuniva davanti al fuoco comune e dopo
mangiato, gli anziani usualmente raccontavano le loro leggende. Leggende che si
perdevano nell’oscurità dei tempi e tramandate da centinaia di generazioni.
Queste
leggende sono chiamate il “Dream-time”.
Dreamtime
letteralmente tradotto sarebbe “tempo di
sogni”, ma nel nostro caso, la vera interpretazione aborigena e’ la seguente:
la parola tempo si riferisce a “
Storia del tempo prima del tempo”, oppure “Il tempo della creazione di tutte le
cose” e Dream si riferisce alle cose spirituali a cui gli
aborigeni credono.
Gli
aborigeni raccontano che gli spiriti dei loro stessi antenati scesero dal cielo
per la prima volta all’inizio del tempo, e camminarono sulla terra prendendo
forme umane, forme di animali, forme di montagne, di fiumi etc. e ogni volta
che si fermavano nel loro “walkabout”
(vagabondaggio), creavano altri fiumi, altri animali, altra gente, altre
montagne etc, e tutto venne creato nella loro immagine e nella forma che
vediamo oggi.
Gli
spiriti stabilirono pure le relazioni
tra i gruppi, sia gruppi di gente o gruppi diversi di animali, la relazione tra
il fuoco e l’acqua e per tutto il resto della creazione, (dettero vita e
coscienza al tutto).
Poi
quando gli spiriti ebbero finito la creazione, essi si trasformarono nelle
montagne, fiumi, stelle, sole, terra e tutto quello che erano diventati alla
loro discesa sulla terra e rimasero cosi per sempre e cosi rimarranno per
sempre.
Per
gli aborigeni, il passato per quanto remoto sia ( inclusi i tempi della
creazione), e’ vivente adesso ed ora in questo momento, ed e’necessario che sia
cosi per la vita stessa di tutto il cosmo, e tutto rimarrà cosi sempre vivo in
futuro fino alla fine dei tempi.
Quindi
gli aborigeni raccontano che gli spiriti dei loro antenati sono ancora vivi e
presenti tra di noi e sempre lo saranno.
Lo
stesso per le cose della creazione, per esempio quando un gruppo di aborigeni
aveva vissuto per un dato periodo in un certo territorio, lo avevano fatto
senza sbilanciare il delicato equilibrio della creazione, cercando di non
spostare nulla e cercando di fare il meno danno possibile, e cercando di
prendere dal territorio solo lo stretto necessario per vivere.
Inevitabilmente,
tale territorio prima o dopo, veniva a mancare degli stretti necessari, come
cacciagione, pesci o tuberi. A questo gli aborigeni semplicemente rispondevano
ritornando il tutto il più possibile come l’avevano trovato inclusa la
posizione dei sassi, e cambiavano zona dimodoché la “madre terra” potesse
“guarire” i danni da loro causati, e in tempo poter cosi ospitare un’altro
gruppo. In questo sistema vissero per quaranta mila anni.
Bah,
chiamali selvaggi!
Dal
casino che noi bianchi siamo riusciti a fare alla nostra “madre terra”, c’e’ da
essere fortunati che la terra stessa non ci abbia ancora preso a pedate nel
sedere.
A
proposito di selvaggi, John ( cosi lo chiamerò per rispetto al suo desiderio)
e’ uno dei più grandi amici io abbia mai avuto. John e’ aborigeno nato e
cresciuto per quasi tutta la sua vita nella remota regione del Pilbara.
La
mamma di John, una dolcissima donna, non conosce i propri genitori perchè lei
stessa era parte del famoso e vergognoso progetto colonialistico di
integrazione che cercava di trasformare la razza aborigena in una razza bianca
mediante una serie progressiva di incroci matrimoniali con i coloni bianchi, e
a questo scopo bambine e bambini di tenera età da tre a circa otto anni,
venivano portati via, letteralmente tolti anche con la forza mediante le forze
dell’ordine, dalle famiglie aborigene e portati lontano a migliaia di kilometri
in scuole governative specializzate dove venivano “educati” per civilizzarli e per eventualmente farli
incrociare con i bianchi.
Questo
infamante progetto venne abolito solo nel 1971! Avete letto giusto! Millenovecentosettantuno.
John
mi parlò molto della madre che adora, mi disse che eventualmente era riuscita a
fuggire dalla scuola vivendo per molto tempo nascosta nel bosco ed
eventualmente molti mesi più tardi ritornando nel Pilbara.
Fu
attraverso la madre di John che conobbi Daisy,
Molly
fu più tardi ricatturata ma fuggì ben altre due volte e diventando una leggenda
vivente tra la sua gente.
Ho
imparato molto di questa gente nelle ore passate assieme a John pescando in
barca nel dedalo dei canali delle immense foreste di Mangrovie di Port Hedland,
foreste che cambiano la loro geografia perchè di maree che raggiungono
John
girava quella zona a occhi chiusi, sapeva esattamente dove ci sono scogli
affioranti che potrebbero rovinare lo scafo, dove c’erano sabbie mobili, dove
c’erano avallamenti profondi nel fondale o quando il mare si sarebbe fatto
brutto solo annusando la brezza in un pomeriggio di sole.
Imparai
con lui cose fiabesche, una volta mi insegnò come pescare con la rete da lancio
a mano su mezzo metro di acqua facendosi aiutare dagli “Redtip Sharks “ (piccoli squali di qualche mezzo metro a settanta
cm. di lunghezza che si muovono in piccoli branchi.), una cosa inverosimile ed
incredibile, ma se si sa come fare, i piccoli squali agiscono esattamente come
i cani in un gregge di pecore che aiutano il pastore ad aggrumarle,
l’importante e tenerli sempre di fronte con una seconda persona che ti guarda
le spalle.
Imparai
a capire quando non scendere in acqua se pur bassa perchè i grossi predatori
erano nelle vicinanze, White Pointers che entravano le mangrovie per sfamarsi e
che avrebbero attaccato senza dubbio.
Imparai
a “leggere” il mare a bassa marea e sapere dove mettere i piedi sui sassi del
fondo senza calpestare qualche “Stonefish”
le cui spine dorsali danno morte sicura, come evitare le conchiglie affusolate
che lanciano un dardo velenosissimo se disturbate, sapere quali pochi giorni a
che tempo dell’anno evitare il mare del tutto perchè il “Box Jellyfish” infesta le acque, creatura che non e’ più grande di
Imparai
come evitare mille altri pericoli dei tropici e apprezzare le sue meraviglie.
Ci
sono state lunghe serate accampati su qualche spiaggia lontana da tutto durante
le nostre partite di pesca del weekend, con John, un suo amico aborigeno e due altri
nostri amici Maori, due barche, e il mondo come Iddio l’aveva creato, posti che
molto probabilmente non avevano mai visto anima viva, posti totalmente
selvatici e completamente vergini.
John
usava raccontare storie e leggende perdute nei tempi tramandate dai suoi
antenati, era affascinante sentir raccontare di un mondo dove non era mai
esistito un uomo bianco, leggende di spiriti scesi dal cielo, di natura che
acquistava vita nei suoi racconti, di uomini vissuti chissà quanto tempo fa che
avevano compiuto cose da giganti guadagnandosi un posto sul “Dreamtime”.
Non
di meno erano gli amici Maori, con le loro leggende delle innumerevoli isole
dei mari tropicali e della Nuova Guinea, orgogliosi e feroci guerrieri fino a
poche decine di anni fa.
Arrivai
nello sterminato Nord Tropicale, rovinato finanziariamente, col morale
distrutto e sopratutto senza nessuna fiducia per il prossimo, e ne uscii dopo più di dieci anni
completamente cambiato.
Il
Pilbara Australiano mi dette la possibilità, si, di rifarmi finanziariamente ma
questa e’ cosa totalmente frivola se associo la ricchezza spirituale che
acquistai.
John
e la sua gente hanno contribuito immensamente a questo, il rispetto che nutro
per gli aborigeni e’ sano e sincero. Chissà se un giorno riusciranno ad essere
la nazione cui aspirano tanto. Lo auguro loro con tutto il cuore.
Come
ho detto al principio, questo scritto non e’ un essay sulla razza aborigena, ma
solo un ringraziamento a questa gente da cui tanto ho avuto e tanto mi hanno
dato.
John
e’ un Ingegnere Minerario laureato all’universita di Perth, sposato con una
graziosa moglie Maori e due bellissime bambine.
Grazie
John.
MERICANI
di Giorgio
Rinaldi
Questo
è il racconto del viaggio che fece il mio bisnonno paterno quando partì per le Americhe, in cerca di fortuna.
Era
il 2 aprile del 1911 e il mio avo, insieme a tanti altri poveri diavoli, si
imbarcò a Napoli con destinazione New York su un bastimento tedesco: il Konig
Albert.
In
compagnia di altri 1798 passeggeri di terza classe, quel piccolo e minuscolo uomo
attraversò le Colonne d’Ercole, di cui non aveva mai sentito neanche parlare, e
per settimane non vide altro che l’immenso oceano.
A
bordo fu costretto a rispondere a domande di cui lui, quasi analfabeta, non ne
conosceva il significato: “sei anarchico ?”, “sei poligamo ?”.
Solo
con l’aiuto della complice mimica di qualche viaggiatore più … “letterato” le
risposte arrivarono secondo il desiderio del funzionario delle dogane
americane, e il questionario venne completato con successo.
Mare
grosso, onde mai viste, venti formidabili.
L’odore
pungente della salsedine e del cordame bagnato, poi –finalmente- la Baia di
Hudson, Manhattan.
Il
viaggio, però, per i passeggeri di terza classe non era finito: c’era Ellis
Island che li attendeva, la quarantena prima di essere ammessi nel Nuovo Mondo.
Il
grande casermone sulla minuscola isola a poca distanza dalla Statua della
Libertà era stato costruito apposta per “selezionare” quei poveri cristi che
cercavano solo di guadagnarsi, letteralmente, un pezzo di pane.
In
quell’isoletta il mio bisnonno passò un altro mese abbondante: fu spogliato,
disinfettato, schedato, deriso, sfruttato, trattato come una bestia; ma anche
accolto, sfamato e caricato di speranze.
Al
progresso americano sacrificò una gamba, lasciandogliela.
Poi,
nacqui io.
DOMINATI DAI PIN
di Nicola Perrelli
In principio c’era solo quello del
bancomat, ora senza Pin (Personal Identification Number) e’ praticamente impossibile
vivere.
Sono infatti davvero poche le circostanze
quotidiane che ci danno ancora la
libertà di agire, di viaggiare, di comunicare, di navigare in rete e perfino di
lavorare, senza dover prima digitare un
codice segreto, una parola d’ordine, una password.
Siamo ormai schiavi dei Pin. Oppressi dalla
necessità di dover ricordare, o meglio memorizzare, qualche dozzina di codici
segreti per condurre una vita “normale”. Li utilizziamo dal mattino alla sera.
Per avviare il telefonino e il computer appena svegli, per inserire l’allarme
quando usciamo di casa e per bloccare la porta blindata quando rientriamo al
far della notte. Poi per rifornirci di
contante al bancomat, per fare carburante alla stazione di servizio e per
collegare il proprio terminale sul luogo di lavoro. Ma anche per prenotare un
treno, un aereo, un albergo, una vacanza, per leggere la posta elettronica, per
le operazioni di e-commerce, per controllare il conto in banca. E sempre più
per la fruizione di servizi pubblici, come accade per esempio già a Milano dove
parcheggi e accesso al centro sono informatizzati.
Pin e codici segreti ci rendono
insomma la vita veramente difficile.
Per agire con l’immediatezza che ci impone
l’odierna società interattiva, siamo costretti non solo a memorizzare i nostri
molteplici dati riservati, quanto a cercare di proteggere e mimetizzare, paradossalmente
con altre codificazioni, la nostra identità digitale.
All’inizio, con il mitico bancomat,
pensavamo, e lo credevano anche le banche, che il problema era uno solo:
proteggere il Pin da occhi indiscreti per scongiurare il pericolo di prelevamenti
impropri. Con la proliferazione senza
limiti di codici e password ci siamo invece accorti che è soprattutto
necessario tenere un certo ordine in questo caos di numeri e di lettere per non
rischiare di risultare sconosciuti proprio alla nostra banca o di non poter
confermare la tanto sospirata vacanza prenotata sul web.
Del resto una recente ricerca fatta in Gran
Bretagna ha stimato che ogni cittadino di Pin ne utilizza in media una
quindicina e uno su dieci quasi cinquanta. Calcolando che ogni Pin è composto
da 7 o 8 caratteri, possiamo sostenere che tra i 100 e i 350 caratteri
alfanumerici è confinata una buona parte
della nostra vita.
Ma non
è finita, per agire in sicurezza, gli stessi codici periodicamente devono
essere modificati o cambiati, e lo stress aumenta.
Come fronteggiare allora la situazione?
Considerato che la velocità del cambiamento
è stata di gran lunga superiore rispetto alla nostra velocità di apprendimento
mnemonico, conviene affidare la gestione delle nostre password e codici segreti
ancora una volta ad un sistema informatico. In sostanza si tratta di software,
alcuni liberi e gratuiti, creati appositamente per ordinare, organizzare e
proteggere nel modo migliore i nostri dati personali.
Sono casseforti virtuali dentro le quali
possiamo riporre tutte le informazioni
riservate che ci riguardano.
I promemoria virtuali più noti sono: il
Roboform che permette di archiviare in modo sicuro le password e generarne di
nuove e complesse; il Keepass che oltre alla archiviazione e generazione ha un
sistema che rende illeggibile la password in caso di furto del pc; il Web
Confidential che come i precedenti aiuta
ad archiviare, organizzare e criptare le password.
In ogni caso non è sbagliato annotare i
dati personali e riservati su un comune blocco notes, avendo però l’accortezza
di tenerlo al sicuro, in un posto sicuro non facilmente accessibile.
C’è una speranza: il debutto tra qualche
anno del “codice” unico.
L’ISOLA CHE NON C’E’ PIU’
di Paola Cerana
C’era una volta un’isola bellissima.
Una
distesa infinita di soffice sabbia, tiepida e docile, accarezzata dai capricci
del vento, unico vero architetto di un paesaggio dalle mille sfumature. Un
susseguirsi di morbide dune che si srotolavano pigre fino a tuffarsi
nell’oceano, a sfidare le onde prepotenti,
violente come schiaffi che sfumano nell’aria. Onde che accompagnavano
maestose tartarughe marine che, con la loro pesante lentezza, qui trovavano
puntualmente nido. Un tripudio di colori, accesi da un sole di fuoco, sapore di
sale e odore di mare da ubriacare i sensi. Sensi che giocavano liberi,
indisturbati, in un’immensità incontaminata, che regalava l’illusione a
chiunque la penetrasse di essere tra i pochi esseri umani eletti a godere di
tanta bellezza. Bellezza selvaggia come la natura della sua gente, forte e
fiera ma anche mite e disponibile, sempre aperta al sorriso. Gente dalla
vivacità contagiosa come le note dei suoi canti che accompagnavano il ritmo
sensuale del funanà durante le lunghe
notti incastonate di stelle. Un fondersi magico tra l’anima esuberante
dell’Africa e lo spirito malinconico del Nord Est del Brasile.
Quell’isola
era Sal, una perla dell’arcipelago di Capo Verde, affacciata sulla costa
dell’Africa Occidentale, a circa
Oggi
quella Sal non c’è più. Al suo posto un enorme cantiere aperto. Case private e
alberghi a cinque stelle in costruzione, enormi villaggi all-inclusive uno a
fianco all’altro, strade asfaltate sempre più battute dalle jeep e dai quad dei
turisti, supermercati, ristoranti e discoteche in ogni angolo del paese stanno
rapidamente snaturando l’isola. Santa Maria, il piccolo paesino che dà il nome
alla spiaggia più bella, soltanto 15 anni fa non era che un villaggio di
pescatori attraversato da tre vie parallele a ridosso del mare e, allora,
ospitava solo due modesti alberghi.
Oggi
è un susseguirsi di edifici a più piani, che sorgono a ritmi vertiginosi nella
più completa anarchia di stile, mentre bar e locali d’ogni tipo fanno a gara
per conquistarsi la pole position e offrirsi alla passerella di turisti, sempre
più numerosi, in cerca di divertimento. Il paradiso dei surfisti si è
trasformato nel paradiso degli speculatori edilizi e il deserto viene via via
divorato dal cemento.
L’arcipelago
di Capo Verde si è sviluppato turisticamente negli ultimi 20 anni e Sal è stata
la prima isola ad essere sfruttata proprio dagli Italiani. Pur non essendo la più
attraente dell’arcipelago - Boa Vista, Sao Vincente, Santiago, Fogo sono molto
più lussureggianti, colorate e offrono paesaggi più diversificati – Sal è stata
a lungo l’unica ad offrire ai turisti un aeroporto internazionale, l’unica,
quindi, comodamente raggiungibile con volo diretto dalle maggiori città
europee. In poco più di cinque ore e con solo due di fuso orario ci si ritrova
lontano dalla nebbia di Milano direttamente al caldo del sole africano. Ma
molti sono i motivi che hanno incoraggiato gli investimenti qui: oltre alle
condizioni climatiche favorevoli tutto l’anno, una situazione socio-politica
priva di tensioni, l’assenza di fanatismi religiosi, una popolazione mite e
accogliente ed infine la mancanza di minacciose malattie endemiche.
Insomma,
a Sal si sta bene. Ma per quanto ancora?
Dopo
vent’anni il paesaggio è completamente stravolto ma pare che questo a nessuno
importi, a partire dal Governo di Capo Verde, che continua a consentire la dissennata
colonizzazione del Paese. Il risultato in termini economici per gli investitori
stranieri è sicuramente notevole. Meno lo è, però, per i Capoverdiani impiegati
come manodopera, spesso sottopagata, nelle strutture turistiche. I più
fortunati lavorano negli hotel e nei villaggi ma quelli sono davvero un élite
perché la maggior parte di loro viene ammassata ogni mattina su grossi camion e
scaricata nei cantieri o lungo le strade da asfaltare, per essere recuperata al
tramonto e riportata nelle baracche di Espargos o Palmeiras.
Anche
la composizione sociale degli abitanti è stata stravolta, perché dalle altre
isole, ancora quasi incontaminate, arrivano ogni anno frotte di giovani
abbagliati dal miraggio di un guadagno facile ma difficilmente sufficiente a
fornir loro una vita dignitosa, dato che a Sal tutto costa il doppio e i prezzi
sono ormai indicati in euro anziché in escudos. Perciò i casi sono due: o se ne
tornano a casa disillusi, lasciando il posto ad altri giovani animati di nuove
speranze, alimentando così un logorante turnover, oppure restano nell’isola accontentandosi del
proprio stipendio o, più spesso, arrotondandolo con espedienti non sempre
puliti. Oltretutto a Sal vive una numerosa comunità di Senegalesi, dal
temperamento ben più spavaldo e invadente rispetto ai Capoverdiani, per indole
riservati e rispettosi, e non essendoci un gran feeling tra le due etnie non
sempre la convivenza risulta facile. La conseguenza di tutto ciò è una
popolazione disorientata da uno sviluppo esploso troppo in fretta, che l’ha
costretta a fare un balzo di cento anni in un solo ventennio, gettandola in
pasto a spregiudicati colonizzatori che non contribuiscono affatto a creare nel
Paese professionalità e infrastrutture utili alla sua gente.
Questa
è la realtà attuale di Sal ma è anche il destino delle altre isole
dell’arcipelago di Capo Verde, prima tra tutte Boavista, dato che da gennaio di
quest’anno è operativo il suo tanto atteso aeroporto internazionale e
sicuramente, già quest’estate, i suoi due villaggi italiani saranno presi
d’assalto.
Mi
si stringe il cuore pensando che il deserto che mi aveva accolta oggi sta
scomparendo e mi chiedo se ne resterà almeno uno scorcio in memoria della Sal
che fu. Mi domando dove andranno a
depositare le uova le tartarughe, una volta giunte qui, quando troveranno un
residence al posto della loro spiaggia. Immagino con tremendo dispiacere quel
tranquillo specchio d’acqua che è Buracona, quella piscina naturale in cui ci
si può immergere in silenziosa estasi dopo che l’oceano vi ha riversato tutta
la sua furia, trasformarsi in un orribile aquapark, con tanto di scivoli e
trampolini acrobatici.
Così
come mi chiedo che fine farà Pedra do Lume. La vecchia salina nel cuore di un
cratere vulcanico, a lungo sfruttata dai Portoghesi, in cui l’acqua del mare
penetra ed, evaporando, dà vita ad un paesaggio lunare, quasi dantesco,
illuminato dai cromatismi del salgemma mescolato al suolo lavico. Qui ci si può
ancora bagnare nelle vasche di desalinizzazione, godendo della piacevole
sensazione di restare sospesi come astronauti nel nulla. Alcuni superstiziosi
credono addirittura che in queste acque si nasconda un elisir di lunga vita. Ma
se domani Pedra do Lume diventasse un spa resort con tanto di centro benessere
e thalassotherapia, seppellendo assieme al cratere anche tutta la sua storia? E
mi chiedo, infine, che fine avranno fatto i giovani che avevo conosciuto, pieni
di entusiasmo e di ottimismo. Ripenso ai loro sorrisi, ai loro sogni, alle
danze sensuali nella notte, alla capoeira fiera sulla spiaggia e alle acrobazie
dei kite surf liberi nel vento.
Così,
tra bei ricordi e vane speranze, riascolto con nostalgia le canzoni di Cesaria
Evora, la “diva a piedi nudi” di Mindelo, struggente e malinconica, crocevia di
emozioni in musica tra Africa, Europa e Brasile. “Rogamar”, cantava, letteralmente una “preghiera al mare”, una
celebrazione alla bellezza del suo Paese, una poesia tropicale in note che
trasmette tutta la saudade e la
solarità di un popolo e della sua terra che, almeno nelle canzoni, potranno
sopravvivere per sempre incontaminati.
Il cielo si è schiarito
La coscienza si è destata
é arrivata l'ora di affrontare la realtà,
Un popolo che ha sofferto
può calmare il suo dolore
Per vivere in pace e nel progresso
Se avremo fede
Nelle nostre capacità
La nostra mamma Africa sarà felice un giorno...
Nossa Africa, Cesaria Evora
EL CAMINO:
RITORNO A SANTIAGO DE COMPOSTELA
di
Cantares...
(…) Caminante, son
tus huellas Al andar se hace
Camino (…) |
(…) Viandante, sono le tue orme (…) |
Furono questi versi di Antonio Machado a condurmi la prima volta sul Camino. Era il 1987 e questi versi erano
riportati in un coinvolgente articolo di Marina Cepeda Fuentes pubblicato su Abstracta (autorevole rivista di colti autori purtroppo da tempo
muta) dal titolo: “Sulle
orme dei pellegrini del Medio Evo – La via lattea: il Camino di Santiago”. L’articolo prendeva spunto dall’iniziativa
del Consiglio d’Europa che scelse l’insieme dei percorsi che portavano gli
antichi pellegrini alla tomba dell’apostolo Giacomo come “primo itinerario culturale
europeo”, preannunciando una
serie di iniziative del Consiglio che a partire dal 1988 avrebbero incitato al
recupero del patrimonio storico, artistico e culturale legato al Camino. Si ricostruiva una parte dei miti e
delle leggende che furono motore del pellegrinaggio, indicando alcuni possibili
modi di inoltrarsi lungo
Le origini ci riportano ad una notte dell’anno
Le remote origini del pellegrinaggio si perdono nelle pagine
bibliche ed il pellegrinaggio inteso come percorso di fede è comune a molte
religioni. Da Roma, a Gerusalemme, alla Mecca, a Lhasa, al Gange, un reticolo
di rotte dei pellegrini… Il pellegrino abbandonava la sua casa per un periodo più
o meno lungo, a volte (viste le insidie ed i pericoli che lo attendevano sul
cammino) anche per sempre. Tanti pellegrini non fecero più ritorno. Cosa li
spingeva ad intraprendere un viaggio lungo e rischioso? Fare penitenza,
ottemperare ad un voto, ottenere guarigioni o semplicemente seguire un impeto
di devozione... Qualunque fosse la motivazione il pellegrino si proponeva
comunque come colui che abbandonava il suo passato, con una forma di moderno reset , per scegliere una “via differente” verso un luogo di liberazione, di
illuminazione e di salvezza, dove bere “alla fonte dell’immortalità”.
Nacque così un culto sconcertante, un sentiero di
pellegrinaggio accessibile a tutti quelli che seguendo il Cammino delle Stelle,
La Galizia forse più di qualsiasi altra regione della
Spagna, ha mantenuto vivo il contatto con le tradizioni ancestrali e credenze
arcaiche risalenti ai Celti o a più antichi abitatori di quelle terre. Come
Frastornato da queste scoperte riposi l’articolo, misi l’itinerario nel cassetto, in fondo
alla lista delle ipotesi di viaggio che allora reputavo prioritarie e me ne
dimenticai, quasi!
A seguito di uno di quegli scherzi che mai vorresti la vita
facesse, il 29 aprile 1989 con una amico, l’articolo citato, una Mapa de Comunicaciones del Ministerio de Trasportes, Turismo Y Comunicaciones, il percorso del Camino indicato dal Codex Calixtinus del XII sec., partimmo sotto una
pioggerella primaverile da Mormanno alla volta di Santiago di Compostela.
Avevamo poco tempo e stimato grossolanamente in circa
Facemmo la prima tappa ad Aix in Provence, il giorno dopo
raggiungemmo Louordes e facemmo visita al luogo sacro dove, ancorché il soffio
del divino, si respiravano, allora come ora, i venefici e asfissianti miasmi
della mercificazione globale e totale che occupa i polmoni. Lasciammo Lourdes
al tramonto, riflettendo sullo sguardo benevolo della Madonna e sul suo
pensiero puro, ignorato e trascurato dai più delle moltitudini provenienti da
ogni dove. Ci muovemmo in direzione Pau da dove, all’indomani avremmo
intrapreso la tappa pirenaica. I principali itinerari, si biforcavano sui
Pirenei attraverso due passi: Somport e Roncisvalle.
Optammo per Somport, quello a noi più vicino, ed il primo
maggio attraversammo, sul passo innevato, la frontiera franco-spagnola.
Raggiungemmo Jaca prima tappa del tratto finale, in terra spagnola, per chi
proveniva da questo itinerario. Da li si sono snocciolati come grani di un
rosario le tappe e sentinelle del Camino: Pamplona, Puente la Reina (dove si riunivano i due
percorsi pirenaici), Estella, Logrono con l’attraversamento del fiume Ebro che
ci ripropose epiche vicende della guerra civile spagnola. Proseguimmo quindi
per Santo Domingo de la Calzada, Najera. Arrivammo finalmente a Burgos dove
facemmo tappa. Il percorso che seguimmo, non si avvalse né di internet, né del
GPS, non c’era neanche il telefonino. Usammo un metodo che potremmo
impropriamente definire “cabotaggio” nel senso che raggiunto un luogo seguivamo le indicazioni
stradali per raggiungere il successivo. Facemmo percorsi che spesso si
avvalsero anche di strade sterrate, passando per villaggi semideserti e
sperduti dove campeggiavano a volte spropositati e monumentali edifici di culto
che, sia pure segnati dai secoli, mantenevano intatto il fascino della loro
storia e l’energia lasciata nel transito da legioni di pellegrini. Ci
confermavano la rotta i cruceiros, antiche colonne di pietra con sopra una croce, proprio come quella
della nostra vicina Lauria, posta sotto la protezione di San Giacomo.
Splendidi corvi neri, testimoni di una natura inviolata, ci
accompagnarono, come fedeli compagni di viaggio, per molti tratti del percorso,
aiutandoci a volte nelle randomiche scelte ad anonimi crocevia. Da Burgos proseguimmo per
Castrojeriz, Fromista, Carrion de los Condes, Sahagùn e quindi Leon.
Proseguimmo per Astorga, Rabanal, Ponferrada.
E qui per i pellegrini cominciava un impegnativo tratto di
montagna, soprattutto per chi vi arrivava di inverno. Tanti chilometri nelle
gambe ma anche la consapevolezza che il più era fatto, anche se era comunque
tanto quello che rimaneva da fare. Proseguimmo per Villafranca del Bierzo, e
quindi per Predrafita del Cebrero, quota 1.100 mt che a queste latitudini sono
tanti. La sera ci sorprese a Sarria dove passammo
Ci accoglie l’imponente navata principale. Sospeso nell’aria
il Botafoumeiro, il grande incensiere che viene azionato
solo in particolari occasioni. Oltre
l’altare maggiore è collocata, in alto, una statua del XII secolo di San
Giacomo. La statua rivestita di materiali preziosi è oggetto della venerazione
dei fedeli che le sfilano alle spalle affidandole richieste, preghiere,
propositi, intendimenti e voti…. Sotto la navata il sepolcro con le reliquie
del Santo. Girovagammo alla scoperta della città e ci fermammo la notte a
Santiago. Il giorno dopo, sulle orme dei pellegrini più audaci, partimmo alla
volta dell’Atlantico, il Mare Tenebroso temuto dai Celti. Andammo a Noya
cittadina il cui passato è legato, secondo la tradizione, a Noè. Giungemmo a
Finisterre sulla Costa della Morte dove per gli antichi finiva il mondo
conosciuto e da dove le anime dei morti ultimavano il loro cammino terreno per
ritornare nella Via Lattea…
Arriviamo al faro di Finisterre (Fisterra), all’ultimo cruceiro con
Qui i pellegrini bruciavano gli indumenti del Camino, per sancire l’inizio di una nuova vita
e prendevano la conchiglia da affiggere sulle vesti e che tributava loro
rispetto. Qui la strada percorsa fa sentire tutto il suo peso circa
Ci dirigiamo verso Le Puy da dove partì uno dei primi
pellegrinaggi per Santiago e quindi verso casa, dove arrivammo dopo una
settimana dalla partenza, e circa
Anni dopo ho letto il libro di Coelho dedicato al Camino e vi ho trovato attraenti ed inconsueti
spunti. I pellegrinaggi di Santiago di Compostela, di Gerusalemme e di Roma
costituivano la triade dei grandi pellegrinaggi medievali, i soli per i quali
era concessa indulgenza plenaria. Degno di attenzione il simbolismo che nel
libro viene associato a questi pellegrinaggi.
E così, un giorno di marzo, con lo stesso amico di 19 anni
prima ritorniamo sul Camino, col proposito di ottemperare
all’impegno preso. Di buon ora, con il vecchio articolo e
A Lourdes, si festeggia il Jubilè per il 150°anniversario della prima apparizione mariana del
1858. E’ un’ora in cui non c’è molta
gente, colpisce la quiete del luogo e l’imponente edificio di culto sorto sopra
la grotta di Massabielle dove un 11 febbraio la Madonna apparve per la prima
volta a Bernardette Soubirous. Mi stupiscono alcune lucille in vendita e la scritta “offerta consigliata 2,00 €”. Distanti dalla grotta
dell’apparizione, in direzione delle piscine dove fanno l’abluzione gli
infermi, una serie di box di lamiera, anneriti dal fumo, all’interno dei quali
bruciano costosi ceri di diversa dimensione con la scritta in diverse lingue “Questa luce prolunga la mia
preghiera”. Lo stesso Dio,
eppure tanto diverso da quello di Chiara e Francesco…
Come nel primo viaggio lasciamo Lourdes alla volta di Pau.
All’indomani passiamo i Pirenei ancora per il valico di Somport. La prima
sorpresa: un tunnel che ci evita la scalata delle innevate cime e ci porta
agevolmente in territorio spagnolo. La Spagna che troviamo è irriconoscibile:
strade ammodernate e diverse autostrade, compresa l’Autovia Camino di Santiago. Il pensiero va al Don Chisciotte di
Cervantes con una miriade di generatori eolici e le loro enormi pale, che con
diversi pannelli solari ci accompagnano su tutto il cammino. Una curiosità che
notiamo: in tutto il percorso non abbiamo visto una sola discarica né legale,
né abusiva.
Sul Camino una nuova e diffusa segnaletica per i
pellegrini con parecchi punti di informazione e la chiara indicazione dei
sentieri da percorrere a piedi. Con stupore vediamo e salutiamo singoli o
gruppi di gente di tutte le età che a piedi, ma anche in bicicletta, con zaini
e scarpe da trekking camminano ai lati della strada. Volti segnati dalla fatica
ma anche dall’entusiasmo. Nel viaggio precedente non ne incontrammo uno. Non
vediamo i Cruceiros
ma ormai è la nuova
segnaletica a guidarci… Proseguiamo per l’autostrada fino a
Villafranca del Bierzo, e quindi ci inerpichiamo a Predrafita del Cerbero. Il
tempo minaccia neve, lasciata l’autostrada ci muoviamo per una strada
secondaria tortuosa e con buche; tentiamo e riusciamo ad arrivare a Sarria come
nel primo viaggio.. Arriviamo di sera.
Non riconosciamo la modesta cittadina che avevamo lasciato.
Cresciuta molto, come del resto l’intera Spagna.
Il giorno dopo siamo a Santiago, piove a dirotto. Troviamo
riparo in una chiesa dove vediamo una bellissima statua dell’addolorata. Alcune
signore addette alla pulizia ci spiegano che la chiesa è sotto la cura della Confraria Nosa Senora da Quinta
Angustia (fondata nel
1464). In ogni città spagnola piccola o grande che sia,
tra le confraternite storiche più importanti di Santiago
ricordiamo, oltre a quella citata, usando la denominazione galiziana: Noso Pai Xesùs Nazareno e a
Santissima Virxe das Dores, Orde Franciscana Segrar, Esperanza, Humildade,
Cristo da Paciencia, Santissimo Cristo da Misericordia, Vera Cruz, Noso Pai
Xesùs Flaxelado, Numeraria do Rosario,
Virxe da Soidade (il cui mantello
è riccamente decorato con la preziosa pietra nera Azabache che solo pochi artigiani compostellani
sanno e continuano a lavorare), Cristo da Unciòn, Cristo da Paciencia.
Dopo Santiago ci attende Finisterre, fine del Camino! Ritorniamo al faro costruito nel 1853
che a
Stavolta troviamo moltissima gente e un improvvisato box che
vende souvenir. Ricordavamo un posto deserto dove incontrammo solo donne di
ogni età vestite di nero che salivano a guardare il ritorno dei loro uomini dal
mare. Qua è la resti dei fuochi di chi ha bruciato gli indumenti del Camino con un gesto di purificazione e
rinnovamento. E’ il tramonto, una coppia di giovani pellegrini, esausti ma
felici, restano a lungo abbracciati guardano il mare da questo mitico ed antico
lembo di terra. Il Camino fatto insieme li unirà per sempre, più
di ogni sentimento.
Restiamo a guardare il paesaggio. Il tempo qui cambia
rapidamente. Aspettiamo che il faro accenda il suo fanale. Guardiamo l’antico
Mare Tenebroso temuto dai Celti. Uno ad uno, nelle ombre della sera, vanno via
quasi tutti. Un repentino cambiamento del tempo ci sorprende vicino al faro.
Raffiche di vento e grandine spazzano il promontorio
camminiamo a fatica verso la macchina, una mano a protezione degli occhi per
vedere
Una breve visita, nel rispetto di una antica tradizione del Camino, all’annesso cimitero, ai nostri morti,
ed intanto nei paraggi comincia l’allestimento delle varie bancarelle di
dolciumi galiziani. La festa grande è nella processione a cui partecipano molti
gitani che venerano il Cristo
dalla Barba Dorada a cui offrono ex
voto in cera. Compriamo da una signora rom due candele e vediamo questi ex-voto
che rappresentano parti del corpo miracolate da guarigione. A mezzogiorno, si
ripete da tempo immemorabile la rappresentazione della Resurreciòn del Senor
dichiarata di Interés
Turistico Nacional. Suoni di campane,
botti, e voli di colombe, sbandieramenti ed il suono della banda salutano la
Risurrezione del Cristo. La cerimonia culmina con la Danza de Nosa Senora das Areas nota anche come Danza dos Paus en honor a
Nuestra Senora che alcuni
studiosi fanno risalire al XIII secolo. Lasciamo Finisterre con i suoi riti
intrisi di sincretismo. La strada del ritorno si prospetta lunga e stavolta non
proseguiamo per il mar Cantabrico ed il nord ma puntiamo verso Zaragoza e
A Ponferrada lasciamo la A6 per la LE-142 e ci dirigiamo
verso Molinaseca. Sulla strada un nido di cicogna su un traliccio dell’alta
tensione. La strada si fa stretta e si
inerpica su un percorso di montagna.
Passiamo per Riego de Ambròs e quindi per l’antico e particolare
villaggio di El Acebo, siamo nel Bierzo sul Camino di Leon. Le rovine di un cimitero diroccato e sepolto dalla
neve ricorda antichi abitatori di questo posto ora deserto.
Questa deviazione ci conduce verso quello che Cohelo nel suo
citato libro definisce “uno dei più importanti segnali del Camino di
Santiago: la croce di ferro (…) quello strano monumento, composto da un immenso
tronco alto quasi
Nevica e finalmente arriviamo alla Cruz de Hierro di Foncebadon. Siamo in alto a 1500 mt l’aria è fredda ed il cielo cupo e
plumbeo, non c’è nessuno. Questo monumento ci emoziona e ricordiamo una
tradizione (ormai scomparsa) della nostra infanzia che ci vedeva, nel periodo
della novena di San Michele, salire con le nostre mamme a Santa Croce portando
una pietra da lasciare ai suoi piedi.
La pietra che il pellegrino portava sul Camino e lasciava in questo luogo doveva essere
proporzionata alla espiazione da compiere e quindi ai peccati commessi. Dopo
aver riposto la nostra, guardiamo queste tante pietre e pensiamo alle tante
mani che le hanno portate, alle tante emozioni che trattengono, ai tanti
avvenimenti ad esse legati. Una fotografia su un mondo parallelo dalle forti
implicazioni spirituali che riesce ad andare oltre la materia eterna dei
frammenti di roccia. La sensazione è che lo spirito dei morti, qui più che
altrove, ci sovrasta misterioso. La Estadinha dei racconti dei vecchi galleghi di sicuro le notti senza luna passa e forse fa sosta sotto
questa croce illuminandola con la flebile luce dei ceri resa tremula dal vento
eterno.
Lascio ai piedi di questo monumento, oltre alla pietra
rituale, un grappolo di pensieri per i miei genitori e per tutti gli amici che
non ci sono più, che sono andati via o forse solo davanti a noi, nel Camino, pronti a tenderci una lucerna nella
notte, ed impedire che i nostri passi inciampino tra sporgenti ed insidiosi
sassi di un tortuoso, ed a loro assai noto, divenire.
Salutiamo la Cruz de Hierro muta vedetta su altri mondi e sentinella del Camino e attraverso la rassicurante discesa (non
nevica più), ci dirigiamo verso Rabanal del Camino, passiamo per El Ganso e
quindi ad Astorga riprendiamo la strada per Burgos e Miranda dell’Ebro.
Riattraversiamo il leggendario fiume sotto una fitta nevicata e proseguiamo
verso Logroňo e Zaragoza (ed il suo antico manoscritto). Ci attendono la
Catalogna, ed i Pirenei orientali sulla strada che ci riporterà a casa.
OLTRE IL CAMMINO
di Francesco
M.T. Tarantino
Fin
sulla pietra la ridondanza dei passi
Inceppa
il cammino e smarrisce il sentiero
Sulle
ossa di un santo trasmigrato nei sassi
Fra
spiagge e conchiglie che narrano il vero
E
con le anime scorrono le vie e il fato
In
percorsi di cielo tra sintonie celesti
Dove
incontri chi vuoi ma trasfigurato
E
ti si ferma il cuore e toccarli vorresti
Non
è ancora finito il cammino sui sassi
Più
in là c’è ancora una terra da mangiare
Con
il mare che ti aspetta oltre quei massi
E
lì tocchi il cielo e non riesci a parlare!
Si
spegne nell’anima il rumore dei passi
E
oltre quell’infinito vorresti naufragare
BEAUSANT, SII GLORIOSO !
di Francesco
Rinaldi
Beausant, sii glorioso !
Era l’urlo minaccioso di battaglia dei
Cavalieri Templari, i Poveri soldati di
Cristo.
Sopravvivi !
E’ l’urlo dell’homunculus modernus, il povero, miserabile abitante del pianeta
Terra in questi anni tristi e bui !
Lavoratore ! Batti tre volte la mano
sul tuo petto e grida: sono glorioso
!
La mente va a tutti quegli operai e
giovani liberi professionisti che, assolutamente soli, osteggiati da uno Stato
barbarico ed indifferente, che c’è solo per far sentire le sue vessazioni
economiche e sociali, ogni giorno con ferma volontà rappresentano l’ultimo
reale baluardo di una società che decade, ma che tenta di resistere.
Sono questi che proteggono le loro
mogli, governano le loro case, crescono i loro figli, contribuiscono alla
crescita dei Valori etici e sociali, nell’assoluto senso di abbandono e di
incertezza per il loro futuro e quello dei loro figli.
E lo Stato ?
Si dimostra indifferente verso il
benessere dei suoi numerosi consociati, supinamente asservito agli interessi di
poche, feroci, crudeli e spietate oligarchie !
Non è propaganda o moto di
ribellione, è solo la debole, inutile denunzia di un amministrato che, nella
tristezza quotidiana, tenta di sopravvivere, conservando quel minimo di
consapevolezza e di dignitas, in un
Paese che non dimostra di avere nessuna direzione, né compassione per le classi
meno agiate e deboli.
Non è che non manchino azioni di
grande valore, ma sempre isolate ed individuali, rimesse alla buona volontà di
nicchie.
Eppure è un Bel Paese, forse il più bello, inconfondibilmente accarezzato dal Mare nostrum da tre lati, fertile di
messi, ricco di storia e di uomini coraggiosi che hanno dato la vita per esso.
“Un
paradiso abitato da diavoli”, come ci ricorda un illustre scrittore!
di Emanuela
Medoro
Dalla scrivania di Rick Davis, dirigente della campana elettorale di John McCain, candidato del partito repubblicano alle prossime presidenziali americane, arriva un lettera circolare con data 20 maggio 2008 avente per oggetto la parola reckless, ovvero sconsiderato, irresponsabile. Leggendo la prima riga della lettera apprendiamo che l’irresponsabile in questione è Barack Obama, considerato tale per le sue dichiarazioni in politica estera.
Infatti
il senatore Obama ha manifestato il proposito di incontrare direttamente il presidente
dell’Iran, Ahmadinejad, per discutere il programma nucleare. Rick Davis scrive
che la gonfia retorica non convincerà l’Iran a rinunciare al suo programma
nucleare, e che è semplicemente sconsiderato per il presidente degli USA
accettare un incontro diretto con il leader dell’Iran, il più grande stato al mondo sostenitore del terrorismo, perché
questo renderebbe legittimo un regime che vuole l’estinzione dello stato
d’Israele e che è responsabile della morte di tanti americani.
E,
sempre secondo Rick Davis, il senatore
Obama vorrebbe anche incontrare, senza condizioni, i capi di regimi oppressivi
come quello di Cuba, dove il regime dei
Castro, prima Fidel ed oggi il fratello
Raul, pone forti limiti alle libertà di espressione, associazione,
assemblea, movimento e parola. Inoltre questo regime manifesta continuamente
odio contro gli USA, e tuttavia il senatore Obama vorrebbe tenere incontri senza condizioni.
Sarebbe bello un mondo senza nemici, ma non è quello in cui viviamo, e fino a
che Obama non accetta questo punto, è lecito mettere in dubbio le sue capacità
di giudizio e la sua determinazione a mantenere la sicurezza in USA.
Lo
stesso dubbio emerge per le sue posizioni sulla guerra in Iraq. Se fosse
eletto, infatti, il senatore Obama ritirerebbe subito le truppe dall’Iraq,
senza tener presente la situazione di quello stato ed il parere dei capi
dell’esercito. Francamente, aggiunge R. Davis, è una posizione irresponsabile
che di nuovo mette in discussione le
capacità di Obama ad essere il comandante in capo degli USA. La ritirata
prematura dall’Iraq farebbe sopravvivere AlQaeda, provocherebbe tensioni e
genocidi e destabilizzazione nell’intera regione. Inoltre l’Iran considererebbe
il ritiro come una sconfitta americana e
pertanto crescerebbe troppo la sua influenza in Medio Oriente. Tutto
ciò trascinerebbe gli USA in una guerra
più ampia e difficile, con gravi e pericolose conseguenze per il futuro.
John
McCain crede che l’America abbia sì bisogno di cambiamenti, ma tali che non
favoriscano Hamas, che non siano una resa in Iraq, e che non siano incontri
senza condizioni con il presidente dell’Iran.
Tutto questo da parte di John McCain e Rick Davis, in attesa di risposta da parte del candidato
certo del partito democratico per le
prossime elezioni presidenziali USA.
LE PRESIDENZIALI AMERICANE VISTE DALL’ITALIA
di Emanuela
Medoro
Il lungo viaggio verso
a Corte Suprema, come
Accade
che Hillary Clinton, nonostante i deludenti risultati delle ultime votazioni,
in Indiana e North Carolina, e nonostante le voci di un suo possibile ritiro,
abbia deciso di continuare la sua corsa
verso
Intanto
John McCain, candidato già certo del partito repubblicano, produce il suo
programma elettorale, capitolo per capitolo, con lettere circolari titolate “Dalla scrivania di John McCain”: prima
quella sulla sua vita e sulla prigionia in Nord Vietnam, poi sull’idea di
leadership, quindi sulla guerra in Iraq
e sulla sanità. La newsletter più recente parla del futuro della Corte Suprema
Usa. Segnala che durante il prossimo turno presidenziale si faranno almeno due
posti liberi nella Corte Suprema e che la nomina dei giudici è compito del
Presidente. Sottolinea poi l’importanza anche di un solo voto in quella sede e
che argomenti di fondamentale importanza - come i diritti degli Stati,
l’aborto, il Secondo Emendamento e la
libertà di religione - sono stati decisi con un solo voto di maggioranza,
Dice
ancora, McCain, di aver operato già in passato per favorire la nomina e la
conferma di due giudici della Corte Suprema, Chief Justice John Roberts e Samuel Alito, i quali hanno entrambe
dimostrato di essere degni della fiducia popolare, perché ritengono loro unica
responsabilità l’applicazione della legge fatta dai rappresentanti eletti dal
popolo. Essi, dunque, sono giudici di cui ci si può fidare per il rispetto dei
voleri del popolo, i cui diritti previsti nelle leggi e le cui proprietà essi
hanno giurato di difendere. Se invece sarà eletto Presidente uno dei
democratici, quello nominerà giudici attivisti che dal loro seggio faranno le
leggi, invece di applicarle. Conclude affermando che l’America ha bisogno di un
leader il quale riconosca che è compito del popolo e degli Stati decidere che
cosa è meglio per il Paese, non certo delle Corti e dei giudici.
Per
chiudere con argomenti più leggeri, cito la lettera inviata dalla moglie di
John McCain, Cindy, in occasione della Festa della mamma dove parla dei figli
numerosi e del loro futuro, che lei vede sicuro solo se il marito diverrà
Presidente. Acclude quindi un video con un dialogo tra John e la madre,
Roberta, felicemente in vita all’età di 96 anni. Infine, sempre a scopo di
raccogliere fondi, viene data notizia dell’apertura di un nuovo reparto
aggiunto al negozio on-line, per la vendita di magliette e berretti ecologici (ecofriendly).
SPARGEL, BITTE!
Raffaele
Miraglia
Per molti anni non ho mai considerato
Successe che c’era un ponte bello
lungo che comprendeva il 25 aprile e il 1° maggio e Rosella suggerì di andare a
vedere cosa succedeva in Baviera e lungo il Reno.
Fu così che scoprii
Anche quest’ultimo ponte l’ho
passato in Germania, e non solo perché attirato dagli spargel.
In effetti
Devo ammettere che la prima volta
che ci andai ero un po’ prevenuto sul cibo. Da bambino passavo la mie vacanze
estive in spiagge che si riempivano di tedeschi (e ne ricordo molti senza gambe
e in carrozzella, reduci di guerra). La leggenda metropolitana voleva che i
tedeschi mangiassero da schifo e riuscissero persino a condire gli spaghetti con
In realtà si trovano buoni piatti,
diversi da regione a regione, anche se spesso – quando manca il menù in inglese
- il problema è capire che piatti servono nel ristorante che avete prescelto.
I tedeschi, si sa, hanno la bizzarra
usanza di unire due, tre anche quattro parole e formarne una sola. La vostra
abilità nello scomporre in modo giusto quel mostro a 26 lettere vi consentirà
di capire se si tratta di carne o di pesce, di manzo o di maiale, ecc. ecc., e
il tipo di cottura e magari il condimento principale. Fatevi, poi, aiutare,
come faccio io, da un dizionario di soli termini cibarii. Io ne ho trovato uno,
piccolo e tascabile, buono per l’inglese, lo spagnolo, il francese, lo spagnolo
e l’italiano. Ci hanno pensato gli inglesi a sfornarlo – è proprio il caso di
dirlo – e si chiama Eating out in five
languages. E non fate i supponenti, usatelo! Altrimenti può capitare anche
a voi quello che è successo a me quest’anno a Plon dove avevo scovato un ristorantino consigliato dalla Michelin. Ho scelto un bicchiere di buon
vino rosso francese per accompagnare la piccata
che avevo ordinato. Nella mia mente la piccata
poteva essere solo di carne e, così, quando me la sono vista servire di
pesce, ci sono rimasto male e ho dovuto ordinare un vino diverso.
Se solo mi fossi spinto a leggere la
lunga parola che seguiva il termine piccata,
mi sarei accorto che c’era in mezzo un barsch
pronto ad avvisarmi che avrei mangiato del branzino.
Vi dicevo che aprile e maggio per i
tedeschi sono i mesi degli spargel. E
io e Rosella ci siamo uniti con gioia a questa vera mania.
Le vetrine dei negozi di casalinghi
festeggiano con l’ostentazione di pentole della misura giusta per cucinarli
ritti, di vassoi particolari ove servirli (fatti in modo che l’acqua, residuo della
cottura, si depositi in un sottofondo), di pinze dal disegno idoneo alla
bisogna, di attrezzi per pelarne i gambi, di piatti dalla lunghezza adeguata.
Persino
E quest’anno nella campagne dello Schleswig-Holstein, quella regione che
sta proprio sotto
Ovviamente nei mercatini delle erbe
di ogni città spuntano banchetti appositi e se ne vedono di varia qualità,
tutti rigorosamente bianchi, ovviamente.
Sì, perché gli asparagi in Germania
sono rigorosamente bianchi, belli grossi e molto saporiti.
di Pietro Iovenitti
Una giornata di lavoro nel Centro
ospedaliero “San Luigi Orione” di Anyama: un pezzo d’Abruzzo in Africa
Appena arrivati in ospedale una brutta notizia ci
attende. Da ieri notte l’autoclave, ossia il macchinario che utilizziamo per
sterilizzare i ferri chirurgici e i tessuti per la sala operatoria, non
risponde più ai comandi. In poche parole non si accende e non parte il ciclo di
sterilizzazione. Chiamiamo subito il tecnico il quale ipotizza che il guasto
possa dipendere da un filtro ostruito e soltanto alla fine della giornata
riesce a creare un raccordo esterno all’apparecchio così da permettere la
sterilizzazione dei ferri e della teleria di prima necessità. Riusciamo, in
questa maniera, a garantire il funzionamento della sala operatoria per il fine
settimana. Lunedì tutto dovrebbe risolversi.
Sono trascorsi una decina di giorni da quando
abbiamo rinunciato ad eseguire un intervento chirurgico molto particolare. Si
trattava di un’anziana signora accompagnata da suo figlio, un importante
personaggio di un villaggio poco distante da Anyama. La donna era giunta alla
nostra osservazione per un’enorme formazione addominale di circa quaranta
centimetri di diametro causa di una severa dispnea. Le indagini ci avevano
permesso di diagnosticare una gigantesca cisti ovarica che occupava l’intera
cavità addominale. La donna, durante i controlli pre-operatori, aveva mostrato
una severa ipertensione che ci aveva imposto di richiedere una consulenza
cardiologica. Il giorno della consulenza la signora si era presentata ancora
con suo figlio che mi aveva pregato di poterci appartare per parlare di sua
madre. Durante l’incontro chiedo all’uomo informazioni sullo stato di salute
della donna e sulla sua ipertensione e lui, con gli occhi iniettati di sangue e
la voce tremante, mi dice che la madre non può più essere operata poiché la sorcellerie (ossia la magia nera) era la
causa della sua pressione elevata. Voleva farmi capire che era meglio evitare
l’operazione e nonostante il quadro clinico che imponeva l’intervento
chirurgico. Accettai la proposta dell’uomo senza insistere. A quel punto il
figlio prese sua madre per mano e se ne tornò a casa. Sino ad oggi ancora non
ho notizie di loro.
In Africa la donna e la sua fertilità assumono un
carattere quasi sacro. Una donna che non può concepire è come se perdesse
l’anima, mentre una donna che ha concepito per la prima volta si augura di
poter mantenere il suo stato fertile per molto tempo. Tra le molte credenze
legate alla fertilità, certamente la placenta ha un ruolo predominante. Già dai
primi giorni della mia permanenza in Africa una certa consuetudine mi ha fatto
capire l’importanza che le donne e la famiglia, generalmente, attribuiscono
alla placenta. Presso i nostri ospedali, in occidente, dopo il parto la
placenta viene di solito gettata nei rifiuti speciali oppure raccolta e
utilizzata per ottenere cellule staminali simili a quelle contenute nel midollo
osseo, con la speranza di poter curare alcune gravi malattie. In Costa
d’Avorio, specialmente nei villaggi, ma molto spesso anche ad Anyama, la
famiglia della donna che partorisce richiede all’ospedale la placenta, da
sotterrare di fronte all’abitazione. La placenta, in stretto contatto con la
terra, rappresenta per loro un buon auspicio per le generazioni future e un
augurio di fertilità. Si racconta che alcune donne che non riescono a concepire
si legano la placenta sulla schiena sistemandola sotto il vestito e la portano
con se anche quando escono per andare al mercato. Ho sentito dire che in alcuni
villaggi delle donne mangiano parti della placenta per auspicarsi di restare
incinte. Quando una donna partorisce nel nostro ospedale e la sua famiglia ci
chiede la placenta noi non possiamo rifiutarci di farlo e gliela consegniamo
avvolgendola in un panno che la madre della puerpera aveva in precedenza
preparato.
Finalmente il Presidente della Repubblica, Laurent
Gbagbo, con grande sorpresa, annuncia ai giornalisti la data delle tanto
auspicate elezioni che dovrebbero svolgersi il 30 novembre prossimo. Molti
osservatori sono scettici sulla reale attendibilità di queste dichiarazioni, ma
le forze in campo già stanno preparando la campagna elettorale. Il legame dei
candidati, ma anche dei votanti con la loro etnia di origine è ancora molto
forte anche se ultimamente ci sono segnali di maggiore obiettività. Attualmente
sono tre gli schieramenti politici che si contendono l’elettorato: da una parte
il Fronte Popolare Ivoriano (FPI) del Presidente Gbagbo e dal lato opposto il
Partito Democratico della Costa d’Avorio (PDCI) dell’ex Presidente Henri Konan Bédié, quindi
Le strade cariche di terra rossa, secche e aride da
circa cinque mesi, sono oramai rigate da rigagnoli di acqua piovana che
rischiarano allo stesso tempo la frutta che abbellisce i tanti mercati di
Abidjan. Tra le tante luci che ogni mattina ci danno il benvenuto,
POGGIO MORINO, PERLA DI SCANSANO
di Piero
Valdiserra
Nel
corso degli ultimi dieci anni, la superficie adibita alla coltivazione dei
vigneti è più che triplicata, passando da
Una
crescita così repentina ha indotto negli ultimi tempi molte grandi aziende
vitivinicole italiane a interessarsi sempre più al territorio scansanese; fra
esse,
L’Azienda
Agricola “Poggio Morino” si trova a pochi chilometri da Scansano, e si estende
nella zona di Preselle, località che prende nome da appresellamento, cioè l’opera di suddivisione del terreno
coltivabile in tanti piccoli appezzamenti: una pratica che si svolgeva
nell’area di Montorgiali già alla metà del secolo XIX.
La
Tenuta “Poggio Morino”, registrata già nel Catasto Leopoldino del 1861 con il
nome di Podere Nuovo, si estende oggi su
La
proprietà è dominata da una settecentesca villa di campagna, tipico esempio di
architettura rurale maremmana che voleva all’epoca casali in pietra dalle forme
squadrate, sovrastati dalle caratteristiche torrette centrali.
I
I
vigneti sono stati progettati nel pieno rispetto della morfologia della zona,
salvaguardando le caratteristiche colline e valorizzandole senza modificare i
loro versanti. L’impianto è stato realizzato a cordone speronato per esaltare
le caratteristiche qualitative delle uve e per ottimizzare le operazioni
colturali, rendendo possibile l’utilizzo di tecnologie innovative nei diversi
processi, dalla potatura, alla cimatura, alla raccolta.
L’insieme
di tutti questi elementi, che coniugano perfettamente tradizione e innovazione,
consente di ottenere la produzione attuale di Morellino di Scansano, cui si
aggiungeranno in futuro una Riserva e grandi vini I.G.T. Maremma.
Obiettivo
della Tenuta “Poggio Morino” è diventare una delle realtà di riferimento tra i
produttori dell’area del Morellino di Scansano, valorizzando il territorio nel
pieno rispetto dell’ambiente. Per raggiungere questo traguardo è stato definito
un piano di sviluppo sull’intera Azienda, che riguarda gli aspetti agronomici,
tecnici e di accoglienza.
Un
importante progetto sarà la realizzazione della nuova cantina, che ospiterà
tecnologie all’avanguardia, ecocompatibili ed ecosostenibili. Questa nuova
struttura sarà in gran parte interrata, e sarà costruita su diversi livelli per
adeguarsi alle pendenze del terreno, inserendosi così perfettamente nel quadro
ambientale di “Poggio Morino” e dell’entroterra maremmano. Concepita per essere
autosufficiente da un punto di vista energetico attraverso l’utilizzo di
pannelli fotovoltaici, avrà i diversi ambienti studiati per ottimizzarne
posizione, luce, temperatura e umidità, al fine di coprire l’intero ciclo di
lavorazione: dalla vinificazione in acciaio e legno, alla maturazione ed
elevazione in bottaie, per arrivare infine alla messa in bottiglia.
Al tempo stesso la medesima attenzione sarà dedicata allo sviluppo delle strutture di ospitalità: la valorizzazione della villa settecentesca e dello spazio degustazione sono soltanto due esempi di quanto sia considerata fondamentale l’apertura dell’Azienda ai visitatori e agli enoappassionati.
(Info: “Poggio Morino” – Tenuta in
Scansano, Località Preselle, Frazione Montorgiali, 58054 Scansano (GR), tel. e
fax 0564 585908, www.poggiomorino.com,
info@poggiomorino.com).
ASIAGO:
di Elena Pozzan
Sull’Altopiano
di Asiago e dei sette Comuni (prov. di Vicenza) i “forestieri” lasciano la
montagna nelle mezze stagioni: in primavera quando le piste sono rimaste senza
neve, e in autunno quando il fresco dei boschi, ormai spogliati dei gustosi
funghi, si fa pungente.
Allora
la gente del posto torna tranquilla alle cose di sempre.
Così
ogni anno in maggio, alla vigilia dell’Ascensione, l’arciprete della cattedrale
convoca tutti, ma proprio tutti, giovani e vecchi, nella piazza del duomo per
Ora il
sacello ossario del Laiten raccoglie i resti (e porta incisi i nomi) di 35 mila
alpini provenienti da ogni regione d’Italia e altri 20 mila dell’esercito
austro-ungarico (anche cechi, polacchi …), mentre i caduti britannici sono
sepolti nei 5 grandi cimiteri inglesi sparsi sull’Altopiano.
Nei
giorni che precedono
Il sole
è appena spuntato dietro i monti quando la processione comincia un giro
faticoso che dura dall’alba a sera inoltrata:
Ogni
gruppo ha le sue bandiere e i cori: salmodie e litanie dei Santi, intonate
secondo un rito antico, in lingua latina o in cimbro (di origine sassone), con
istintivo ritmo primitivo e ossessionante insistenza, per tutto il giorno, te rogamus, audi nos! In testa, per
indicare il percorso, uno stendardo rosso con croce bianca, poi il prete, con una
stola violacea in segno di penitenza, procede a cavallo e si ferma alle croci o
ai capitelli per benedire i campi.
Si
giunge al lazzaretto: una valle sassosa dove, durante la pestilenza del 1638 gli
appestati erano condotti a morire. Ora qui i fedeli si raccolgono per
Celebrata
La
processione si rimette in cammino e fino alla prossima sosta di Camporovere non
potrà fermarsi per nessun motivo. Il percorso comprende nell’ultima parte la
salita al monte “Bi” per il versante più ripido. La fatica e la stanchezza si
avvertono sulle gambe. La lunga fila si scompone, si allarga, ma si procede
sempre cantando. Intanto, mentre gli ultimi stanno ancora salendo e quelli già
giunti si riposano (qualche ragazza ha ancora voglia di scherzare), il prete
rimonta a cavallo e va, per la benedizione alla croce che sovrasta il paese.
Durante l’ultima breve sosta, tutti si sono ornati di rami di pino e le donne
si sono fatte belle: nessuno in paese dovrà mostrare stanchezza.
E’ sera
e il sole va a riposare dietro i monti; il prete a cavallo allunga il passo in
testa alla lunga fila. Alle prime case di Asiago, mentre i canti si fanno più
forti e le campane in piazza duomo salutano il ritorno della processione, le
donne rimaste in paese, per tradizione, offrono un pane da donare ai poveri.
In
piazza,l’ultima solenne benedizione e poi subito tutti a casa. Domani è festa:
tutti riposeranno.
Così
alla vigilia dell’Ascensione, ogni anno,da secoli.
IL MATRIMONIO VIETNAMITA
di Trần Thu Trang
L’articolo è stato lasciato così come scritto, per precisa
scelta editoriale, per dare modo al lettore di
apprezzare tutta la genuinità del
pensiero dell'estensore che si sforza di scrivere nella nostra lingua.
La
cultura vietnamita e’ composta da tanti aspetti: dalla gastronomia
all’artigianato, dalla letteratura alla musica,ecc. Inoltre, la cultura e’
dimostrata nei costumi, nello stile della vita, nelle feste,ecc. Se hai
un’occasione di partecipare al matrimonio vietnamita, forse ti sembra la piu’
interessante cosa della cultura vietnamita.
In
tutti i paesi, le nozze sono un evento molto importante. Si può dire che e’ uno
dei periodi più belli della vita di ognuno. Per i vietnamiti il matrimonio non
e’ solo la persona vicenda ma anche un modo per mantenere in continuo le cose
tradizionali del matrimonio e della cultura vietnamita tramandandole fra i
genitori e le generazioni successive.
Ci
sono 5 passi in un matrimonio:
Il
primo e’ che due famiglie (la famiglia del futuro sposo e quella della futura
sposa) si incontrano e si permettono i figli di ufficialmente incontrare e di
partecipare agli eventi famigliari. Prima di questo passo, secondo il costume,
la ragazza e il ragazzo non sono ancora in un ufficiale rapporto nel senso
famigliare. Il permesso dei genitori vuol dire che i ragazzi sono riusciti ad
avere la loro fiducia. Adesso i giovani sono liberi di fare l’amicizia, di
fidanzarsi, di conoscere l’uno l’altra. Però solo dopo questo passo c’e’ un
legame costruito tra le due famiglie. Questo ha un significato importante
relativo al matrimonio delle due persone.
Nel
secondo passo, le due famiglie si incontrano di nuovo per parlare della
preparazione del terzo passo perchè svolge un ruolo molto importante. La
famiglia del ragazzo chiede a quella della ragazza le cose che non possono
mancare nel terzo passo. Le due famiglie si consentono sulle cose necessarie e
sono a carico della famiglia del futuro sposo.
Il
giorno in cui svolge il terzo passo, il quale si chiama “Lễ ăn hỏi”, e’ stato scelto prima. E’
considerato il giorno bello. I santi fanno il bene a due ragazzi. I parenti del
futuro sposo vengono alla casa della futura sposa portando con loro i doni.
Sono le specialità tradizionali e sono i simboli della produzione, della
prosperità. I doni sono accuratamente messi nei cassettini, i quali sono
portati dai ragazzi - amici o cugini dello sposo. Al cancello della casa della
sposa, ci sono gia le ragazze in vestiti tradizionali (áo dài). Quando arriva
la famiglia dello sposo, queste ragazze aiutano i ragazzi a portare i
cassettini in casa ed a metterli davanti al altare. Poi la madre della sposa
insieme alla madre dello sposo aprono i cassettini. La madre della sposa
accende gli incensi. Alla fine, la sposa e lo sposo stanno davanti ad altare e
pregano gli antenati di sostenerli.
Dopo
una settimana o 10 giorni del “Lễ
ăn hỏi”, e’
tenuto il matrimonio. L’orario in cui viene la famiglia dello sposo per
prendere la sposa e’ stato deciso. Pero’, prima della covenienza dello sposo,
una zia o una parente anziana dello sposo viene alla famiglia della sposa
portando con se’ un cassettino di noce di betel. Questa fase si chiama “xin
dâu”, vuol dire “chiedere di prendere la sposa”. E’ un procedura tradizionale
che neanche può mancare. 15 – 30 minuti più tardi arriva la famiglia dello
sposo. I parenti dei due sposi fanno le congratulazioni. Quelli della sposa le
regalano i gioielli. Prima di partire, tutti e due devono ringraziare gli
antenati e pregarli di supportarli nella futura vita. Tutti i parenti della
sposa tranne la madre possono accompagnarla a casa del marito. Secondo il
costume, la madre non deve accompagnare sua figlia a casa dello sposo, perchè
quando torna, sua figlia piange molto e cosi non va bene. A casa dello sposo,
la sposa e’ accoglientemente benvenuta. Dopo, tutti partecipano a una festa del
matrimonio. Oggi, si organizza la festa in ristorante ma prima tutto a casa.
Dopo
il giorno del matrimonio, non fanno subito la luna di miele perchè il giorno
successivo devono tornare a casa della sposa e portarci un porco arrosto. E’ il
dono dello sposo per i genitori della sposa che ora diventano i suoi suoceri.
Li ringrazia lo sposo per aver partorito una figlia cosi buona, brava e bella,
con la quale si e’ sposato.
EROI DI OGGI E DI IERI
di Marjatta
Kulla
L’articolo è stato lasciato così come scritto, per precisa
scelta editoriale, per dare modo al lettore di
apprezzare tutta la genuinità del
pensiero dell'estensore che si sforza di scrivere nella nostra lingua.
In Nord si aspetta in ansia la primavera ed
oggi
ce
ne
é arrivato un antipasto bello; il
vento
del sud che sventola
Un
portone di scuola vecchia
é lasciato aperto
e dentro si sente un ronzio di
voci ed
il profumo tentante di caffé e
dolci. A un tavolo, fra molti, si siedono due amiche Hilkka e
Päivi scambiandosi notizie.
Mammamia,
che
casino
a casa.... figli
ascoltano Nightwish con tutto la volume ed uomo
davanti
alla tv gli occhi si
attaccano
a Formula 1 .. me
ne sono andata via....
Dai, non esagerare..
é importante
di seguire gli eroi
di oggi.. e poi dicono
che
Kimi
vincerá questa
gara in Spagna, parte
da pole..
Si, lo so...ma
mica sono eroi !! ..i
veri
eroi stanno in
cimitero...per cui abbiamo la
giornata ufficiale
dell´imbandieramento...oggi il
27 aprile.
Giá ... la guerra a
Lapponia
... la data
di scadenza...madre
diceva
che
nonno ne era parlato spesso.... ma
come
mai sei cosi
amara ..come
un limone..che ti prende?
Nulla... media crea
dei begli eroi
...
Dai .. ti
faccio
un indovinello..ascoltalo;
Quale
é la
differenza
fra una donna che soffre
di PMS ed un terrorista
?
Mhmmmm ..che
ne so
io !
Con un terrorista si
può comunque discutere.
Dopo aver
finito il caffé e korvapuusti salgono al prossimo piano per guardare una mostra annuale
di Università Popolare.
Ci sono
persone intorno al tavolone che ammirano gli
strumenti;sono
lavori a mano
fatto dagli uomini, violini, una chitarra
e un strumento popolare
finlandese a corta ed altra stanza le sedie e
un divano ricostruito.
Nel secondo piano
passano
tanto tempo davanti all’arte delle donna;
i gioielli d’argento,
gli
oggetti
del vetro fuso, porcellana decorata e
tantissimi
diversi
tessuti fatto a mano e il telaio.E salendo nel ultimo piano vedono anche
lavori a mano dei figli, ci sono
pitture di tecnica
diversi.
Nelle classe ci sono tanti
visitatori e si nota che la
mostra sia un
evento aspettato. Le amiche si fermano di scambiare due
parole
con la
direttrice
sui corsi successivi e il prossimo periodo dell’insegnamento in autunno.
Al ultimo
piano mentre stanno guardando le
pitture , squilla un cellulare
dell’altra
e lo prende con le guance
rosse
e lei
imprecando da sé per la sua
sbadataggine. La
gente
guarda
la donna disapprovando
in suo atteggiamento.
Cosa? Davvero?
Hurraaaaaaaa, Kimi ha
vinto !!! Ha vinto la gara
...
Ma io pensavo che tu
non intenda di Formula 1 !!
Ma lui é il
nostro eroe !!..Iceman
Improvviso si
cambia
l’atmosfera e
tutti sorridono; l’eroe
comune si riunisce.
L’EMERGENZA RIFIUTI A NAPOLI E IL GIAPPONE
di Michiyo Suzuki
Ciao
a tutti dal Giappone! Mi chiamo Michiyo Suzuki, una giapponese che ama
l’Italia. Ho avuto l’occasione di conoscere Giorgio Rinaldi e mi ha chiesto in
maniera molto casuale di scrivere qualcosa per il giornale di cui è direttore. Quindi, pur non conoscendo bene l’italiano,
ma incoraggiata dallo stesso direttore che mi ha detto di non preoccuparmi di
eventuali errori, ho deciso di scrivere qualche riga per Faronotizie.
Prima
vorrei parlare della mia relazione con l’Italia. Tutto ha avuto inizio tre anni fa, quando per
la prima volta sono arrivata in Italia
per puro caso. Ero infatti diretta in
Spagna con un volo che faceva scalo a Roma. Quindi ho pensato di utilizzare questa occasione per visitare
l’Italia. Ma dopo avere visitato Roma e Venezia, ero gia innamorata dell’Italia
e sicura di volerci ritornare a breve. In tre anni sono tornata per ben sei
volte.
Non
sapevo nessuna parola d’italiano ma confidavo sul fatto di aver studiato per 4 anni
lo spagnolo. Una lingua che credevo mi avesse aiutato molto nella comprensione
dell’italiano. Ma cosi non è stato. Ho dovuto infatti iniziare a studiare
l’italiano molto seriamente per capirci qualcosa.
Fra
poco parteciperò al volontariato a Bagni di Masino organizzato da
Legambiente. E’ un volontariato che
comincia il 15 giugno e finisce il 31 agosto.
Non so sa cosa succederà, ma sono sicura che sarà un’ esperienza meravigliosa.
Prima di partecipare al volontariato, farò qualche giro in Italia, a Napoli,
Roma, Genova e Milano. Visiterò a Napoli
per la prima volta. Sembra un po’ strano
che io non abbia visitato ancora Napoli, una città cosi famosa nel mondo. E lo
farò con un amico italiano. Sarà lui che mi accompagnerà a Napoli, per fortuna.
Come
sapete, Napoli attrae l’attenzione di tutto il mondo a causa dell’ emergenza rifiuti. Questo è un grande peccato per gli abitanti
di Napoli. Tanti turisti stranieri anche
giapponesi visitano Napoli ogni anno.
Anche i miei l’hanno visitata qualche anno fa, mi hanno detto che era
una bella città. Pero adesso in tutta la regione di Campania ho sentito che
ci sono montagne di rifiuti per strada.
Quando ho sentito questo notizia, non potevo capire perchè è diventato
cosi serio questo problema in una città
cosi famosa e visitata da milioni di turisti. Quando della situazione ne ha parlato
Invece
ho appreso di recente che il problema è diventato ancora più serio.
Ho
cominciato allora a preoccuparmi perchè ho sentito che anche nel centro
storico, dove si trova il mio albergo, i cumuli di rifiuti non sono stati
tolti. Ho letto molti articoli su Yahoo Italia e ho anche visto il TG1 e TG2 per capire meglio la situazione dell’
emergenza rifiuti. Ho saputo poi dal mio
amico della pubblicazione del libro Gomorra e
del film che ci hanno fatto. Quando verrò in Italia, penso dunque di
comprare il libro e di vedere il film. I
motivi legati a questa assurda situazione saranno sicuramente tanti. Però per me è del tutto incredibile che una
città cosi famosa non ha
ancora
un inceneritore e tutti i rifiuti finiscono nelle discariche, spesso
abusive.
In
Giappone abbiamo cominciato a fare la raccolta differenziata già da molti anni.
E i risultati sono buoni.
Per
i rifiuti che sono riciclabili, come vetro, carta (giornali, riviste, ecc.),
bottiglie di plastica, scatole di ferro e alluminio, contenitore di latte fatto
di carta, foam polistirene la raccolta si tiene ogni due settimane.
In
Giappone si fa molta pubblicità ai prodotti
ecologici,in quanto riducono molto CO2 e fanno risparmiare
energia. La parola “eco” in fatti va di
moda. Tanta gente vanno ai supermercati
con i loro “eco-sachetti per ridurre il consumo della plastica. Ci sono tante
macchine, ma molta gente preferisce usare la bicicletta per girare nei loro
paesi.
Ricordo
comunque che a Torino in un supermercato mi è stato chiesto se avevo un
sacchetto con me, altrimenti avrei dovuto pagare per averne uno. Parte forse da
qui la differenza tra il Nord e il Sud d’Italia? E poi perchè
gli italiani non usano di più la bici??
Non
solo si immetterebbe meno CO2 nell’ambiente, ma si risparmierebbero
anche molti soldi visto il prezzo altissimo della benzina.
Cosa
ne dite voi italiani?
I° TROFEO CANOA KAYAK
Mormanno 1 e 2 giugno 2008
di Nicola Perrelli
Il
lago artificiale “ Battendiero” di Mormanno
non è grande, ma rende il paesaggio del Pantano sconfinato e incantevole. Dove su tutto
spicca l’incredibile colore verde smeraldo dello specchio d’acqua. E’ un luogo
tutto da scoprire, nel quale la natura ha accolto le opere dell’uomo donandogli
inattesa bellezza.
In
questo splendido scenario si è svolta la gara interregionale di Canoa per assegnare il I° TROFEO CANOA KAYAK - Città di MORMANNO - con il patrocinio della Provincia
di Cosenza, del Parco Nazionale del
Pollino e con la partecipazione dell’Enel,
in qualità di sponsor ufficiale.
La
manifestazione si è sviluppata nel corso di due intense giornate: domenica 1 e lunedì 2 giugno.
Nella
prima giornata si è tenuta la gara di
Velocità che ha visto competere Kayak di più categorie, spinti da atleti
provenienti da varie regioni italiane. Nella seconda invece, le stesse canoe e
gli stessi atleti, hanno disputato l’entusiasmante gara di Fondo facendo più volte il periplo del lago.
La
manifestazione sportiva è stata poi coronata dalla partecipazione e
dall’apprezzamento del pubblico, che per una prima presa di contatto con uno
sport faticoso e appassionante, si è
riversato, numeroso, sulle sponde del lago.
Il
tempo, praticamente estivo, ha favorito
la riuscita della manifestazione e premiato l’impegno degli
organizzatori.
Mentre
il gran numero di visitatori ha
dimostrato che ogni sport, anche quello della canoa, cosi poco diffuso
dalle nostre parti, è capace di suscitare l’interesse della gente, mormannesi compresi.
I VINCISGRASSI
di Paola Guasco
Estate, tempo di sagre, nella mia regione, le Marche, ce ne sono diverse e ognuna con una propria peculiarità: della polenta, della salsiccia, della bruschetta e via di seguito …
Io voglio trattare della sagra che si ripete quasi in molte città e paesi, ovvero
della festa del piatto marchigiano per eccellenza: i vincisgrassi, un
gustosissimo piatto che però, ahimè, ha il difetto di non essere proprio light…
Vincenzo Buonassisi, giornalista critico e di
gastronomia, ha definito l’elaborato piatto: “Monumento di sapienza culinaria
contadina della terra marchigiana”.
Di questo piatto si è molto scritto e parlato,
nell'intento di scoprirne l'origine autentica. Fino a poco tempo fa, l'ipotesi
più accreditata faceva derivare la parola "Vincisgrassi" dal nome di
un generale austriaco, tale Windisch Graetz che nel 1799 durante le guerre
napoleoniche era di stanza ad Ancona con le sue truppe, cui il cuoco personale
aveva dedicato la ricetta.
Questa ipotesi ha perso però autorevolezza con il ritrovamento de "Il Cuoco
Maceratese", libro scritto nel diciottesimo secolo da Antonio Nebbia,
grande cuoco di corte dell'epoca. In questo libretto Antonio Nebbia riporta una
ricetta definendola "Salsa per il Princisgras" (grasso da principi),
anteriore di almeno un ventennio rispetto all'arrivo in Italia del generale
austriaco.
La specialità, tanto appetitosa, si allargò negli
usi del popolo, e con l'uso la preparazione venne modificata a seconda delle
costumanze e mode delle varie epoche. Nella ricetta originale, ad esempio, non
si parla affatto di pomodoro e besciamella, cosa che oggi sorprenderebbe le
stesse famiglie marchigiane di più lontana tradizione.
La ricetta prevede la preparazione di un ragù
particolare: si trita del prosciutto
grasso e lo si mette a rosolare con lardo, olio e burro, si unisce un trito di
aglio (poco) cipolla, sedano e carote, che vanno appassite prima di aggiungere
alcune rigaglie di pollo, senza il fegato, della carne di vitello macinata grossa,
della carne di pollo, anch'essa macinata grossa .
Il tutto va fatto ben rosolare e poi bagnato con
una generosa dose di vino bianco, aggiustato di sale e pepe, lasciato evaporare
velocemente.
Si aggiunge poi del pomodoro passato, pochissimo,
con un poco d'acqua e si lascia cuocere lentamente, almeno un paio d'ore,
aggiungendo ogni tanto un goccio di latte
A fine cottura si mettono nella pentola alcuni
fegatini di pollo, ben lavati e tritati, che necessitano di una breve cottura.
Con questo ragù si farciscono degli
strati di pasta all'uovo, stesa fine e tagliata a losanghe larghe almeno
parmigiano grattugiato e si alternano vari strati
con qualche fiocchetto di burro qua e là.
Si preferisce far
riposare diverse ore in frigorifero, meglio tutta una notte e si mette
la teglia per 45 minuti in forno a 180°.
Questa è una pietanza altamente conviviale che si
serve con un buon vino rosso, è, per così dire, il piatto della domenica,
quando ci si ritrova in famiglia.
di
Secondo
un recente articolo uscito sul giornale CITY ( quotidiano a distribuzione
gratuita ) la felicità del genere umano
deriva dai figli : come non essere d’accordo !
Sono
stata lo scorso 15 maggio a Teatro a vedere la prima di mia figlia
Francesca: ha interpretato la parte dell’ “Anima innocente” nella commedia di Eduardo de Filippo “Questi
fantasmi” .
Commedia
che io, a dire il vero, non conoscevo e da cui
è stato tratto un film che ha avuto come interpreti addirittura Vittorio Gasmann e Sofia Loren. (http://it.wikipedia.org/wiki/Questi_fantasmi)
Mia
figlia, dieci anni, in tutt’altre faccende affaccendata, ha vissuto
questa esperienza insieme ad un suo compagno di classe divertendosi e giocando,
come è giusto che sia a quell’età !
Ma
la mamma cioè io ?!!!
Confesso
che vederla sul palco non per la solita recita scolastica ma con una Compagnia
Teatrale vera ( di cui parlerò più avanti ) mi ha fatto un certo effetto : un
po’ di ansia, un po’ di emozione, un po’ di tremarella , una sensazione strana
: Oh Dio la mia bambina ! , e perché no, anche un po’ di sano orgoglio materno.
Spesso riversiamo su queste povere creature
i sogni giovanili che non siamo riusciti a realizzare però vedere che anche a
loro fa piacere e si divertono senza
nessuna preoccupazione o ansia è semplicemente fantastico.
Veniamo
adesso alla compagnia : mia figlia è nata a Roma da mamma lainara-mormannola
e papà romano di origine calabra anche lui,
ha una sorella milanese e la compagnia del suo debutto è “NAPOLI OGGI” ovvio tutti napoletani tranne
lei !
Dunque , come dicono a “Napule” i figli so piezz’ e core !! E già quel cuore che ci fa pensare che, nonostante tutte le brutture che anche esistono al mondo, per dirla alla Benigni, “La vita è bella”.
di Nicola Virgilio
Un emigrato eccellente
dall'aspetto sempre fiero
e dal volto sorridente.
All'arrivo, al tuo paese,
c'era sempre chi ti aspettava,
probabilmente
perchè portavi ciò che a noi mancava.
Ognuno sapeva di poterti sottrarre
qualcosa:
i nipoti approfittavano
del tuo indimenticabile sorriso,
dell’affetto e della generosità.
Al seguito gli amici,
pronti a godere della tua genuina compagnia
e della musica con cui distribuivi
l'allegria.
Beh, ora che non ci sei più,
ora che sei in Gloria,
lasciaci consolare nel ricordo,
che di questo bel paese,
sei stato un po’ la storia.
Ed ai tanti che ti hanno voluto bene
do un consiglio:
"Immaginate il suo viso...
e saprà ancora regalarvi un sorriso".
PICCOLI PENSIERI
di Bernardina Tonti
A
Francesco M.T. Tarantino il 24 maggio 2008
Le
cose degli altri
Son
cose che si fanno
Che
si celano, che si tacciono
Son
buchi nella memoria
Che
a capirli non serve storia
Sono
integrazioni fatte ad arte
Scuciture
del pensiero
E
poi, che sarà qualche toppa
In
fondo al corpo di una donna?
Son
ricerche in un labirinto
In
cui manca Arianna
E
anche il filo…
Son
piccoli trapezi
Da
cui ci si lancia
E
non si sa dove atterri
VALDO
di Francesco
M.T. Tarantino
Più
che di destra eri un uomo leale
Credevi
alla patria a Dio e ai santi
Speravi
molto nella giustizia sociale
Fonte
di benessere per tutti quanti
Lavoravi
la terra al bordo di un argine
Invocando
la pioggia e la benedizione
Di
Dio santo e di Maria semprevergine
Che
indica la via della rassegnazione
Armato
di braccia aste e bandiere
Seguivi
l’evolversi della nostalgia
In
piazza ai comizi come un dovere
Gridando
slogan di vecchia ideologia
Legato
ad un mondo diverso e passato
Trascorrevi
i giorni inseguendo speranze
Con
il tuo ciuco e un organetto stonato
Inneggiavi
alla gloria ma senza distanze
Amavi
la politica con la stessa ingenuità
Di
chi non conosce il potere del potere
Uno
schiaccianoci che ti rompe a metà
Che
ignora il tuo credo e le tue chimere
Ti
vedo ancora avvolto nel tuo folclore
Arrotolare
tabacco per fumarti le idee
Giuste
o sbagliate ma senza rancore
Per
chi si imbarca e sfida le alte maree
E
quando vennero le prime avvisaglie
Deponesti
i trofei per un riposo sicuro
Ti
lasciarono solo con le tue medaglie
A chiudere gli occhi in un chiaroscuro
UN
ATTIMO VORREI…
di Marilena Rodica Chiretu
Un attimo vorrei fermare
il mio tempo,
tra le stagioni camminare
nell’alito d’ un bacio
acceso sulle labbra, sul
prato dei verdi sguardi,
dalla malinconia portata
sulle spalle degli anni.
Un attimo vorrei saperti
tra le mie braccia,
tra sillabe, tra note,
colori e pensieri,
godere la canzone di dolci
nostalgie,
raccogliere nel pugno solo
le armonie.
E’ bello qui, a casa mia,
sotto il tetto del vecchio
cielo,
dalla finestra guardo le
cime delle alte montagne,
un attimo vorrei fermarti
nelle valli,
ascoltare il mormorìo
delle profonde fontane,
dai tuoi mari che possa
salire
fino alle mie mani
per scrivere insieme con
raggi
un’ altra sinfonia,
tra i petali dei fieri
tulipani.
Un attimo vorrei essere
un fiore con due rami
spuntati dalla stessa
radice,
intreccio sentieri lontani
per capire ciò che in
sordina il silenzio mi dice
al di là del fremito
nascosto dagli anni...
O CLIPA
AS VREA…
O clipa as vrea sa- mi
opresc timpul,
printre anotimpuri sa
colind
in suflul cald al unui
sarut
aprins pe buze, pe pajistea privirilor verzi
de melancolia purtata pe
umerii anilor.
O clipa as vrea sa te stiu
in bratele mele,
printre silabe, note,
culori si ganduri,
sa ne bucuram de cantecul dulcilor doruri,
sa adunam in pumn numai
armonii.
E frumos aici, acasa la
mine,
sub acoperisul cerului
batran,
de la ferestra privesc
culmile
inaltilor munti,
o clipa as vrea sa te
opresc intre vai,
sa ascultam murmurul
fantanilor adanci,
de la marile tale sa poti
sa urci
pana la mainile mele
pentru a scrie impreuna cu
raze
o noua simfonie
intre petalele mandrelor
lalele.
O clipa as vrea sa fiu
o floare cu doua ramuri
rasarite din aceeasi
radacina,
impletesc carari
indepartate
ca sa - nteleg ce- mi
spune tacerea in surdina
dincolo de freamatul
ascuns de ani...
FRANCESCA ALDERISI IN ARGENTINA :
di Silvia Garnero
Italianos en
América /Buenos Aires
Francesca
Alderisi , famosa ex conduttrice di 'Sportello Italia' ( tv-show dedicato alla
tematica degli italiani all'estero trasmesso per Rai International) è già
arrivata a Buenos Aires. Per tre settimane sarà ospite in diverse associazioni
a Buenos Aires e Mar del Plata dove incontrerà anche molti telespettatori, con
chi avrà un contatto più diretto per conoscere le loro storie, certa di poterle
raccontarle a breve in un nuovo programma televisivo.
--Questi giorni si parla molto sul tuo
arrivo in Argentina. ¿Cosa ti ha spinto a venire in Sudamerica?
--F.A
: Sicuramente l'amore per gli italiani nel mondo. Devi sapere che nei sette
anni trascorsi a Rai International, il tempo per viaggiare era veramente poco e
considerando che il mio programma andava in onda tutti i giorni per molti mesi
consecutivi, il tempo libero lo trascorrevo sempre per recuperare
energie. Da quando Badaloni non mi ha più voluto a Rai Internatiional, ho
avuto molto tempo libero ed allora al posto di disperarmi e piangere per avere
perso il mio programma, ho deciso di concentrarmi sulla famosa metà del
bicchiere pieno e fare ciò che non mi era stato possibile fare prima, ovvero
viaggiare per incontrare le comunità italiane nel mondo. Dopo essere stata in
Canada, negli Stati Uniti ed in Australia, ho deciso che era arrivato il
momento di andare nel paese dal quale ho sempre ricevuto il maggior numero di
corrispondenza: l'Argentina. Si tratta di un viaggio emozionante e ricco di
appuntamenti a Buenos Aires e Mar del Plata, dove finalmente sto conoscendo in
persona molti miei telespettatori.
--Per quelli che ancora non ti
conoscono, raccontaci quando è cominciata la tua carriera televisiva e come sei
arrivata ad occuparti degli italiani all'estero?
F.A:
Ripensare ai miei esordi televisivi mi porta indietro alla mia adolescenza,
quando sedicenne iniziavo ad andare ai miei primi provini. Sono passati ormai
più di venti anni ed ogni giorno il mio lavoro mi affascina e piace sempre di
più, poiché mi da modo di emozionarmi e trasmettere le mie emozioni agli altri,
attraverso programmi che abbiano comunque sempre come filo conduttore l'utilità
ed il servizio. Di gavetta ne ho fatta tanta: dalle piccole televisioni
regionali sono approdata in Rai e poi a Rai International, il canale televisivo
dedicato agli italiani nel mondo. Proprio per gli italiani all'estero è
nata da parte mia una grande passione . Mi sono occupata a lungo di tutte le
tematiche che li rigurdano, in 1200 puntate di SPORTELLO ITALIA,
trattando non solo dei l oro problemi, ma anche di tutto il filone sentimentale
legato all'emigrazione. Con molto orgoglio posso dire oggi di essere considerata
una sorta di "piccola" ambasciatrice degli italiani nel mondo, a cui
sono legata da un affetto grandissimo , a tal punto da avere da pochi mesi
ideato un sito internet che sta riscuotendo molto successo e che invito tutti a
visitare: www.prontofrancesca.it
--Abbiamo saputo sulla
decisione di Piero Badaloni di sostituirti alla guida di Sportello Italiana e
,anche se ora hai le tue puntate su internet, come immagini il tuo
ritorno alla televisione, pubblica o privata?
--F.A
: Diciamo che il comportamento del Direttore di Rai International Piero
Badaloni nei miei confronti, non è stato a mio avviso un esempio di grande
professionalità. Si parla spesso di meritocrazia ed io per prima avendo coordinato
personalmente per molti anni il mio gruppo di lavoro di SPORTELLO ITALIA, ho
sempre prestato molta attenzione affinché venissero valutati i reali meriti
professionali delle persone e non le "amicizie", soprattutto
politiche. Essere stata sostituita senza motivo tra l'altro da un personaggio
politicamente di parte, mi ha fatto capire che Rai International, che fino ad
all'ora era sta un'isola felice, con l'arrivo della nuova gestione, si era
adeguata ad un sistema che sinceramente non avevo mai preso in considerazione:
l'azzeramento delle professionalità. Sicuramente per me è sta una grande
lezione di vita ed ho capito che avere degli ideali costa molto, ma io continuo
ad essere una "pura" e sognatrice e proprio per questo tutti stanno
facendo il tifo per un mio rapido ritorno in televisione. Certo avrei preferito
non dovere pensare di tornare solo perchè a breve ci saranno in seguito alle
elezioni politiche, i soliti cambiamenti ai vertici dell''azienda Rai, ma se il
mondo gira così, non è colpa mia, l'importante è potere continuare a fare con
serietà e libertà creativa il mio lavoro di conduttore ed autore televisivo,
continuandomi ad occupare di italiani all'estero, come faccio ormai da quasi
dieci anni...... senza dovere essere valutata solo per cambi di venti politici
-- Cosa possiamo sapere
della tua vita di donna. ¿Come ti dividi tra la tua professione e gli altri
interessi..?
F.A : In questo mi ritengo molto fortunata, poichè la mia professione è la mia
passione, quindi gran parte dei miei interessi trovano pieno appagamento
proprio nel mio lavoro. La mia passione resta però da sempre il mare. Da metà
giugno mi trasferisco nella mia piccola casetta a Ponza, un'isola del
Mediteraneo dove vado ormai da anni. Lì ritrovo il mio luogo delle radici ed un
ritmo di vita più lento, che mi consente di essere a contatto con la natura e
dedicare più tempo a me stessa, per me questo è il vero lusso.
QUALE DIREZIONE STIAMO PRENDENDO?
di Paola Guasco
Le scorse elezioni politiche in Italia hanno portato un nuovo assetto
decretando l’uscita dal Parlamento della sinistra più estrema; questo fatto
secondo me, pur non facendo parte di detta ideologia, ha contribuito alla
recrudescenza di un fenomeno importante: la rinascita del fenomeno chiamato
neonazismo.
In Italia si registrano inquietanti segnali di una rinascita del
neonazismo. Lo ha detto il Capo dello Stato Giorgio Napolitano in occasione
della cerimonia della Giornata della memoria per le vittime del terrorismo.
Il Capo dello Stato ha paventato il rischio di un ritorno del neonazismo in
Italia: "Stiamo vedendo segni di reviviscenza addirittura di un
ideologismo e simbolismo neonazista, dobbiamo saper cogliere il dato che
accomuna fenomeni pur diversi ed opposti: il dato della intolleranza e della
violenza politica, dell'esercizio arbitrario della forza, del ricorso
all'azione criminale per colpire il nemico e non meno brutalmente il diverso:
per sfidare lo stato democratico".
Gli abominevoli fatti accaduti nel veronese e anche, recentemente, a Roma
(i più eclatanti, ma ce ne sono tanti quotidianamente) nel quartiere Pigneto di
Roma credo debbano fare riflettere: non è che questi gruppi si sentano legittimati
a fare ciò che fanno in seguito alla vittoria alle elezioni del centro destra?
Certo, la classe politica, come è giusto, ha preso le distanze e condanna
vivacemente questi fatti che non le appartengono, però c’è da dire che forse, quando la base di questi movimenti si sente sdoganata e
legittimata dal sistema politico, allora, con ogni probabilità, diventa più
aggressiva, tende a recuperare lo spazio che per anni si era vista negare.
Questa
legittimizzazione secondo me deriva dalla propaganda politica più nazionalista
che certe bande, non comprendendola del tutto ( o adattandola ai
propri comodi) hanno fatto propria arrogandosi il diritto di difendere il
territorio e aggredendo il diverso (di qualunque colore, idea, cultura e
ambiente sociale).
Quindi,
a questo punto, che fare?
Non
c’è, a mio avviso, una risposta
immediata, solo le istituzioni e il buon senso possono provare a
ridimensionare il fenomeno, ciò che possiamo fare è riflettere, riflettere su
quale direzione stiamo prendendo e stiamo dando al nostro Paese.
UN COPRICAPO SEMPRE ATTUALE
di Raffaella
Santulli
Sovrani,
cattolici ed avversari di Lutero, Enrico VIII e Massimiliano I amarono entrambi l’arte venatoria ed i suoi
riti: l’inseguimento di caprioli e di lepri, di cinghiali e di daini nei
boschi, la crapula e la bisboccia nei banchetti che ne seguivano.
Dopo
qualche tempo il re d’ Inghilterra e d’Irlanda decise di dedicarsi ad altra
caccia, forse più pericolosa- fu anche ragione della sua rottura con
Gli
storici non sanno dire granché sul significato dell’elmo con corna di muflone,
che il suo antico compagno di scorribande, l’imperatore d’Asburgo mai
incoronato dal Papa, gli donò.
Ci
assicurano che il singolare regalo non era destinato ad una funzione difensiva,
ci spiegano che doveva avere uno scopo decorativo: il re avrebbe dovuto
indossarlo durante le parate e le altre occasioni ufficiali.
È
possibile credere che Enrico VIII potesse portare in pubblico un simile
copricapo? Un autentico mascherone sormontato da un trofeo venatorio senza
generare un irresistibile effetto comico?
No.
Ne siamo sicuri,ma quelle magnifiche corna attorcigliate di capra di montagna,
così vistose da destare riverenza, sono una consuetudine di cui si trovano
tracce sia nell’antichità classica ed in certe tradizioni barbariche, che
nell’odierna quotidianità.
Varia
solo il senso e la fattura.
Non
sono certo segno di fecondità e di potenza virile, ma cadeaux unisex talvolta
indossati con impropria ed ostentata alterigia.
TEMPI MODERNI
di Erika Scotti
....come cambiano i tempi...vi ricordate dell'asilo?
Io andavo dalle suore, severissime tra l'altro..e vi ricordate come passavamo
le giornate? Si giocava, si pitturava, si mangiava tutti insieme in silenzio ed
educatamente, si dormiva...a volte si vedeva un cartone e si imparava qualche
canto o poesia.Ah dimenticavo...il grembiulino! Rosa, giallo o azzurro, con o
senza fiocco e l'armadietto contrassegnato dal simbolo che poi ti perseguita
fino alle elementari...io ero la foglio verde...no dico, che gusto c'e' a
essere la foglia verde? E non e' che ti lascino scegliere, no! Te lo appioppano
non si sa bene in base a cosa e foglia verde rimani per 3 anni!
Meno
male che i tempi sono cambiati! Come
ho gia' fatto presente qualche articolo fa, ho un bimbo di 2 anni e 5 mesi e
proprio recentemente ha cominciato quello che in America Latina si chiama pre
Kinder...non mi e' ancora ben chiaro se significhi pre elementari da noi o
cosa...
Dimenticate le suore! (con tutto rispetto ..) e dimenticate le ''signorine'' o le ''maestre''....eh si' perchè qui si chiamano ZIE! Perchè uno studio sulla psicologia dei bambini dice che non vogliono sentirsi intimiditi da termini-stereotipo che ricordano l'autorità....e allora via con le zie! E il grembiulino?? Bocciato e sostituito da divise complete che comprendono: 1 maglietta manica corta bianca con ricamo che rappresenta il simbolo della scuola, nel nostro caso trattasi di uccellino che sta appena uscendo dall'uovo. 1 tuta da ginnastica con i colori della scuola, per noi rosso e azzurro 1 pantaloncino corto per l'ora di ginnastica in coordinato 1 paio di calzini di spugna 1 mantellina sempre con gli stessi colori e lo stesso ricamo che serve per mangiare o dipingere.
Il tutto non lo andate a comprare alla merceria del paese come succedeva qualche annetto fa ma vi viene consegnato direttamente dalla direttrice...pardon ZIA .... al momento dell'iscrizione. Ovviamente dimenticate ago e filo per cucire l'odiato simbolo ,adesso si fa ricamare a macchina il nome del pargolo su ogni pezzo di vestiario. E i pennarelli? Residuati bellici signori! Adesso si usano i colori a dita per stimolare la creatività e la manualità del pupo! Non crediate che le attività giornaliere siano lasciate al caso...mi e' stato consegnato un memorandum che comprende i programmi mensili fino ad agosto. Si avete capito bene perché qui un asilo che si rispetti non chiude d'estate, cambia semplicemente nome, diventa Campo Estivo e alleggerisce il programma con frequenti visite a tutti i parchi della città. Vi dicevo del memorandum....un programma completo e dettagliato sulle attività giornaliere. Per esempio , il lunedì si trattano i temi sociali....abbiamo la lezione sul rispetto degli animali, sul mondo del lavoro, su come curare e amare le piante e chi ne ha piu' ne metta. Il martedì e' il giorno della (tenetevi forte) valutazione psicologica! Tutte le settimane viene una psicologa che osserva i bambini allo scopo di individuare eventuali difetti nel camminare, problemi di linguaggio o comportamenti che denotano un qualche problema psicologico. Il mercoledì , una volta al mese, c'e' la consegna delle valutazioni sul bambino, una sorta di pagella dei nostri tempi. Giovedì nuoto e il venerdì si va in gita. Poi ci sono l'ora di inglese giornaliera, l'ora di musica due volte a settimana, e a partire dai 3 anni la lezione quotidiana di computer. Non so voi ma io sono esausta!
La cosa sorprendente e' che i bimbi moderni sembrano perfettamente a loro agio nel destreggiarsi tra tante differenti attività...nel giro di due settimane Alex ha completamente abbandonato il ciao preferendo il più internazionale bye bye.
Se poi decidete di iscrivere vostro figlio a tempo pieno, ossia fino alle cinque del pomeriggio allora sappiate che imparerà anche a ballare e recitare. Nel caso in cui vogliate seguire al massimo il rendimento del piccolo allora ci sarebbero i colloqui privati con i diversi insegnanti ...ovviamente il professore di lingua straniera, rigorosamente madrelingua, parla esclusivamente inglese con bambini, genitori e colleghi compresi.
Tutto quello che riguarda l'ecologia e il mondo animale e' considerato di grande importanza nell'educazione dei bambini tanto che l'asilo ha un area verde riservata all'orto in cui ogni bimbo e' responsabile di una piantina che aiuterà a curare e a turno le classi hanno la responsabilità di prendersi cura di un coniglietto a cui non deve mai mancare cibo acqua e pulizia.
I prezzi non sono proprio alla portata di tutti per questo tipo di
scuola, parliamo di 170 dollari al mese dalle 8.30 alle 12.30 escluso il
pranzo, più 15 dollari di
assicurazione, 25 dollari per il corso di nuoto e la matricola che sono circa
200 dollari annuali e che comprende la possibilità di collegarsi via internet,
usando un codice particolare, con le telecamere dell'asilo per poter vedere in
ogni momento i vostri piccoli impegnati nelle loro attività quotidiane, da
aggiungere 50 dollari mensili nel caso vogliate usufruire del servizio di trasporto. Stiamo parlando di un normale asilo, niente di eccezionale...se poi
volete il top del top allora fatevi 2 anni in lista di attesa e iscrivete la
prole al famosissimo e di elite Accademia Cotopaxi e preparatevi a sborsare
circa 300 dollari al mese per un part time.
Ebbene questo e' stato il mio primissimo impatto con il sistema educativo ecuadoriano....potete biasimarmi per essermi sentita, almeno per un attimo, una specie di dinosauro sopravvissuto all'ultima glaciazione?
TUTTA
di Carla Rinaldi
Chi
se non Paolo Virzì poteva girare una storia sul precariato condendola di humour
feroce e sagace solo come il suo cinema sa fare?
“Tutta
la vita davanti”, l’ultima sua fatica, racconta la generazione detta proprio
“call center” perché ormai con o senza laurea, con o senza sette master e varie
specializzazioni, alla fine un ragazzo su uno, finisce a lavorare a buttare
l’anima per qualche centinai di euro al mese, in quei non luoghi lunari dove le
luci al neon sono il cielo, le cornette telefoniche sono gli unici contatti
umani, dove la truffa nella maggior parte dei casi, diventa l’unica
specializzazione che devono imparare in fretta per poter restare seduti a
chiamare la gente per qualche monetina.
E’chiaro
che Virzì ha romanzato all’ennesima potenza tutto, la ragazza punk sicula
laureata in filosofia con il massimo dei voti che affronta qualsiasi
tribolazione; il ragazzo iper motivato del call center che vive, galvanizzato
dai suoi capi aguzzini, la sua missione di estorcere denaro alle vecchiette
rendendosi conto solo alla fine del film che tutto è troppo marcio perché alla
nonna in dialisi ha spillato 15.000 euro e dal call center riceve 800 euro ogni
due mesi; il sindacalista che cerca di far svegliare i precari a ribellarsi
contro lo sfruttamento; la bonazza svampita coatta vuota e demotivata, madre di
una bimba che lascia al suo destino per cercare con stratagemmi squallidi di
rifarsi una vita; il capo maschio del call center (Massimo Ghini) palestrato e
disperato perché la moglie lo ha sbattuto fuori di casa e succhia alimenti
miliardari ogni mese; la capo o kapo’ femmina (Sabrina Ferilli) del call center
che ogni mattina manda sms mielosi in serie a tutte le ragazze dell’azienda con
le quali ad ogni inizio mattina balla e canta una canzone che dà forza, amore e
fede in quello che fanno, ossia frodare gli altri e se stesse soprattutto.
Tutto
viene raccontata dalla voce di Laura Morante che, consapevolmente cinica e
ingenuamente pungente, si prende il giusto lusso di narrare da fuori un mondo orribile
al quale deve fare per forza parte la protagonista punk sicula che non è
coatta, non ha mai visto il “Grande fratello”, non è spendacciona, è colta,
dolce, preparata, ma vive in Italia nel 2008 ed è quindi costretta a telefonare
ogni giorno centinaia di persone cercando di convincerle ad acquistare un
inutile e mal funzionante aerosol al prezzo di un diamante di Bulgari.
La
commedia è amara e deve essere così, almeno quella italiana che solo il regista
livornese è capace di fare, si ride per due ore ma quando si accendono le luci
quel senso di acre rimane e, specialmente in questo caso, non si sa se le
lacrime di gioia o più concretamente di dolore.
di Goffredo
Palmerini*
Al Presidente del Censis il premio per il 2008
dell’antica tradizione Agnesina
L’AQUILA
– E’ stata conferita a Giuseppe De Rita
Negli
ultimi anni di vita Foucault aveva istituito, all’Università di Berkeley, un
corso sulla problematizzazione della parresia, sulla rilevanza che nelle
società moderne possono assumere i parresiasti, cioè coloro che hanno il
coraggio di dire la verità e di viverla, con schiettezza ed autorevolezza.
La
consegna della Targa è avvenuta venerdì sera nel corso d’una intensa cerimonia
nella sala delle Assemblee della Cassa di Risparmio dell’Aquila, presenti le
massime autorità regionali e cittadine ed un pubblico numeroso, molto interessato
ad ascoltare le “maldicenti” argomentazioni dell’illustre ospite, secondo la
tradizione aquilana della festa di Sant’Agnese. Occorre tuttavia richiamare
alla memoria che
E’ stato
il presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco - consegnando
Quindi Del
Turco ha sottolineato l’importanza del Censis, di cui De Rita nel 1964 è tra i
fondatori. Molti in Italia i Centri Studi, negli anni sessanta e settanta,
caratterizzati però dal “pregiudizio ideologico”. Al contrario del Censis, le
cui relazioni – benché criticate ed osteggiate al momento – si sono poi sempre
dimostrate “vere” nell’analisi e nelle terapie proposte, tanto da essere un
riferimento imprescindibile d’ogni seria valutazione della realtà sociale
italiana.
Tutto il
pubblico, a questo punto, attendeva una riflessione da parte del prof. De Rita,
che non è mancata. Intanto - ha dichiarato il prof. De Rita - la curiosità,
l’originalità di tale tradizione, i principi che da secoli l’animano ed una
sorta di piacere “narcisistico” nell’essere riconosciuto come personaggio
capace di dire le cose come stanno, l’hanno indotto ad accettare il premio
“Socrates Parresiastes”. Poi ha preso un
po’ le distanze – per una sorta di modestia - dal personaggio che predica la
“verità”, sia declinata in terra come a maggior ragione quella trascendente,
con la lettera maiuscola. Più aderentemente De Rita preferisce definirla
“realtà”. Egli è un “monaco delle cose”, secondo una definizione in cui
pienamente si ritrova. Egli per mestiere “annusa”, osserva e descrive la realtà
in giro per l’Italia.. Quella stessa che spesso la politica e il potere
stentano a riconoscere, se non dopo anni, come capitò quando in una relazione
del Censis all’inizio degli anni settanta parlò del “localismo”, analizzando il
fenomeno tessile di Prato e della economia sommersa che lo riguardava,
suscitando reazioni e critiche. Quella “realtà” attese decenni per essere
riconosciuta e metabolizzata. Il tempo che vive L’Italia, sebbene con una
difficile congiuntura, fa descrivere a molti un declino che non c’è, coloro che
ne parlano forse ne avvertono la percezione che non va confusa con la realtà.
De Rita ha
quindi fotografato in quattro punti l’odierna “realtà” italiana: localismo,
identità anziché relazione, il “qui e subito”, il ritorno del sacro sul santo.
Ne ha tratteggiate con rigore analitico le caratteristiche, che riconducono a
quell’Italia a coriandoli, dei particolarismi che non si legano ad unità e a
sistema. Non ha tratto giudizi, lasciati a chi ascolta. Ne viene fuori un Paese
– questa la valutazione tratta da chi scrive - chiuso nei particolarismi e
sempre più spesso negli egoismi, dove la pratica ossessiva dell’identità fa
perdere le coordinate della vita di relazione degli uomini e delle comunità,
alimentando la paura dell’altro, specie quando è culturalmente diverso.
Attenuato il senso del processo storico e sociale, si preferisce vivere e
godere il presente, senza riferimenti nel passato e senza riguardo per
l’avvenire. Persino il senso religioso – il prof. De Rita ha chiesto venia
all’arcivescovo Giuseppe Molinari, che l’ascoltava, per questa osservazione –
tende a ritirarsi nel “sacro”, in una contemplazione verticale con Dio,
piuttosto che frequentare “il santo”, seguendo le indicazioni del Concilio
Vaticano II, ossia il difficile cammino nella storia dell’umanità, nel mondo di
oggi, sporcandosi le mani per cambiarne il corso e riconoscendo Cristo nei
poveri, negli emarginati, nei sofferenti e anche nei migranti. Ecco, questa
“realtà” andrebbe superata per recuperare una società più aperta, giusta e solidale,
più unita e segnata dalla speranza, piuttosto che dalla paura. Queste, dunque,
le impressioni ricavate dalla conversazione del prof. De Rita, già presidente
del Cnel dal 1989 al 2000, collaboratore del Corriere della Sera, dal 1995
presidente della casa editrice Le Monnier e membro della Fondazione Italia-Usa.
A conclusione della cerimonia il Sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, ha
donato a De Rita una targa d’argento con su scritto “A Giuseppe De Rita,
aquilano”. Già, perché un Agnesino “maldicente” può essere solo aquilano!
*
gopalmer@hotmail.com - componente del
Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo
MARC ANTHONY: MUSICA, PASSIONE E POESIA
di Paola Cerana
Tra
le innumerevoli newsletters che puntualmente mi tengono aggiornata sulle novità
discografiche e gli appuntamenti concertistici della musica latinoamericana, mi
è finalmente giunta una notizia su cui oramai non contavo più.
Dal
18 giugno al 18 agosto il Forum di Assago di Milano ospiterà, come ogni anno,
il Latinoamericando-Expo, la più importante manifestazione d’Europa dedicata
alla musica, alle danze, alla gastronomia e a tutte le forme espressive del
mondo latinoamericano. Molti grandi artisti hanno animato, in passato, il
Festival, giunto alla sua diciottesima edizione: Tito Puente e Celia Cruz,
Eddie Palmieri e Juan Luis Guerra, Gilberto Gil e Jorge Ben Jour. L’atmosfera che si respira ogni volta è
quella di un grande villaggio multicolore, un tuffo nei Tropici, in cui persone
diverse per razza e cultura si fondono a suon di salsa, merengue e samba.
La
grande notizia è che il 1 luglio, finalmente, si esibirà Marc Anthony, il
“Principe della Salsa”. Da anni è stato corteggiato dai suoi fans italiani,
costretti, finora, ad affrontare lunghi viaggi per poterlo ascoltare dal vivo.
E chi, come me, ama questi ritmi sa cosa significhi assistere ad un concerto in
cui la musica parla direttamente al corpo, prima ancora che alla testa, e si fa
danza, penetrando ogni muscolo, catturato senza freni dall’esuberanza e dalla
sensualità dei movimenti.
Molti
oggi conoscono Marc Anthony semplicemente per essere il fortunato consorte di
Jennifer Lopez, la cui immagine mediatica ha messo in ombra le sue qualità
artistiche di autore, cantante e attore. In realtà la salsa degli ultimi
vent’anni deve molto a lui.
Figlio
di genitori puertoricani, Marc Anthony – nome rubato al cantante messicano
Da
quel momento, infatti, Marc Anthony comincia a cantare in spagnolo, esordendo
con una versione in salsa di “Hasta que
te conocì”, struggente bolero di Willie Colon, che lo rende popolare non
solo negli Stati Uniti ma in tutta l’America Latina. La consacrazione
definitiva della sua carriera arriva nel 1997, con l’album “Contra la corriente” e oggi Marc Anthony
ha conquistato il mercato e il pubblico internazionale, altalenandosi tra la
salsa vecchio stampo e il pop più commerciale.
Questo
contagio, in verità, mi porta spesso a rifugiarmi nel revival, riaccendendo in me la nostalgia di quelle sonorità
tradizionali che mi avevano fatta innamorare quando ancora la musica
latinoamericana era solo
un’irresistibile passione e non ancora una moda. Tuttavia, questa
compenetrazione
di stili pare essere commercialmente vincente, visto che cantanti come Willie
Colon e Ruben Blades - e molti altri ancora - rimasti fedeli alle loro origini
musicali, restano pressoché sconosciuti fuori dall’America Latina, nonostante siano
poeti e cantanti eccellenti. E’ indiscutibile, comunque, il virtuosismo vocale
e l’energia coinvolgente di Marc Anthony che, oggi come quindici anni fa, mi
emoziona, mettendomi le ali ai piedi, facendo battere il mio cuore all’unisono
con bongos e congas.
Anche
come attore Marc Anthony non smentisce la sua carica passionale. Nel film,
uscito lo scorso anno, “El Cantante”,
ridà vita e voce a Hector Lavoe, leggendario cantante puertoricano che nei
primi anni ’70 raggiunse un successo strepitoso, nonostante la vita travagliata
che lo condusse alla morte prematura, logorato dalla droga e stroncato
dall’aids. “Todo tiene su final, nada dura para siempre,
tenemos que recordar que no existe eternidad. Ovvero “Tutto ha una fine, niente dura per sempre, dobbiamo ricordare che non
esiste eternità”. Così Marc Anthony interpreta magnificamente, nel film, la
canzone che ha reso celebre, e paradossalmente immortale, Hector Lavoe.
Ma
è un duetto con
Vorrei
che queste parole si traducessero magicamente in note e chi leggesse si
sentisse preso per mano e invitato a ballare ad occhi chiusi. Di sicuro, anche
i giovani che conoscono la pop star di oggi non potrebbero non emozionarsi
ascoltando quella melodia gentile che parla al cuore e che appartiene a quella
che si definisce salsa vieja, salsa
vecchia che, in realtà, età non ha. Romanticismo e sensualità erano gli
ingredienti che si miscelavano armoniosamente nella salsa di allora, fino a
traboccare in morbidi volteggi e appassionati casquet, così lontani dal
martellante reggaeton che sta
spopolando ovunque ormai da qualche anno.
Credo che il Latinoamericando-Expo sia
un’occasione per recuperare un passato musicale pieno di passione e per fare
apprezzare ancor di più, anche al pubblico italiano, un artista che merita di
essere conosciuto meglio. Vale la pena, quindi, prenotare in anticipo il
biglietto, il cui costo si aggira attorno ai 50 Euro. Certamente non è a buon
mercato rispetto alla media dei concerti del Festival Latinoamericano. Ma per
un artista
abituato
ad esibirsi sotto i riflettori del Madison Square Garden di New York direi che
si può fare, anche perché chissà quando e se tornerà in Italia.
Per
chiunque perdesse l’evento milanese e per gli amici romani, Marc Anthony
bisserà il 2 luglio a Roma Capannelle, ospite della 14° edizione
del
“Festival Internazionale di Musica e Cultura Latinoamericana di Roma”.
Buon concerto a tutti, quindi, y que viva la salsa siempre, magari con un
pizzico di romanticismo in più.
HO VISTO ANCHE ZINGARI FELICI….
di Francesco
Aronne
In Blade Runner, vecchio ma sempre attuale film, lo spettatore
attento può captare “Ho visto cose che
voi umani non potreste neanche immaginare: navi da combattimento in fiamme al
largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi beta balenare nel buio vicino
alle porte di Tannoyser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come
lacrime nella pioggia. E` tempo di morire.” Parole che suonano come una
sorta di consolazione per noi terrestri: la violenza che in qualche modo
ammorba anche lontane zone dell’universo e non topico flagello (e punizione)
riservato esclusivamente a noi abitatori di questo pianeta.
Immagino un curioso crononauta
(alla maniera di un vero John Titor)
errante per la galassia alle prese con la storia, tra il passato e il presente della
biglia pazza che solo noi nell’universo chiamiamo Terra. Viandante galattico,
su un triciclo interstellare, in grado di farlo girovagare fluidamente nello
spazio-tempo da epoche passate ai nostri giorni.
Pensarlo, nel momento cruciale, nei paraggi del Sennaar (in Mesopotamia)
vicino alla torre in mattoni, costruita con l'intenzione di arrivare
al cielo e dunque a Dio.
Secondo il racconto biblico, all'epoca gli uomini parlavano tutti la medesima
lingua. E da inviato speciale dal nostro tempo,
scoprire e riferirci perché
Dio creò scompiglio nelle genti e, facendo sì che le persone parlassero
lingue diverse e non si capissero più, impedì che la costruzione della torre
venisse portata a termine.
Vedere la sua faccia nel muoversi ad elastico con
la trottola del tempo. Scoprire che il
tempo cambia molte cose nella vita, il senso di amicizia e le opinioni…
Interessarsi ai commenti di costernazione e sofferenza che si leggevano da ogni
colonna di giornale e udivano ad ogni TG per i disperati dei Boat-People: migranti
che fuggivano dai loro paesi (tra il ’75 e il ‘79 ed ancora tra l’88 e il ’90 dal Vietnam) per
motivi politici o economici su delle imbarcazioni di fortuna.
Spesso in sovraccarico e prive di ogni forma di
sicurezza, queste imbarcazioni hanno, a volte, fatto, allora come adesso,
parecchie vittime (per annegamento, fame, freddo, o anche perché speronate e
lasciate affondare). Cogliere lo stupore del suo volto, leggendo i ben diversi
ed immemori commenti degli stessi cronisti, quando nel ’97 orde di albanesi,
dopo secoli, ritornarono ad invadere le nostre coste.
E ora, vederlo dolersi guardando i volti dei
disperati che dal nord-Africa o altri lidi partono verso quello che pensano un
mondo migliore. Una vita racchiusa in quattro stracci appena contenuti in
un sacchetto di plastica pluriusato.
Occhi pieni di sofferenza e paura. Uomini e anziani, donne e bambini, tutti con
i volti segnati dal terrore su fragili imbarcazioni, in balia di canaglie, ad
affrontare l’inferno per rivendicare un disperato ed indiscutibile, seppur
negato, diritto di esistere raccattando le briciole del paradiso che non li vuole. Del paradiso
che li preferisce in malsani e sudici tuguri, a vivere di stenti o magari a
morire in una miniera da dove arriva il Tantalio con cui si arricchisce il
grasso occidente. E poi guardare il
bronzo mortale nel volto dei tanti paladini pronti ad offrire il petto alla mitraglia,
in ipocrite battaglie in difesa della vita, che si eclissano davanti a questa
sofferenza e queste morti e ad altre su sedie elettriche, con ghigliottine o
iniezioni letali. Vedere il disagio del
nostro crononauta nel non capire qual è il bambino giusto: quello della
pubblicità dei Pampers o il bambino sudicio, vestito di cenci e tormentato
dalle mosche, calpestato violato offeso dai morsi della fame e
dall’indifferenza del mondo???
Leggo lo stupore sul viso del nostro quando assiste
ai soccorsi di questi disperati.
Militari, finanzieri, marinai che raccolgono per mare queste schegge di
umanità, personale sanitario che fornisce i primi soccorsi, popolazione civile
che ha dato e dà spesso prova di altruismo e civiltà. Lo stesso stupore quando
ode in parlamento torme di miserabili che vomitano, in rozzi dialetti che
spacciano per lingue, odio e indifferenza. E’ scritto nel Talmud “Chi salva una vita salva il mondo intero.”.
I veleni elettorali, confezionati in pasticche e
pozioni, hanno acceso i falò per annebbiare tutto con fumo acre e amaro: il
fantasma della sicurezza fa le sue prime vittime. Il viaggio verticale attraverso evi e secoli riporta il nostro
time-traveller in altre epoche con altri problemi, ma con gli stessi demoni. Il
fumo che si alza dal quartiere di Ponticelli è quello di un rogo dei campi Rom
uguale a tanti altri fumi che hanno annebbiato la storia. Sguardi divertiti di stanziali senza pudore e vergogna
assistono alla violenza gratuita su gente inerme e terrorizzata. Qualcuno filma
col telefonino le brave gesta dei criminali.
La scintilla: una puntata di “Chi l’ha visto?” in
cui si denuncia il tentativo di rapimento di una neonata da parte di una
zingara. Consolidato copione che funziona sempre: la creatura innocente e
l’orca, tanto più ferocemente orca se di razza
orca! Un crimine è sempre un crimine, e come tale va perseguito, senza
indugio, da chi è preposto a questo. La razza non può essere un’aggravante né
un’attenuante. E il curioso viaggiatore, ci scopre un popolo veramente bizzarro
che fa i processi in televisione e dopo c’è il film che riconcilia il sonno. I
tribunali elargiscono grazie per
mancata trascrizione di sentenze. E l’arguto viaggiatore, ormai esperto delle
cose del pianeta, si chiede cosa sarebbe successo se a Cogne ci fosse stato un
campo Rom, ma poiché un campo Rom non c’è, per un crimine efferato ed
ingiustificabile (forse dimenticato) già chiede la grazia e l’oblio.
Il nostro vuole saperne di più e si chiede: chi
sono i Rom disprezzati con il nome di Zingari ? Trova una scheda di Avvenimenti
e scopre un “universo”…
GIOSTRAI,
NOMADI E "CAVALLARI"
I SINTI.
Prevalentemente giostrai e nomadi: sono presenti in molti quartieri periferici,
dove, specie in primavera, mostrano le loro attrazioni. Le famiglie si contraddistinguono
secondo la regione di provenienza. Abbiamo quindi: Sinti marchigiani, lombardi,
piemontesi.
I ROM ABRUZZESI.
Giunti in Italia sul finire del 1300, diffusisi nelle regioni centromeridionali
e, in particolare stanziatisi in Abruzzo, raggiungono la capitale nel periodo
tra le due guerre. Sono loro che abitano in prevalenza nella famosa baraccopoli
del Mandrione. Oggi, in parte abitano nelle case popolari di Nuova Ostia e
Spinaceto, in parte hanno case di loro proprietà, specie lungo la Tuscolana e
all'Anagnina.
I ROM LOVARA E
KALDERASA.Giunti in Italia agli inizi del
secolo derivano il loro nome dal mestiere di allevatori di cavalli (in
ungherese lob = cavallo) e di indoratori e lavoratori del rame (calderai).
Abitano in case e in roulottes.
I ROM KHORAKHANA E
KANJARJA. Provengono dalle regioni
centromeridionali della ex Jugoslavia. I primi sono musulmani, i secondi
cristiani di rito ortodosso. La loro immigrazione, iniziata negli anni '60,
continua tutt'ora e si è intensificata con la guerra civile in Bosnia. Sono,
per così dire, la spina nel fianco delle amministrazioni locali, in quanto non
si riesce a dare loro quei servizi necessari previsti dalla legge.
ROM RUDARI.
Originari della Romania, anche loro giunti attraverso la ex Jugoslavia in
Italia negli anni'60. Vivono in accampamenti meglio organizzati lungo la
Tiburtina e la Collatina. Si occupano della lavorazione del rame, sono
musicanti e vendono fiori per la strada.
I KAULJA.
Di recentissima immigrazione, provengono per lo più dalla Francia, ma sono
orignari dell'Algeria. Poverissimi, si aggregano talvolta ai Khorakhané con i
quali condividono la stessa fede religiosa.
I CAMMINANTI
SICILIANI. Originari della Sicilia orientale,
sono venditori ambulanti. Vivono per lo più in baracche.
Il nostro eternauta scopre,
indagando qua e là, che nel Wurttenberg, in Prussia ma anche a Milano molti
zingari furono consegnati direttamente al carnefice: la pena capitale poteva
infatti essere inflitta anche senza processo e la Serenissima Repubblica di
Venezia aveva nel 1558 stabilito che chi consegnava alle autorità uno zingaro
riceveva dieci ducati e che "possendo etiam li detti Cingani, così
homini come femmine, che saranno ritrovati nei Territiri Nostri esser impune
ammazati, si che gli interfettori ( gli uccisori ) per tali homicidi non abbino
ad incorrer in alcuna pena." Fu proprio in questo periodo che nacquero
alcuni dei peggiori pregiudizi nei confronti dei sinti e dei rom. Si disse che
erano delle spie al servizio dei turchi, che, per la loro dimestichezza coi
metalli, fossero i discendenti di Caino e che avessero forgiato i chiodi usati
per crocifiggere il Cristo, che rapissero i bambini, che subdolamente
diffondessero la peste ....
Interessato e sconcertato da questi avvenimenti, il viaggiatore
temporale va oltre, risalendo verso i giorni nostri, e si imbatte
nell’Olocausto, grida di disperazione e dolore giungono dai bassifondi della
storia. Cerca spiegazioni, vuole saperne di più, è a Norimberga i giorni del
giudizio degli uomini. Gli inquirenti incaricati di predisporre gli atti di
accusa del processo di Norimberga, contro i criminali nazisti, non sono
riusciti a valutare con precisione l'entità del massacro: sicuramente più di
500.000 zingari scomparvero nei vari campi di concentramento nazisti. Nello
stesso processo vennero spese soltanto poche parole per l' olocausto che segnò
profondamente l'intero popolo zingaro.
Sfoglia alcune pagine di un libro e legge che gli Zingari, un popolo
antico e pieno di vitalità, hanno cercato di resistere alla morte, ma la
crudeltà e la superiorità dei nazisti ha avuto il sopravvento. Talvolta, nel
loro martirio, hanno trovato nella musica una qualche consolazione: affamati e
laceri si radunavano fuori dalle loro baracche ad Auschwitz per suonare e
incoraggiavano i bambini a danzare (...). Molti testimoni hanno parlato del
grande coraggio degli Zingari che hanno combattuto insieme ai partigiani in
Polonia.
E nei campi di concentramento, sulle tracce dei
nomadi provenienti dall’est si imbatte nella follia genocida di quel regno delle
tenebre. Tra ciò che rimane nel campo di sterminio di Bergen Belsen
raccoglie la pagina di un diario portata dal vento e porta la data 15 luglio
1944:
« "la
gioventù, in fondo è più solitaria della vecchiaia." Questa massima che, ho letto in qualche libro mi è rimasta in
mente e l’ho trovata vera; è vero che qui gli adulti trovano maggiori
difficoltà che i giovani? No, non è affatto vero. Gli anziani hanno un’opinione
su tutto, e nella vita non esitano più prima di agire. A noi giovani costa
doppia fatica mantenere le nostre opinioni in un tempo in cui ogni idealismo è
annientato e distrutto, in cui gli uomini si mostrano dal loro lato peggiore,
in cui si dubita della verità, della giustizia e di Dio. Chi ancora afferma che
qui nell’alloggio segreto gli adulti hanno una vita più difficile, non si rende
certamente conto della gravità e del numero di problemi che ci assillano,
problemi per i quali forse noi siamo troppo giovani, ma ci incalzano di
continuo sino a che, dopo lungo tempo, noi crediamo di aver trovato una
soluzione; ma è una soluzione che non sembra capace di resistere ai fatti, che
Il nostro crononauta è sconcertato… queste righe lo
hanno fatto riflettere sull’assurdità del nostro destino. Pronti a commuoverci
per questa pagina che viene da lontano ed incapaci a trovare il senso di questo
inchiostro nel nostro tempo, tra i nostri contemporanei.
Lascio il crononauta al suo destino, ma resto a
meditare sul suo peregrinare. Certo che il nostro amico non ha parlato di
zingari ai semafori che chiedono l’elemosina, di zingare che girano nelle case
a truffare e rapinare gli anziani, di zingari capaci da far passare dal buco
della serratura elettrodomestici e mobili di un appartamento, non ha visto la
sporcizia e l’abbandono di un campo rom, non ha visto zingare rapire bambini o rubare auto… Non
credo che tutto questo faccia piacere a nessuno, e penso forse neanche agli
stessi protagonisti. Uno stato civile può e deve avere altri mezzi di difesa.
Nuovi pogrom su questa etnia non
credo portano lontano... Il viaggiatore cosmico ha più volte riflettuto sulla
nostra corta memoria… Come erano considerati i nostri emigranti negli Stati
Uniti? Chiedetelo a chi ha conosciuto innocente la sedia elettrica poiché
italiano, o alle braccia che viaggiavano in terza classe e facevano la
quarantena ad Ellis Island, anche quelli
che andavano a lavorare nelle saline e solo perché più capaci degli indigeni,
massacrati in Camargue. Abbiamo già scordato le scritte dei locali tedeschi
dove era vietato l’ingresso ai cani ed agli italiani? Abbiamo scordato i
cartelli che per la strade della civilissima Milano dei “Non si affitta ai meridionali!”. Non mi si venga a dire “Italiani? brava gente!”. Nei paesi che
ci hanno ospitato abbiamo riempito le carceri con gli emigrati di altre
nazioni, esportando mafia, camorra e mano nera… quante vite border line hanno scelto di delinquere per non morire di stenti?
Sono stato emigrato, e anche fortunato. Sono grato
al paese che mi ha ospitato, ma non posso dimenticare quanto visto e sentito.
Le orde neonaziste inveire contro quelli che “rubavano il pane ai tedeschi” le scritte sui muri “Auslander raus!” e poi vedere che in
fabbrica, esclusi i capi, a fare il metalmeccanico un tedesco non resisteva più
di due giorni argomentando che era un lavoro per gastarbeiter. Cose già viste lustri fa anche nel civile e profondo nord
dove per questi lavori allora c’erano gli egiziani. Ora come allora, per
l’educazione avuta ed anche per la storia personale, cerco di avere sempre a
mente la lettera agli Ebrei che così ci esorta: "Non dimenticate
l'ospitalità; perché alcuni, praticandola, senza saperlo, hanno ospitato
angeli" (Eb. 13:2).
Sul lento traghetto greco sono vicino ad una famiglia Rom. Viaggiano in
un vecchio camion, padre, madre e cinque figli. Le donne da un lato, gli uomini
dall’altro. Gente semplice che non si preoccupa di chi gli sta intorno. I
bambini hanno occhi penetranti e trasmettono tanta dignità. Sembra una visione
surreale in contrasto con l’iconografia tradizionale. Quando il battello comincia
a traballare oltre ogni tollerabile misura e dal bar arriva un fracasso
della merce contenuta in un espositore andata per aria, si aggrappano impauriti
ai loro genitori. Con il ritorno alla normalità siamo tutti più
tranquilli. E quei volti ritornati sereni mi riportano alla mente parole di
un altro evo: “Ma ho visto anche degli
zingari felici, corrersi dietro, far l'amore e rotolarsi per terra, ho visto
anche degli zingari felici in Piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta
e di guerra”.
"Prima di tutto
vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano
fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero
comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare".
Bertold Brecht - Berlino,
1932
FARONOTIZIE.IT - Anno III - n° 26, Giugno 2008
Questa pagina contiene solo il testo di tutti gli articoli del n° 26/2008
Redazione
e amministrazione:
Scesa Porta Laino, n.33 87026 Mormanno
(CS)
Tel. 0981 81819 Fax 0981 85700 redazione@faronotizie.it
Testata
giornalistica registrata al Tribunale di Castrovillari n°02/06
Registro Stampa (n.188/06 RVG) del 24 marzo 2006
Direttore responsabile Giorgio Rinaldi