FARONOTIZIE.IT - Anno III - n° 24, Aprile 2008
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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi
ARRESTATELI TUTTI !
(O QUASI)
Editoriale del Direttore Giorgio Rinaldi
Della discarica a cielo aperto che è diventata buona parte della Campania, questo giornale ne aveva già trattato (‘O gallo ‘ncoppa a munnezza, agosto 07).
In poche righe erano stati evidenziati alcuni problemi, poste delle domande, sottolineata l’irrisolvibilità della crisi, se non con tempi lunghissimi.
Esperti, politici, ipercommissari, televisioni, stragrande parte della stampa nazionale, per contro, hanno continuato imperterriti, come se avessero stretto uno scellerato patto segreto, a dire che il problema era in via di soluzione, che sarebbero bastate poche settimane, che la colpa era di quelle popolazioni che si opponevano agli insediamenti di discariche e di termovalorizzatori, etc., etc. .
La realtà, purtroppo, è da mesi davanti agli occhi di tutto il mondo, e a sopportarne le conseguenze, chissà per quanti anni, saranno le tante brave persone della Campania e gli incolpevoli italiani.
E si, l’Italia all’estero non è più vista solo come un’equivalenza mafiosa, ma anche sinonimo di sporcizia.
Ma, è bene ricordarlo, le migliaia di tonnellate di rifiuti che giacciono sulle strade del napoletano e del casertano rappresentano solo la parte visibile del problema, la classica punta di un iceberg.
Il vero problema è sottoterra, come si dice per gli errori dei medici.
Rifiuti tossici industriali, di inequivocabile provenienza di industrie del nord Italia (in Campania e in tutto il Sud non esistono industrie che producono quel tipo di rifiuti ritrovati), altamente inquinanti e di costosissimo smaltimento hanno minato, e non si sa per quanto tempo, le falde acquifere, tanto da uccidere animali, piante e –verosimilmente- anche persone, data l’elevata incidenza di pericolose malattie rilevate nelle popolazioni locali.
Si ritiene che –addirittura- una intera nave, ricca di componenti di amianto, sia stata portata, pezzo-pezzo, nei territori campani e colà sotterrata.
Ora, è lecito domandarsi: nessuno ha mai visto nulla?
Quanti camion saranno serviti, e per quanto tempo, a smaltire un’intera nave ?
A nessun sindaco, visto il viavai di mezzi pesanti, è venuto il sospetto che nel territorio da lui amministrato stesse accadendo qualcosa di poco chiaro e che, comunque, qualche verifica andasse fatta?
La pletora di esperti incaricati di controllare quotidianamente le discariche, hanno mai fatto il loro dovere e segnalato che i livelli di guardia erano superati e i terreni stavano subendo un inquinamento quasi irreversibile ?
Gli ispettori delle varie aziende sanitarie del nord Italia si saranno mai chiesto: ma, quella tale industria che lavora tot materiali, dove smaltisce i rifiuti che produce?
Avranno
avvertito
I Governi che si sono succeduti alla guida della Regione Campania e i super-ultra-extra commissari e sub commissari, oltre a spendere montagne di soldi con risultati prossimi allo zero, si saranno mai chiesto dove li avrebbero messi i rifiuti negli anni a venire senza una seria politica di smaltimento?
I sindaci hanno mai pensato che era giunto il momento di iniziare la raccolta differenziata e individuare aree policomunali dove collocare adeguati impianti di smaltimento?
Perché nessuna istituzione pubblica non chiama in pubblico contraddittorio scienziati di tutto il mondo che vengono a spiegare se hanno ragione quelli che i termovalorizzatori li usano, oppure Beppe Grillo che dice che è l’ennesimo (e criminale) atto dei politici che permettono e favoriscono un letale inquinamento da diossina?
Più il tempo passa e più si ha la sensazione di essere finiti nelle sabbie mobili, si continua ad essere risucchiati verso la fine, complici i tanti interessi e le tante connivenze, che ci fanno gridare, consci del rischio di poter scadere nel qualunquismo (ma non si vede via d’uscita!), all’azzeramento dell’attuale sistema di potere.
Possibile che in Italia, un Paese di circa 70.000.000 di abitanti non ci siano un migliaio di persone di grande levatura intellettuale e morale, dei galantuomini, per farne parlamentari in sostituzione di una classe politica logora e che non ha più nulla da esprimere?
Possibile che in questo Paese non venga mai presentato il “conto” a chi è stato capace solo di farsi gli interessi personali e arrecare danni alla collettività?
Possibile che in questa Italia le campagne elettorali debbano assomigliare a delle fiere di paese dove i venditori magnificano articoli che tutti sanno essere scadenti se non falsi?
Possibile che tanti ancora ci credano?
Possibile che gli italiani si meritino di essere governati da saltimbanchi e giocolieri?
Qualcuno dei politici, distintosi per integrità, onestà, capacità e cultura ancora può essere salvato, ma la stragrande maggioranza, che vede il Parlamento come il luogo in cui si possono fare solo i propri affari, leciti e non, merita solo l’oblio, se non peggio.
E allora arrestateli tutti, nel senso di: fermateli !
Poi, se a qualcuno dovessero mettere anche le manette e buttare via la chiave, nessuno se ne avrebbe a male.
LA TRISTEZZA DELLA SIG.RA SHNAJDER
Un film di Piro Milkani
di Mirela Topulli
Tutto comminciò quando Piro
Milkani, il regista del film “La tristezza della sig.ra Shnajder”, mi chiamò
per chiedermi di essere presente all’arrivo di Michele Placido, nel ambito
della “prima” del suo ultimo film, dove Michele ha avuto la parte di un conte.
Avevo avuto modo di vedere il film in formatto DVD quasi un anno fa, durante
il festival cinematografico albanese, fuori concorso.
Però l’emozione del grande schermo, in formato pellicola era tutta un’altra
cosa.
Il film è un racconto poetico di una storia d’amore ai tempi moderni, dove l’ideologia e la politica hanno messo delle barriere negli anni ’60. “Romeo & G Giulietta” dei tempi moderni dovranno confrontarsi con i rancori delle famiglie, mentre l’amore diventa una vittima, e l’Albania e i suoi cittadini non possono rimanere esclusi per 46 anni dalla stessa.
Il treno, l’autobus, le motociclette, i costumi cuciti..., siamo stati attenti a riportare quell’atmosfera vissuta realmente. Era difficile ma non impossibile. Siamo preoccupati anche dei piccoli dettagli come i bottoni delle camicie, le spille dei capelli, le sigarette senza filtro, racconta il secondo regista Eno Milkani.
Era una sorpresa anche per Michele Placido, il quale non aveva visto il film.
“Un film d’autore, come se ne vedono raramente oggi nel cinema contemporaneo”,
ha dichiarato Placido alla conferenza stampa dopo la premier del film.
Una storia vera, la storia del regista, nel 1961 quando studiava a Praga alla scuola del film FAMU, nonché “la storia di tutti coloro a cui è stata negata la libertà”.
Lekë Seriani, lo studente
albanese che insieme con altri due giovani della scuola del film, si trovano
in questo piccolo paese, Cheski Sternberk, per girare un film per il diploma.
Una fabbrica delle motociclette ESO. L’interesse dei giovani cineasti per
il paese Ceco, l’incontro con diversi personaggi come il conte (Michele Placido),
il capo della polizia.
Le riprese vengono fatte negli ambienti ( Paolo Bulioni), la responsabile
dell’albergo (Bara Shtepanova), e il direttore della fabbrica (Tomash Topfer),
compongono una delle linee della storia.
L’altra linea è il dramma personale dello studente Lekë, il quale nel 1961 è costretto a tornare in Albania perché il regime ha deciso di isolarsi dal resto dell’Europa.
Ho intervistato per Faronotizie Michele Placido e gli ho chiesto di descriverci le sue emozioni.
Un film bellissimo. Mi ha ricordato la grande scuola del cinema europeo,
la scuola cecoslovacca, registi come Milosh Forman.
Mi piace soprattutto l’aspetto formale del film, lo stile. Il cinema anche
degli anni 60 d’italia, mi fa pensare per esempio a Luchino Visconti, anche
per certe inquadrature, e a Bolognesi.
Che Pirro Milkani sia un grande regista non lo devo scoprire, però vedendo
i film che passano adesso sugli schermi, film tecnologici americani, i film
contemporanei, a vedere questo film si sentono emozioni, cosa che in genere
non succede nelle pellicole contemporanee. Sono orgoglioso di aver partecipato
a questo film, e mi fa piacere che questo film sia salito negli incassi ..
Anche Nik (Lekë) e stato bravissimo. E formava con Anja una coppia formidabile,
di grandi attori europei.
Come è stato mettersi nei
panni di un conte in un paese comunista?
Molte volte, noi che non abbiamo vissuto il comunismo, se fossimo vissuti
in un paese comunista l’avremmo pensato diversamente, perché una cosa è subire
la storia, subire il comunismo, e una cosa è fare una libera scelta.
Piro Milkani mi ha voluto al di là che il personaggio sia cecoslovacco o parli
una lingua straniera, e il personaggio del conte rappresenta la saggezza universale,
il personaggio racchiude la capacità di tranquillizzare un ragazzo per decidere
del suo futuro.
Mi rendo conto che è difficile dire qualcosa o fare una considerazione su
chi ha subito un regime totalitario. Però mi auguro che questa esperienza
e questo film servano molto anche per i giovani, che quell’ esperienza totalitaria
del comunismo sia di insegnamento a far sì che il male non prenda il sopravvento
sul bene.
Mi fa piacere oggi che Pirro Milkani è riuscito a fare un film su quel periodo
storico.
Quindi possiamo considerare
un inizio di una collaborazione... futura?
Si, io sono venuto in Albania perché mi piacerebbe con Piro Milkani fare
qualche buona cosa. Qui è tutto da fare. Abbiamo parlato pure con il Ministro,
spero che ci darà una mano. E a me piace dare una mano soprattutto ai giovani,
registi o attori come Nik.
DIRETTORE …CONSOLE !
di Ferdinando Paternostro
E’ ufficiale: Giorgio Rinaldi, direttore editoriale del nostro webmagazine, è stato nominato Console Onorario dell'Uruguay per l'Emilia Romagna.
Il suo mandato è praticamente iniziato in concomitanza con la visita a Bologna dell’ all'ambasciatore dell’Uruguay in Italia, Ramon Carlos Abin De Maria, che ha accompagnato negli incontri con le massime cariche istituzionali, cittadine e regionali.
Profondi sono i legami tra l’Italia e l’Uruguay: qui il 40 per cento della popolazione discende da italiani e circa 80 mila persone possiedono la doppia cittadinanza. Nei prossimi mesi, anche grazie alle iniziative del neo console, sarà avviata e consolidata una collaborazione tra Uruguay ed Emilia-Romagna, per fare conoscere agli uruguaiani il sistema fieristico e produttivo regionale e presentare agli imprenditori locali le opportunità offerte dalla Repubblica sudamericana.
Le foto che riportiamo ritraggono l’avv. Rinaldi assieme all’Ambasciatore ed alla consorte, prof.ssa Margarita Carriquiry, al Presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani, al Vice presidente Dalbono, all'Arch Claudio Melloni, Presidente dell’associazione “Emiliano-romagnoli emigrati in Uruguay” di Montevideo
Al neo Console le più vive congratulazioni di tutta la Redazione ed auguri di buon lavoro !
IL POLITICHESE
di Gianfranco Oliva
In un famoso sketch del 1982 , Carlo Verdone esaspera l’immagine del politico “peon-pianista-dragavoti” con tipico accento dialettale e con ricco repertorio di frasi standard e luoghi comuni ripetuti fino all’ossessione .
E’ una comune caratteristica ormai consolidata anche in coloro che emergono dalla mediocrità congenita della nostra classe politica .
Così , ogni “peon” risulta indistinguibile dall’altro, se si utilizzano come parametro di confronto, le frasi che egli stesso estrinseca .
La
variante peggiorativa , ce l’ha fornita Antonio Albanese con il suo Cetto
Il politico che possiede la capacità di trasmettere e stimolare idee all’uditorio con linguaggio forbito , semplice ed essenziale è ormai una rarità o forse risulta ormai estinto , almeno da noi .
In una sua nota , Maurizio Crippa (www.mestierediscrivere.com/testi/crippa.htm) ha catalogato , durante la sua attività di responsabile di una associazione industriale aderente a Confindustria , che lo ha visto partecipare ad una miriade di (testuale) “riunioni con sindacalisti, amministratori, imprenditori, manager e uomini politici” , tutta una serie di parole , espressioni , frasi senza senso , che , come precedentemente affermato , venivano continuamente ripetute per alla fine addivenire ad una conclusione …inesistente.
Crippa ha quindi suddiviso questo database in cinque sottoinsiemi :
più un elenco cumulativo generale :
Il meccanismo , quindi , ha coinvolto non solo l’habitat politico , ma anche quello che gli gravita attorno .
E , purtroppo , si rimane perplessi quando qualcuno giustamente afferma che la classe politica è la speculare immagine della società civile che l’ha votata !
D'altronde , tutto dipende dalla capacità dell’uditorio (in buona fede) che ascolta l’oratore , a saper discernere il messaggio (se esiste ) trasmesso da quest’ultimo.
Generalmente , assistiamo a sventolii di bandiere ed ovazioni , anche se dal palco si proferiscono sciocchezze individuabili finanche dall’uomo della strada : mai fischi e pernacchie .
Non ho la benché minima intenzione , come si suol dire , di pontificare , anzi mi dispongo umilmente nella vasta platea della suddetta società civile , ma ho voluto riprendere un parametro più volte proposto e riproposto : quello dell’indice di diffusione dei quotidiani nel mondo , anche se limitato al 1998 .
Il discorso può apparire semplicistico , ma sicuramente mostra il legame fra l’evoluzione di un paese ed il grado di conoscenza (non voglio parlare di cultura) della sua popolazione, ovvero del suo senso critico .
Tralasciando i paesi che ci precedono nella graduatoria , consiglierei di notare quelli che ci seguono ; indi , ipotizzare che le frasi in “politichese” fossero proferite nei paesi che ci precedono : in tutta onestà , partirebbero dalle piazze e dalle platee i suddetti fischi e le suddette pernacchie ?
Ho
ritrovato fra ritagli di giornali e di riviste che una volta mi divertivo
a conservare , una paginetta molto istruttiva con una tabella di
Permette di comporre delle frasi combinando opportunamente le settanta componenti elementari della tabella ; frasi vuote , senza senso , che fanno ricordare la storiella nella quale , alla richiesta di chiarimenti da parte di quel padre a riguardo di chi fosse il pretendente della figlia , gli venne risposto : “di fa non fa ‘nente , ma si sentisi cumi parla pare n’avvucatu….” (di fare non fa niente , ma se lo senti parlare sembra un avvocato) .
Detta tabella è la sintesi dello studio linguistico effettuato molti anni fa dai Proff. Marco Marchi dell’Istituto di Biostatistica ed Epidemiologia dell’Università di Pisa e Piero Morosini , direttore del laboratorio dell’Istituto Superiore di Sanità sui vari piani sanitari elaborati in quegli anni , estrapolandone ed isolandone le frasi più ricorrenti .
La tabella fu ironicamente denominata dagli autori “Generatore automatico di piani sanitari” e presentata nella rivista citata come “Prontuario di frasi a tutti gli usi per riempire di vuoto il nulla .”
Gli attuali aspiranti onorevoli , senatori , ma anche consiglieri regionali , provinciali , comunali , circoscrizionali , delle comunità montane , delle società municipalizzate ecc, ecc, ecc incrementerebbero notevolmente le loro potenzialità oratorie utilizzando questa tabella in modici corsi casalinghi , assimilabili a quei corsi accelerati che si reperiscono nelle edicole per imparare velocemente le lingue , per diventare chef ecc , onde mirare , più a lungo termine, a comporre frasi più impegnative che superano addirittura i principi cardine della matematica e della fisica , come “convergenze parallele” ed “equilibri più avanzati ”.
L’utilizzo della tabella segue queste fasi :
· si sceglie a caso uno dei dieci soggetti della prima colonna
· si fa seguire , sempre a caso , uno dei dieci verbi della seconda colonna
· quindi un qualsiasi periodo delle colonne successive
Quanti piani sanitari , urbanistici , paesaggistici , finanziari ecc si possono predisporre in questo modo ?
Gli autori hanno calcolato sette milioni .
Provare per credere .
L’utenza potenziale |
si caratterizza per |
il ribaltamento della logica assistenziale preesistente |
nel primario interesse della popolazione |
sostanziando e vitalizzando |
nei tempi brevi anzi brevissimi |
la trasparenza di ogni atto decisionale |
Il bisogno emergente |
privilegia |
il superamento di ogni ostacolo e/o resistenza passiva |
senza pregiudicare l’attuale livello delle prestazioni |
recuperando ovvero rivalutando |
in un’ottica preventiva e non più curativa |
la non sanitarizzazione delle risposte |
Il quadro normativo |
prefigura |
un organico collegamento interdisciplinare ad una prassi di lavoro di gruppo |
al di sopra di interessi e pressioni di parte |
ipotizzando e perseguendo |
in un ambito territoriale omogeneo a diversi livelli |
un indispensabile salto di qualità |
La valenza epidemiologica |
riconduce a sintesi |
la puntuale corrispondenza fra obiettivi e risorse |
secondo un modulo di interdipendeza orizzontale |
non assumendo mai come implicito |
nel rispetto della normativa esistente |
una congrua flessibilità delle strutture |
Il nuovo soggetto sociale |
persegue |
la verifica critica degli obiettivi istituzionali e l’individuazione dei fini qualificanti |
in una visione organica e ricondotta a unità |
fattualizzando e concretizzando |
nel contesto di un sistema integrato |
l’annullamento di ogni ghettizzazione |
L’approccio programmatico |
estrinseca |
il riorientamento delle linee di tendenza in atto |
con criteri non dirigistici |
non sottacendo ma anzi puntualizzando |
quale sua premessa indispensabile e condizionante |
il coinvolgimento attivo di operatori e utenti |
L’assetto politico istituzionale |
si propone |
l’accorpamento delle funzioni ed il decentramento decisionale |
al di là delle contradizioni e difficoltà iniziali |
potenziando ed incrementando |
nella misura in cui ciò sia fattibile |
l’appianamento di discrepanze e discresie esistenti |
Il criterio metodologico |
presuppone |
la ricognizione del bisogno emergente e della domanda non soddisfatta |
in maniera articolata e non totalizzante |
non dando certo per scontato |
con le dovute ed imprescindibili sottolineature |
la ridefinizione di una nuova figura professionale |
Il modello di sviluppo |
porta avanti |
la riconversione ed articolazione periferica dei servizi |
attraverso i meccanismi della partecipazione |
evidenziando ed espicitando |
in termini di efficacia ed efficienza |
l’adozione di una metodologia differenziata |
Il metodo partecipativo |
auspica |
un corretto rapporto fra struttura e sovrastrutture |
senza precostituzione delle risposte |
attivando ed implementando |
a monte e a valle della situazione contingente |
la demedicalizzazione del linguaggio |
PRESIDENZIALI USA VISTE DALL’ITALIA
di Emanuela Medoro
Le parole d’ordine dei candidati alla Presidenza, nell’agone delle primarie
Nella lunga, faticosissima e dispendiosa battaglia verso la candidatura per
Il messaggio di Barack Obama, invece, contiene battute polemiche verso Hillary,
unita in questo caso al vero avversario che è John McCain. Barak Obama incomincia
col dire: “ La nostra campagna è fondata su un movimento di base (grassroots
supporters) e diversamente dalla Senatrice Clinton e dal Senatore McCain
non abbiamo mai preso danaro dai lobbisti”. Mette dunque insieme il vero avversario,
che è Mc Cain, con
Ed ecco John Mc Cain, che ha già guadagnato la nomination dei Repubblicani (has clinched the Republican nomination”. Il verbo “to clinch” ha il significato base di concludere, decidere una questione. Nato in una base militare americana in Panama, comandata dal padre, per John McCain c’è stata a lungo la questione se potesse o meno correre per la presidenza, dato che il presidente deve essere “natural-born
American”, americano nato in America, una norma inventata dai padri fondatori per evitare che a qualche inglese venisse in mente d’andare a comandare nelle ex-colonie oltre Atlantico. Da non confondere questa espressione con “native American”, nativo americano che si usa per gli indiani, Navajos, Sioux, Apache etc.
Il caso è stato poi risolto a favore di Mc Cain, perché le basi militari all’estero sono considerate territorio americano.
Vediamo ora come McCain ha iniziato la sua campagna per le presidenziali. Ho ricevuto dal suo sito un video, con sfumature di colori e suoni molto dolci e suggestivi. L’incipit è una solenne citazione tratta da Teddy Roosevelt: “The time has come, John Mc Cain is the Man in the Arena”. L’ora è scoccata, John McCain è l’uomo nell’arena. Singolare l’uso del termine “arena”, un luogo di battaglie sanguinose. Segue una citazione d’archivio con la viva voce di Winston Churchill che dice in tempo di guerra: “We shall never surrender ! (Non ci arrenderemo mai!) . A seguire la voce di Mc Cain: “Stand up, we are Americans, we will never surrender, they will! …never give in, never, never, never…..(In piedi, siamo americani, non ci arrenderemo mai, loro lo faranno…mai cedere, mai, mai, mai). Segue l’elenco delle guerre da combattere e dei nemici da sconfiggere per sempre. Poi,venuto a più miti consigli, McCain aggiunge che il prossimo presidente deve dichiarare come “lui o lei”, intesi come Barack o Hillary, intendano arrivare alla più rapida conclusione possibile delle due guerre in corso, in Iraq e in Afghanistan (The swiftest possible conclusion).
Parla anche di leadership, John Mc Cain, oltre che di battaglie. Afferma che,
secondo lui, la leadership è più che un’aspirazione: é un grande senso di
responsabilità. E che il suo sarà un governo saggio e coraggioso, frutto anche
di grande esperienza politica. Di nuovo, prima di concludere, una esortazione
alla battaglia: “Alzatevi in piedi con me e combattete per l’America, la contesa
incomincia questa sera. (Stand up with me and
fight for
Questi tre candidati sono molto diversi l’uno dall’altro. Nuovo e sognatore Obama, esperta ed impegnata nel sociale Hillary, per il partito democratico. Battagliero e coraggioso McCain per il partito repubblicano. Ma in un aspetto sono proprio uguali tutti e tre, nella continua richiesta di fondi per la campagna elettorale. A questo proposito della Clinton segnalo il conio d’un bel neologismo: “Hillraisers”, da raisers for Hillary, coloro che raccolgono fondi per Hillary, diversi dai semplici contributors.
Le Presidenziali Usa viste dall’Italia
AGGIORNAMENTI SULLA CAMPAGNA ELETTORALE DEI CANDIDATI
di Emanuela Medoro
Questa ultima settimana ho ricevuto moltissimo materiale da tutti e tre i candidati alla Presidenza, i due democratici e quello repubblicano. Scelgo di fermarmi un po’ di più sul discorso che Barack Obama, candidato per il partito democratico, ha tenuto a Filadelfia sulla razza ed il razzismo, semplice ed essenziale nell’argomentazione, ma stimolante e fecondo di spunti di riflessione anche per noi. Obama incomincia col ripercorrere la propria storia personale. Figlio di un keniota e di un’americana bianca, ha frequentato le migliori scuole americane, fino alla laurea in giurisprudenza ad Harvard. Ha sposato un’americana che ha sangue di schiavi e di padroni di schiavi - è opportuno ricordare che i farmers, coltivatori di cotone e tabacco, bianchi, di solito d’origine nordeuropea, padroni di schiavi, compravano giovani nere con cui procreavano figli, schiavi a loro volta perché di colore, anche se figli del padrone -, un’ eredità che lui e sua moglie passano alle due figlie. Obama ha fratelli, sorelle, nipoti e parenti d’ogni razza e sfumature di colore, sparsi fra tre continenti, e pensa che in nessun altro paese del mondo sia possibile la realizzazione di una storia del genere, un vero figlio del melting pot americano. Guardando al futuro, Obama ritiene necessaria l’unità nel Paese ed assolutamente superate le dichiarazioni infuocate sulla discriminazione razziale del reverendo Wright di Chicago, perché problemi come due guerre in atto, la minaccia terroristica ampliata dalle guerre, i problemi dell’economia e del sistema sanitario, i cambiamenti climatici potenzialmente catastrofici, non hanno colore. Non sono bianchi o neri, latinoamericani o asiatici, appartengono a tutti. In nome di tali problemi, gravi ed impegnativi per tutti, Obama invita a superare le vecchie polemiche sulla discriminazione razziale. E’ un cambiamento dal basso in alto, non dall’alto in basso (not from the top down, but from the bottom up), per il miglioramento dell’unione nata duecento anni fa dalla guerra d’indipendenza americana contro la nobiltà inglese. Per la sua campagna elettorale, poi, Obama propone cene con lui e cinque altri commensali soltanto, sorteggiati fra i contributori della campagna elettorale, in cui gli ospiti sono liberi di porre domande e discuterne le risposte, cosa ben diversa dalle immense cene per centinaia di persone offerte per John McCain ed Hillary Rodham Clinton.
Dal materiale ricevuto dall’altra candidata del partito democratico, Hillary Rodham Clinton, è evidente l’impegno di tutta la famiglia. Caratteristiche le parole del marito Bill, che ci fa sapere che la sua famiglia non abbandonerà la competizione. A sua volta la figlia Chelsea invita tutti a partecipare al concerto che Elton John terrà a New York il 9 aprile a sostegno della madre, per cui chiede aiuto e contributi. Secondo lei, la madre sarà un’ottima presidente, perché sa bene come deve essere l’America. Auguriamoci che questa competizione all’interno del partito democratico finisca al più presto. C’è il rischio che i candidati, ambedue ottimi, si logorino a vicenda.
La campagna elettorale di John McCain suscita fantasie ed immagini spettacolari. Ve lo immaginate un suo comizio al Grand Canyon, l’immensa cavità, una specie di catena montuosa rovesciata, creata in milioni di anni dal fiume Colorado? I migliori film dell’epopea western, storie della penetrazione dell’uomo bianco nelle terre dell’ovest, delle guerre contro i nativi che le abitavano da millenni, hanno scene indimenticabili girate in quell’ambiente che sono parte dell’immaginario del mondo occidentale. Bene, John McCain, per la sua campagna farà un giro in autobus, lo “Straight Talk Express”, negli Stati del sud - Mississipi, Virginia e Florida - giro che avrà la sua conclusione in Arizona, sua terra natale. Fra tutti coloro che sosterranno la campagna con una donazione dai 50 dollari in su - in alto non ci sono limiti! - saranno estratti a sorte posti sull’autobus per un giorno di campagna elettorale. L’evento culminante del giro sarà un comizio al Grand Canyon. Facile prevedere che sarà un avvenimento di grande impatto emotivo, con un forte richiamo ai valori tradizionali fondanti della confederazione, largamente condivisi dagli americani. L’invito a partecipare al tour termina con questa descrizione del candidato: “ …è veramente un uomo con un’audace visione della nazione, il solo candidato pronto a servire come comandante in capo della Casa Bianca”. Bella l’idea che essere il numero uno della Casa Bianca è un servizio.
.
A PROPOSITO DI VINI E VITIGNI DI CALABRIA
di Giorgio Rinaldi
La Calabria, nonostante fosse conosciuta nell’antichità come “Enotria”, nella odierna produzione di qualità di vini non può certamente annoverarsi tra le prime Regioni d’Italia.
Il
Friuli, il Trentino, il Veneto, il Piemonte,
I vini di queste regioni sono tra i più apprezzati (e costosi) al mondo.
E ne hanno ben donde.
Ma, nulla di più.
Dire vini di Calabria, tra conoscitori ma non esperti, è dire Cirò, e con ciò chiudere ogni discussione.
Questo fino a poco tempo fa, però.
Si, perché accanto alla tradizionali e conosciute “cantine”, è veramente piacevole aggiungere nuove realtà, di grande spessore culturale, che con la ricerca e tanto amore per la terra e per le vigne, hanno non solo riportato “alla vita” vitigni che si credevano oramai irrimediabilmente e definitivamente perduti, ma hanno valorizzato, incredibilmente, le classiche uve di questa aspra regione italiana.
Non ci sono parole per descrivere l’eccezionalità dei vini di questa cantina calabrese.
I vini –tutti- bisogna assolutamente provarli.
Accanto alle uve di greco bianco, dalle quali viene prodotto il Cirò Bianco doc e il Donna Giovanna, e a quelle di gaglioppo, che danno vita al Cirò Rosso, doc e riserva superiore, e al Cirò Rosato doc, ecco le uve di magliocco dalle quali nasce il superlativo Paternum (solo 4000 bottiglie all’anno !!!) e il grande Maradea.
Una nota a parte merita il già citato Cirò Rosato doc e il Lumare (uve di gaglioppo e cabernet sauvignon).
Gli enologi sogliono classificare i rosati e rosè di tutto il mondo in una graduatoria di cinque grandi, e tra questi ritenerci il famoso Five Roses della cantina Leone de Castris di Salice Salentino.
Oggi questa classifica non vale più.
C’è il Rosato doc e il Lumare della Tenuta Iuzzolini a contendere o scettro.
Provare
per credere!
(www.tenutaiuzzolini.it – tel. 0962371326)
A MORMANNO SI CANTA COSÌ
di
1. Oilì, oilì, oilà [1] , màmma non c’è si bòi galà
Iè tèngu ‘na spìna a lu còri, sùlu cù ttìa mi pòzzu sfucà.
Oilì oilì oilà1 mamma non c’è se vuoi scendere
Io ho una spina nel cuore e solo con te mi posso esaltare.
2. Chi fài ‘nnànta ‘ssa pòrta? Puntìni e cavuzètti!
Su finìti li discursètti e vài dicènnu cà vòi a mè!
Cosa fai davanti alla porta? Ricami e rattoppi!
Bando alle chiacchiere. Se mi desideri non dirlo a nessuno!
Il fraseggio continua con varie improvvisazioni, tra cui:
3. Tu màmma vàcci pàrla ca jéju mi ci ‘mbrògliu
a Tirisinella vogliu non
madda dì cà nò.
Mamma vai tu a parlarle ché io mi confondo
Voglio Teresina e non mi deve dir di no!
4. E si mi dici cà nò, je fàzzu a càpu mìa
Mà pìgghju ‘mmènza à vìa e nò la làssu cchjù.
Se dovessi dirmi di no, farò di testa mia
La prenderò fuori casa per non lasciarla più!
ALTRE VARIANTI
Il quarto verso potrebbe pure esser così letto:
4 bis. E si mi dici ca no je fazzu
a capu mia:
la portu appressu a mia la portu a villià
Se mi dovesse dire di no, farò di testa mia
La porterò sempre con me, la porterò
a divertirsi. [2]
Tra le altre aggiunte significativa
può essere questa quinta strofe:
5. E si mi dici ca si la signora li fazzu fa.
La zappa e lu zappìli no li fazzu mai mangà!
E se mi dice si, le farò fare
Non la priverò né della zappa né della zappetta [3] .
Il brano, riportato pure nel mio Storie e Memorie di prossima
pubblicazione, non è assolutamente un testo banale come a prima vista potrebbe sembrare.
L’innamorato si rivolge alla sua amata ricordandole anzitutto che sua madre non c’è e che questo è il momento propizio perché possa scendere da casa per vederlo poiché, così recita il secondo verso, sente nel cuore una grossa spina, un desiderio ardente, che solo lei potrà lenire.
Continua: non attardarti sulla porta per portare a termine ricami e rattoppi; se mi desideri, bando alle chiacchiere, affrettati, senza dirlo ad altri!
Voglio evidenziare in questo testo due elementi: la scala [4] che si deve scendere e la porta che si deve oltrepassare. Essi sono gli intoppi sostanziali ed anche i limiti psicologici che una mamma autoritaria ha posto come paletti che resistono anche in sua assenza.
Tali elementi, ricordati e cantati nel breve componimento, risalgono tuttavia, e qui rimarco la non banalità del brano, ai canti del παραχλαυσιθυρον [5] (paraclausituron), ossia alle invocazioni presso la porta chiusa, cari ai poeti d’amore ellenistici, passati poi nella letteratura romana che ritroviamo nel Curculio di Plauto, una sua dimenticata commedia, nella quale leggiamo che Fedromo, giovane amante della bella
Planesio, vicino alla porta dell’amata improvvisa una serenata ai chiavistelli, suoi rigidi custodi: pessuli, heus pessuli, vos saluto lubens [6]
ecc. affinché si inteneriscano e lascino uscire dalla porta la bella.
La terza strofe, il ricorso alla Madre e in extremis, un suo coinvolgimento, merita una breve notazione.
La mamma [7] invocata è la persona che più conosce i segreti dell’animo, è l’ancora di salvezza in ogni momento della vita, è colei che non può deludere le aspettative del figlio.
Se poi, quarta strofe, ogni tentativo sarà inutile, ricorrerà al solo sentimento che, si sa, senza la ragione è imprevedibile e incontrollabile.
Questo mà pìgghju ‘mmènza à vìa, la rapirò per la strada, è la sintesi di tante letterature a cominciare dal rapimento di Elena, a quello di Proserpina, di Lucia e di tante altre donne che con l’estrema ratio della fuitìna [8] , pongono fine ai sospiri e alle attese. Anche la seconda versione, la pòrtu appressu a mmìa la portu a villià si equivale alla prima. L’amata segue l’amato che s’impegna a farle trascorrere una vita serena.
La quinta strofe, ricordatami dall’amico
In essa l’uomo cui pure è stato dato l’assenso e la disponibilità ad essere amato, forse perché non ha combattuto a pieno il duello d’amore o forse perché conscio che è inutile fare promesse impossibili, preso e calatosi nella realtà di una dura esistenza, vuole condividere con la sua donna non solo gioie quanto soprattutto i sacrifici cui andrà e andranno, insieme, incontro. In modo rude quindi e senza fronzoli, le affiderà i propri attrezzi di lavoro, quella zappa che scuote e incurva le ossa, fa vibrare i nervi lasciando segni incancellabili, che tuttavia modifica in attrezzo meno pesante e più maneggevole anche se alla fine provoca gli stessi irreversibili danni.
Concludo sottolineando come antico è veramente il cuore del nostro presente e come la cultura classica continua ad essere un’esperienza storicamente valida e vitale, vero presupposto della nostra civiltà.
MENO MALE CHE….IL MENDICANTE C’E’
di Nicola Perrelli
Il più delle volte per tentare di capire la realtà in cui viviamo ricorriamo a complesse analisi o a interpretazioni ermetiche. Ad esempio il sociologo Baudrillard per spiegare lo stato delle cose parte dall’idea di iperrealtà, che cosi definisce: “l’iperrealtà è un concetto diverso da quello di reale, di realtà, senza per questo coincidere con l’immaginario. Per iper-realizzato bisogna intendere tutto ciò che fornisce i segni della realtà, che addirittura è più reale del reale, ma che da questo prende le distanze, nel senso che tutto ciò che vediamo è segno di una realtà che ha perso i suoi referenti...”, chiaro, no?
Eppure per comprendere la complessità della realtà, quella sociale specialmente, è spesso sufficiente osservarla da un altro punto di vista, da quello che propone un racconto o una favola per esempio.
Attraverso le vicende narrate in un racconto i personaggi e le situazioni prendono forma nella nostra mente e diventano veri, stimolano la nostra curiosità e immaginazione, ma soprattutto inducono a dare significato a ciò che avviene intorno a noi. In altre parole ci aprono gli occhi e ci svelano senza pudori e reticenze come stanno davvero le cose.
Di recente ho letto un breve ma significativo racconto che mi ha fatto molto riflettere sull’importanza che ha l’essere consapevoli delle propri e scelte.
E’ la storia di un vecchio, denutrito e deluso, che da anni e anni bazzicava la sala d’aspetto del Ministro per combinare un incontro.
“C’è Sua Eccellenza”, domandava?
“C’è ma è occupato”, rispondevano gli uscieri.
Il vecchio perciò, timidamente, si metteva a sedere e aspettava fino a quando non gli dicevano: “ Sua Eccellenza è uscito”, e allora se ne andava.
Di sicuro aveva qualcosa di serio da chiedere a S.E., ma in tanti anni nessun ministro lo aveva mai ricevuto. E un sottosegretario, sospettando che il vecchio fosse lì, in quelle confortevoli stanze, per ripararsi d’inverno dal freddo e l’estate dal caldo, per poco non lo cacciò via a calci nel sedere.
Un’altra volta un impiegatuccio super stipendiato, per fare una battuta spiritosa, disse: “ Facciamolo ricevere da S.E.!”, suscitando l’ilarità tra i suoi colleghi pelandroni, raggruppatesi nella sala d’aspetto.
Ormai in quelle stanza il vecchio era di casa, la sua figura quasi faceva parte dell’arredo, si confondeva eccezionalmente con le scene epiche e i personaggi raffigurati sugli arazzi e sulle tele.
Gli erano passati davanti tanti ministri. Aveva visto quelli che battevano i tacchi e quelli che battevano cassa. Tante volte, nei corridoi, aveva sentito parlare di riforme, di giustizia, di Pil, di conflitto di interessi e di lavoro per tutti. Poco però di tutela del risparmio, di qualità della vita e di pari dignità sociale.
Un giorno, il vecchio, dopo aver fatto la solita domanda e ricevuto la solita risposta, stanco e malmesso come mai era stato visto, si diresse lentamente verso il divano dove soleva adagiarsi. Qui lo videro impallidire e accasciarsi.
Subito intervennero gli uscieri e giacché proprio in quel momento usciva dal gabinetto Sua Eccellenza, anche lui si avvicinò all’agonizzante e lo guardò fisso negli occhi, che stranamente esprimevano ancora disprezzo.
Sua Eccellenza, impressionato, domandò: “ma chi siete..?, come vi chiamate..?
Non fu possibile capire del tutto la risposta del vecchio, si compresero solo le parole: il popolo.., il popolo.
-Non lo conosco – disse Sua Eccellenza. E rivolgendosi ai portaborse: muoviamoci, gli elettori mi stanno aspettando fiduciosi, l’appuntamento del 13 e 14 aprile è ormai alle porte.
Buon voto a tutti.
di Paola Cerana
“The brain that changes itself” è un libro di Norman Doidge. La traduzione italiana, “Il cervello infinito”, lo sottotitola così: “alle frontiere della neuroscienza: storie di persone che hanno cambiato il proprio cervello”.
L’autore è un affermato
psichiatra e ricercatore per il Columbia University Psychoanalytic Center
di New York e
Si tratta di una teoria che dagli anni settanta ad oggi ha acquistato autorevolezza e conferme sempre più numerose. Ma già nel 1894 il neuroanatomista spagnolo, premio Nobel, Santiago Ramon y Cajal cercò, invano perché privo degli strumenti necessari, di dimostrare che “l’organo del pensiero è, entro certi limiti, malleabile e perfettibile tramite un esercizio mentale mirato”. Così come nel 1762 Jean-Jacques Rousseau sosteneva che il nostro sistema nervoso centrale non fosse una macchina finita, bensì un organismo vivo in grado di cambiare e che questa “perfectibilité” fosse una peculiarità esclusivamente umana.
L’ipotesi è esattamente questa: il cervello è in grado di modificare la propria struttura, di rimodellare i propri circuiti e di rigenerarsi riorganizzandosi in maniera nuova coerentemente con le esigenze personali ed ambientali. Ovviamente quest’idea rivoluziona la medicina e la scienza tradizionali, secondo cui l’anatomia del cervello sarebbe immutabile e dopo l’infanzia i neuroni andrebbero incontro esclusivamente ad un processo di progressivo deterioramento.
Questa vecchia convinzione, detta “localizzazionismo”, derivava fondamentalmente dall’osservazione che raramente pazienti con gravi danni cerebrali raggiungessero una completa guarigione, quindi, il loro cervello dimostrava di essere una macchina cablata in modo permanente e immutabile. Finché alcuni scienziati, i cosiddetti “neurologi dinamici”, hanno dimostrato come alcuni pazienti dichiarati incurabili riuscissero invece a guarire, e non per merito di cure farmacologiche, bensì grazie alla capacità del cervello di ri–cablarsi, ovvero grazie alla sua plasticità. In pratica se alcune componenti cerebrali subiscono un danno, altre possono venir loro in soccorso e sostituirle, sopperendo a quelle carenze e rimettendo in moto un congegno che altrimenti resterebbe inceppato.
In maniera piacevole, Norman Doidge racconta di persone non vedenti che acquistano progressivamente la vista, di pazienti reduci da ictus che recuperano il controllo delle proprie reazioni, di individui che superano gravi problemi di apprendimento e che migliorano il proprio QI, di anziani che acquisiscono una memoria simile a quella di un ragazzo. Tutti casi in cui è evidente la capacità del cervello di aggiustare la propria architettura attraverso apposite stimolazioni. Non solo. Essendo le emozioni e i sentimenti originati dalla mente, anche la natura umana con tutte le sue componenti, l’amore, il sesso, il dolore, la dipendenza, l’aggressività e così via può essere modificata, guidata e corretta.
Naturalmente si tratta di processi neurologici molto complessi rilevati durante esperimenti altrettanto articolati, che l’autore riesce comunque a rendere comprensibili anche ai non addetti ai lavori, strappando addirittura qualche sorriso, nonostante la drammaticità di alcuni casi.
Al di là della straordinarietà di queste storie, e delle moltissime implicazioni che meriterebbero uno spazio a parte, ciò che più mi ha incuriosita è la visione completamente nuova di invecchiamento e di anzianità. Seguendo questa teoria, infatti, invecchiare non è più da considerarsi come un processo di deperimento inevitabile e progressivo ma piuttosto un riorganizzarsi continuo del cervello che si modifica e si adatta all’inevitabile passare del tempo. E’ vero che con l’età milioni di neuroni muoiono ma mentre in passato si pensava che essi non potessero riformarsi all’interno di un sistema chiuso e specializzato, ora si è scoperto invece non solo che essi si rigenerano ma che la loro sostituzione è fisiologica e non patologica.
Mi spiego: il cervello non ha bisogno solo di apprendere, cioè di imparare qualcosa di nuovo in quello che scientificamente viene definito “potenziamento a lungo termine”, ovvero il consolidamento stabile di connessioni neuronali. Ma anche il disapprendimento è necessario, cioè il cervello, con il passare del tempo, ha bisogno di cancellare informazioni e sensazioni inutili o svantaggiose per fare spazio a ricordi nuovi. Questa reazione chimica, detta “depressione a lungo termine”, avviene tutte le volte che si passa da uno stadio dello sviluppo a quello successivo, quindi anche durante la vecchiaia . E’ ciò che succede, per esempio, quando ci si innamora: il cervello è chiamato a disapprendere informazioni passate, come la delusione di un vecchio amore, per apprenderne di nuove. Ciò non significa dimenticare ma riadattare la mente a situazioni attuali. Se così non fosse sarebbe impossibile perdere cattive abitudini, per esempio, o innamorarsi dopo precedenti delusioni sentimentali.
Non solo. Si è scoperto che vi sono almeno due modi per aumentare il numero di cellule cerebrali. Innanzitutto generando nuovi neuroni, stimolando la formazione di cellule staminali. E poi allungando la vita dei neuroni già esistenti.
Gli esperimenti hanno dimostrato che muoversi in ambienti diversi da quello abituale e svolgere esercizi fisici costantemente stimola la neurogenesi. Mentre l’apprendimento di informazioni nuove, imparare una lingua diversa dalla propria, per esempio, allenando la mente e la memoria, prolunga la sopravvivenza dei neuroni già attivi. Tutto quello che accade in un cervello giovane accade anche in uno vecchio. Ma il cervello di un settantenne mostra un pattern differente rispetto a quello di un trentenne e questa è un’altra dimostrazione di plasticità. Sembra cioè che con l’avanzare dell’età avvenga uno spostamento di alcune funzioni cognitive dai lobi temporali a quelli frontali e che questa migrazione cognitiva sia proporzionale al livello culturale. Tradotto, questo significa che le persone più colte, quindi con una vita mentale attiva, sono meno predisposte al declino cerebrale rispetto a quelle mentalmente pigre. E’ come se questi individui avessero messo da parte una “riserva cognitiva” a cui ricorrere durante l’invecchiamento.
Ma anche l’esercizio fisico è necessario, appunto, perché stimola la corteccia sensoriale e motoria. Camminare, pedalare, nuotare, ballare sono tutte attività che rinforzano il cuore e i vasi sanguigni che raggiungono naturalmente anche il cervello. Niente accelera l’atrofia
cerebrale più della sedentarietà e dell’adagiarsi all’abitudine della quotidianità. E le azioni che più mantengono la mente vivace sono quelle che implicano un alto livello di concentrazione, come imparare nuovi passi di danza, per esempio. Oltretutto il movimento crea uno stato di benessere che scoraggia quella predisposizione alla depressione di cui molte persone, non solo anziane, soffrono.
Perciò, oltre a tenere la mente viva nutrendola di curiosità, cultura e informazioni sempre diverse, è necessario nutrire anche il corpo di energia nuova, facendo quelle attività che più amiamo fare, perché il segreto è proprio questo: vivere la vita provando soddisfazione in ciò che si fa. Non a caso tra tutte le attività fisiche pare che il sesso sia l’elisir dell’eterna giovinezza. E un anziano, naturalmente sano, non ha assolutamente nulla da invidiare ad un ragazzo, né per quanto riguarda le prestazioni né tanto meno l’esperienza. L’importante è tenersi in costante allenamento. E soprattutto non pensare mai dei essere arrivati alla fine della propria strada, perché così facendo si cadrebbe nella trappola della profezia che si autoavvera.
Queste non sono ipotesi. Pensate per esempio a Henry Miller, scrittore americano tormentato e discusso per i suoi romanzi altamente erotici, che a 88 anni viveva con la sua sesta moglie, di circa sessant’anni più giovane di lui. E di lei diceva “… ci sono più di cinquant’anni di differenza di età fra di noi e non ho mai avuto rapporti migliori con altre donne. E’ strano che alla fine della mia vita la realtà incontri il sogno.” O ad Alberto Moravia, che condusse una vita amorosa intensa e spregiudicata, testimoniata da una produzione letteraria altrettanto prolifica e che a 72 anni sposò una ragazza più giovane di lui di quarantacinque anni.
Ma non solo. L‘architetto Frank Lloyd Wright disegnò il Guggenheim Museum all’età di 90 anni. Benjamin Franklin inventò le lenti bifocali quando aveva 78 anni. Il premio Nobel Rita Levi Montalcini a 99 anni è ancora politicamente e socialmente impegnata. E sentite cosa rispondeva il violoncellista Pablo Casals a 91 anni quando uno studente gli chiese: “Maestro, perché continuate ad esercitarvi?” Risposta: “Perché sto facendo progressi!”.
Insomma, l’idea che la natura non abbia posto limiti alla perfettibilità delle facoltà umane è davvero confortante. E per quanto questa teoria aprirà inevitabilmente la strada a dibattiti e ipotesi contrastanti, mi piace, perché mi stimola a guardare avanti con ottimismo, sempre più convinta che non si finisce mai di imparare e di godere della vita.
STORIA DI UNA FUORISEDE
di Giuliano Berti Arnoaldi Veli
Io vengo da un posto di mare. Chi è nato e vissuto in
una pianura, o in collina, o in montagna non può sapere cosa vuol dire essere
nati davanti al mare. E per la verità non saprei spiegarlo neppure io, che
vivo altrove da tanto. Forse, in questo paesone che è la mia città da molti
più anni di quanti non ne abbia trascorsi giù, mi manca l’odore del mare.
Per qualcuno, aprile è il più crudele dei mesi. Per me, è il mese più bello,
perchè mi viene voglia di tornare al mare. Basta un fine settimana a Marina
di Ravenna, con due amiche o con il moroso, e mi sento già bene. Certi giorni
di vento, mi sembra che l’odore del mare arrivi direttamente fin qui, seguendo
Per la verità, io non sono cresciuta al mare, ma in un paesino del subappennino dauno, che si chiama Bordino. E’ alto in collina, circa seicento metri, più Irpinia che Puglia; nella guida rapida d’Italia sono poche righe, neppure la piantina. Fa meno di cinquemila abitanti: non si applicava neppure la legge dell’equo canone. E’ un borgo agricolo e di villeggiatura, per usare le parole della guida. Insomma, non c’è niente da fare nè da vedere, ma a me piaceva. Ero quel che si dice una brava bambina, unica femmina tra tre fratelli maschi (il più piccolo nacque che stavamo ancora là). Mi ricordo il giardino della villa comunale, gli odori delle piante, le siepi di bosso, i colori accesi dei fiori. Quando vado nelle serre a comperare fiori per la mia terrazza, cerco ancora quegli odori e quei colori. So che il ricordo trasfigura, ma secondo me ero felice a Bordino. E poi, l’estate ci si spostava al mare.
Poi, mio padre fu trasferito nel capoluogo, che è una di quelle città dove è difficile che uno ci vada apposta, al massimo ci capita. A me piacque subito, e piace anche adesso. Di antico, in città c’è poco, perchè l’ultima guerra l’ha praticamente rasa al suolo. Ma a me i suoi palazzoni condominiali, alti, pieni di famiglie e di vita, le sue strade larghe e dritte davano allegria e voglia di vivere. Ma forse è perchè è lì che ho avuto diciott’anni. Lì ho fatto le tre medie, il quarto e il quinto ginnasio (ma nella mia nuova città adesso dico: la quarta e la quinta ginnasio) e poi il liceo.
Molti di quelli che furono miei compagni se ne sono andati via come me, e hanno disseminato le loro vite in altre città, prevalentemente nel nord. Ogni tanto, ne ritrovo le tracce nei modi più strani. Una del mio liceo l’anno scorso è stata arrestata come terrorista delle nuove brigate rosse. Su tutti i giornali sono apparse foto impietose, nelle quali appare brutta e grassa: era una delle belle della scuola, e aveva avuto una simpatia per uno dei miei fratelli.
A Londra si chiamavano allora
teenager i ragazzi di quella età di mezzo che sta tra il tredicesimo e il
diciannovesimo anno, perchè in inglese (lingua che io non conosco, perchè
ho fatto francese) i numeri da
Tutto tranne questo, mi dicevo. Bisognava andare, non importa dove, comunque andare. Come diceva Kerouac, che si leggeva in quegli anni: dove vai? Non lo so. Ah, bene, allora andiamo dalla stessa parte. Per fortuna mio fratello, quello grande, era già salito quassù per studiare (medicina, bah), e come Università aveva scelto Bologna. Ripensandoci, non fu nemmeno troppo difficile convincere i miei genitori a lasciarmi venire a studiare qui. La scelta cadde su Bologna, dove c’era già mio fratello, nella speranza che venisse qui a studiare anche un certo Giampaolo che mi piaceva da morire (lui non lo sapeva), e che invece stupidamente optò per Modena. Ricordo il primo viaggio in treno, accompagnata dal babbo, per venire a cercar casa, e l’arrivo alla stazione di Bologna, che sarebbe esplosa tre anni dopo. Era il 12 settembre 1977.
Il posto dal quale provenivo era tranquillo. C’erano sì gli echi degli espropri proletari, del terrorismo, di violenze. Ma in fondo sembrava che non dovessero riguardare proprio noi. Come poteva esserci davvero la rivoluzione in un mondo nel quale la canzone prima a Hit Parade per tutta la primavera era stata Furia cavallo del West?
Quassù invece c’era un’aria diversa. In primavera avevamo letto, e sentito i racconti di mio fratello sugli scontri di piazza, sulla morte di uno studente ucciso dalla polizia, la chiusura di Radio Alice, gli indiani metropolitani. Un altro mondo, rispetto alla città dalla quale venivo. Dieci giorni dopo la mia prima venuta, per dire, ci fu il convegno degli autonomi sulla repressione, che poi è stato preso come momento simbolico della “generazione del ‘77”. Io avevo l’euforia del turista che va all’estero, in una città che lo conquista. E poi, ero fiera di me. Sentivo parlare di libertà, di autonomia, di autodeterminazione, anche da gente che continuava a vivere in famiglia, con tutti i comodi, e mi dicevo: ho avuto più coraggio io a venirmene a vivere da sola a seicento chilometri da casa.
. . .
Fu in quei mesi che cominciai la mia vita di fuorisede.
Questa città non è quello che sembra. La bonarietà, la tolleranza, la apertura verso gli altri sono sì una sua caratteristica; ma questa è anche una città chiusa, segreta, che si riunisce per gruppi occulti, per amicizie di censo, per affari. Persino fra di loro i bolognesi fanno differenze: chi ha fatto il Galvani guarda con sufficienza chi ha fatto il Minghetti (e non parliamo del Righi o del Fermi). Figuriamoci con uno studente che viene dal sud, anzi dalla bassa italia. Il fuorisede è accolto, perchè è un affare, entra nel corpo molle della città, ma non viene quasi mai assimilato. E dire che questa città vive sui fuorisede da centinaia di anni. Nel palazzo dell’Archiginnasio, che era l’antica sede dell’Università, le sale e le scale sono ornate da centinaia di stemmi di studenti che venivano da ogni parte d’Italia e dall’estero, che erano i fuorisede di allora. In questa città, trecentocinquantamila abitanti e centomila studenti, una persona su quattro è un fuorisede. Questa è la ragione per cui ogni appartamentino, ogni buco cadente costa cifre spropositate.
Ma, ancora una volta, tutto questo l’ho pensato dopo. Allora ero come in vacanza.
Ricordo benissimo che arrivai a Bologna, accompagnata dalla mamma, il 5 novembre 1977, giorno del mio compleanno. Mi ricordo come ero vestita: kilt blu e bianco, camicia bianca, golf blu, da collegiale insomma, come era di moda allora. Non so se capiti a molti, ma io generalmente mi ricordo, di ogni situazione o occasione, prima di tutto come ero vestita.
Presi alloggio dalla Megera.
Megera a parte, le giornate scorrevano bellissime. Era tutto nuovo, a cominciare dalla sensazione, inedita ed elettrizzante, di potere girare in lungo ed in largo per una grande città senza incontrare nessuna faccia conosciuta. Tutt’altra cosa rispetto alla mia città, dove incontrare gente significa dare immediatamente la stura a commenti e pettegolezzi, alla lunga insopportabili.
Un discorso a parte merita il cibo. Non potevamo mangiare alla pensione, ho detto. C’era, allora, una mensa universitaria in piazza Verdi, dove si mangiava con trecento lire, non tanto bene. Ci andavo ogni tanto, con le mie amiche, principalmente per conoscere gente; ma non piaceva molto nè a me, nè alle mie amiche. Scoprimmo invece Jagus, una rosticceria proprio sotto le due torri. Qui ci compravamo porzioni squisite di lasagne, di cannelloni, di tutti quei cibi unti di quassù di cui in breve divenimmo ghiottissime, che ci andavamo poi a scofanare in camera nella pensione. L’impatto fu tale che a Natale, tornando a casa, scoprii di essere ingrassata di sette chili in due mesi. E a luglio dell’anno dopo, come ovvia conclusione del periodo di sregolatezze alimentari, fui operata di urgenza di calcoli alla cistifellea.
Quindici giorni dopo il mio arrivo, ci fu la grande nevicata del ’77. Bologna si coprì completamente di neve. Non è che io non avessi mai visto la neve: anzi, a Bordino nevicava spesso d’inverno, e il paese rischiava di rimanere isolato. Ma erano ricordi d’infanzia lontani. Quella fu la mia prima nevicata da adulta. Era bellissimo trovarsi improvvisamente in un mondo dai rumori attutiti, dalla vita rallentata. Giravo per la strada con gli stivali, come allora usava, e il mio bel cappotto color panna, con il collo di volpe rossa; mi sentivo libera, e per non tacervi nulla debbo dire che per la prima volta mi sentii anche bella.
In realtà, la mia vita dalla
Megera era molto meno libera di quanto si immagini. La mattina passava nella
fiacca vita universitaria dei periodi lontani dagli esami; il pomeriggio in
chiacchiere e blando studio; la sera più spesso in camera. Non c’era la televisione,
ma avevamo una piccola radio per sentire
Solo molto tempo dopo, quando già abitavo in via Mascarella, avrei cominciato a frequentare assiduamente gli spettacoli che la città offriva, primo fra tutti il Gran Pavese di via del Pratello. Il Gran Pavese era in realtà un circolo Arci intitolato a Cesare Pavese, che era stato dato in gestione a un gruppo di ragazzi di spettacolo alle prime armi. Facevano spettacoli di un genere che io non avevo mai visto. In una sala tipica da Circolo Arci, che per di più aveva quattro colonne di cemento armato che spezzavano la platea e rendevano complicata la vista da dietro, si alternavano sul palco personaggi irresistibili, che in buona parte hanno poi avuto successo. C’era Patrizio Roversi, patatone, il presentatore affabulatore che parlava a mitraglia; c’era sua moglie Susy, che sarebbe diventata Siusy Blady; c’erano i Gemelli Ruggeri, che mimavano la canzonette; c’era Olga Durano; c’era Vito Bicocchi, che faceva l’imitazione della gallina e dei personaggi popolari bolognesi; c’era il cameriere Olaf, che veniva chiamato sul palco a mimare la sigla finale. Sigla che, come ricorderà chiunque l’abbia vista almeno una volta, era un ridicolo balletto collettivo al suono di Can’t take my eyes off of you, una vecchia canzone di Frankie Valli rifatta in chiave disco dance da un gruppo di muscolosi negroni che si chiamava Boys Town Gang.
MARIA F.
di Francesco M.T. Tarantino
Quanti sono i bimbi che hai fatto nascere
E quante lacrime hai asciugato alle madri
Ancor prima di loro li hai sentiti piangere
Regalando piaceri confusi ai loro padri
Hai firmato il corpo col segno distintivo:
Un nodo perfetto al cordone ombelicale
Il tuo modo originale per salutare l’arrivo
Di angeli senz’ali che non fanno del male
Sapevi ascoltare il dolore delle partorienti
Angosce e paure riuscivi a comprendere
Lo strazio dell’anima sui quei volti dolenti
Che presto sarebbero tornati a sorridere
Partecipavi al mistero di un amore infinito
Della vita che nasce e che si fa prepotente
Che attraversa un arco di tempo indefinito
E lasci per strada con un augurio vincente
Di percorrere un mondo senza bandiere
Senza guerra che offende vita e pensiero
Che semina morte e costruisce barriere
E non riconosce ogni bambino straniero
Se è stato dolce recidermi il primo legame
Gli altri distacchi mi hanno dato sgomento
La paura di soccombere ad oscure trame
Ordite da un avverso destino di svilimento
Grazie per l’ascolto del mio primo vagito
Non potevi conoscere lo strano cammino
Di un ombelico che nella vita si è smarrito
Che non ti ricorda ma ti pensa al mattino
TRADIZIONE PASQUALE
di Marjatta Kulla
L’articolo è stato lasciato così come scritto, per precisa scelta editoriale, per dare modo al lettore di apprezzare tutta la genuinità del pensiero dell'estensore che si sforza di scrivere nella nostra lingua.
Un giorno di marzo in un supermercato fra le scaffale si incontrano le amiche Hilkka e Päivi.
Nel supermercato c´é poca gente che sta riempiendo la loro vettovaglie e quindi le due possono fermarsi per chiacchierare. Hilkka ha giá messo nel carrello pieno di roba ma invece
quello di Päivi é quasi vuoto.
-Hei (Ciao) , come va?
-Terve (salve) , non c´é male....e da voi?
-Grazie, bene ..soltanto i figli hanno avuto un pochino di tosse e febbre, ma nulla di grave, oggi stanno già a scuola...un virus non mi può contagiare .. ho avuto un vaccinazione in autunno.
-Già ..speriamo che sia cosi. ... specialmente che sta arrivando Pasqua ..non c´é il tempo di stare
malato, vero?
-Esatto, guarda che tanta roba ho nel carrello !!!
-Accidenti..pensi di fare da mangiare per un esercito ?
-Ma no, soltanto per una squadra di calcio ... ha ha ahahah..
-Indovino che avrete i parenti come ospiti per Pasqua.. saranno tanti eh?
-Si, ci sono parenti e amici per cui devo prepararmi al peggio...avere tanto da mangiare.
-Infatti.. sei una cuoca eccessiva .. cucini una pasha? Non mica fai mämmi?
-Grazie..cucino volentieri se ho tempo...si, la pasha faro ma mämmi ne compro..é troppo faticoso di farlo.. sai quante ore ci vogliono..almeno otto ore!!
-Giá, ci vuole troppo tempo... io devo comprare le uova per figli..vogliono dipingerle e il sabato vanno in giro come trulli..
-Bene.. un giorno avvincente per loro.. ieri i nostri stavano praticando la poesia....ti ricordi le parole..”virvon, varvon tuoreeks, terveeks, tulevaks vuueks, ison talo emännäks ...uhmm..
-Vitsa sulle, palkka mulle” Eccole..ormai
piccoli trulli sono cosi ben educati ...
dato dolcini loro ..ringraziavano.
-Esatto.. sono veramente carini... sanno comportarsi bene
-Ma ..hai notato che l´effetto serra abbia
anche un lato positivo... vedi che
priesto che anni....il salice risveglia in tempo giusto per fare amenti...
-Appunto ..i nostri ne hanno gia raccolti tanti per fare i rami decorati con piume.
-A proposito...pensate di andare a veder il Fuoco?
-Mi pare che i figli ci vogliano vederlo... la societa locale sara fatto come l´anno scorso sul campo ?
-Credo di si... ma interessante che questa tradizione sia rimasta soltanto sulle coste..nel territorio interno non lo fanno ma invece in Festa di San Giovanni...
Il dialogo continua fra due amiche e ondula tra tradizioni, cibi e cose recente.
Le tradizioni si cambiano dipende del tempo e della zona e la gente che prende un nuove influenza sulle altre culture.La Pasqua oltre alle radicate motivazione religiose, é legata al risveglia della
natura. Nel centro della Finlandia il salice risveglia in marzo e fa begli amenti che vengono raccolti e
messo in vaso ed i piccoli trulli ne servono per fare un mazzo di ramo.
Trulli, é un prestito dalla lingua svedese ( troll) e qui significa una streghetta in buon senso e lei gira con un cestino in vicinanza dal portone all altro e dicendo una benedizione di buon salute per anno
prossimo e in cambio riceve dolcini come uova cioccolata. Quest´evento capita proprio il sabato e un altro evento é quando si accende un mucchio di rami. In tempi di nonni era un faccenda di
inseguire gli spiriti cattivi ma ormai uno scopo sara piu sociale; incontrarsi e divertirsi fra paesani.
Pääsiäiskokko (fuogo pasquale) é ben conosciuto in Scandinavia.
di Antonio Penzo
La parola Pasqua deriva dall'ebraico "pesach" o "Passak", che significa passaggio, e la festa fu istituita da Mosè a commemorazione del passaggio del Mar Rosso durante l'esodo degli ebrei dall'Egitto. Anticamente si celebrava con un banchetto per ricordare il pasto frettoloso dei fuggiaschi preparando un pane senza lievito.
Gesù celebrò anche lui questo
rito nell'ultima cena del giovedì santo, istituendo il sacramento dell'Eucarestia.
Tuttavia la cristianità festeggia con
La Pasqua ebraica è fissata al giorno 15 del mese di Nissan del calendario ebraico, come prescrive la Bibbia (Esodo 12,1-18). Si tratta di un calendario lunisolare, quindi ogni mese inizia con la luna nuova e il quindicesimo giorno coincide con il plenilunio. Attualmente cade in un giorno che va dal 26 marzo al 25 aprile.
Il periodo che precede
Per i motivi suesposti,
La tradizione cristiana della Pasqua è caratterizzata dalla cerimonia della “benedizione pasquale da parte del parroco, in ricordo del battesimo, e dalle così dette “pulizie pasquali”, che precedono questo evento.
Prima dell’inizio della Quaresima il parroco espone il calendario delle benedizioni pasquali, in quanto indica giorno per giorno, escludendo la domenica, le abitazioni che passerà a visitare per impartire la benedizione pasquale ai locali. Le benedizioni terminano la sera del mercoledì della Settimana Santa e se necessario riprendono dal martedì successivo alla Pasqua.
I tre giorni che precedono
Le pulizie pasquali consistono nella pulizia completa della casa, che viene rivoltata da cima a fondo, in particolare si girano i materassi, si spostano gli armadi, si lavano le tende ed i vetri delle finestre, cercando di eliminare la polvere che si era accumulata nel lungo periodo invernale, di arieggiare gli ambienti lasciando aperte le finestre nei giorni di sole e di dare la cera ai pavimenti; periodicamente si ritinteggiano i muri e gli infissi. Solo al termine la casa è degna di ricevere la visita del “Signore”, attraverso la benedizione con l’acqua santa impartita dal parroco in tutti i vani dell’abitazione. Ricordo per inciso che la benedizione della stalla e degli allevamenti degli animali da cortile avviene il 17 gennaio, festa di S. Antonio Abate.
Dal punto di vista dei festeggiamenti, la cristianità ricorda alcuni momenti della Passione di Gesù.
La mattina del Giovedì Santo in Cattedrale, vi è la suggestiva cerimonia della benedizione dell’olio crismale con la partecipazione del Vescovo e di tutto il Clero Diocesano. Il Giovedì Santo si ricorda l'istituzione dell'Eucaristia durante l'Ultima Cena, nella quale, inoltre, Gesù lavò i piedi ai dodici Apostoli. Il ricordo di tale avvenimento si rinnova sia con la cerimonia della "Lavanda dei piedi", che avviene durante la celebrazione della Messa in Coena Domini, in cui il sacerdote "lava" i piedi di dodici persone che rappresentano gli apostoli, sia con lo sfarzoso apparato dei "Sepolcri" nei quali, in una cornice di ricchi drappeggi, di luci, di piante e di fiori si venera il SS. Sacramento.
Dal Giovedì sera, inoltre, le campane restano mute, “legate” come si suol dire. In passato in questi giorni si faceva uso della “troccola”, un pezzo di legno a cui erano attaccate due maniglie che, agitate, facevano da richiamo per i fedeli che volevano assistere alle celebrazioni religiose.
Il Venerdì Santo è caratterizzato dalla Via Crucis, che è una processione-dramma, in cui il fedele può essere spettatore e attore ad un tempo del grave evento che quel giorno ricorda. Fin dal Medioevo, la processione ha assunto forme di drammatica rappresentazione, con la presenza dei flagellanti, che indossano abito bianco con cappuccio e corda e delle varie congregazioni religiose nei loro costumi. Il bisogno di partecipare alle sofferenze del Cristo, spinge l’uomo ad identificarsi nel Salvatore, al desiderio di partecipare in proprio all’opera della salvezza, attraverso l’espiazione dei propri peccati e di quelli dell’intera comunità. La sera in molti paesi vi è la processione con il Cristo morto, che viene deposto dalla croce ed accompagnato al sepolcro, attraversando le strade del paese.
Nella festività pasquale
esistono tre diversi simboli: l'agnello, che rimanda alla crocifissione
di Gesù, la colomba, che ricorda la fine del diluvio e l'uovo di pasqua, simbolo della vita
e del suo mistero sacrale, che ricorda
Il pranzo di Pasqua è molto ricco e si hanno varie portate secondo le usanze del luogo.
Fra le principali: Agnello con patate e carciofi, Agnello pasquale, Capretto al forno, Capretto con carciofi in fricassea, Fave carciofi e piselli (vignarola), Pastiera napoletana, Torta pasqualina, Zuppa di fave e Zuppa di piselli.
Il Lunedì dell’Angelo o di Pasqua è dedicato alla gita con la famiglia, di solito ad uno dei santuari che sorgono nei pressi.
PRUCESSIO’ DEL VENERDI SANTO
di Paola Guasco
Pasqua l’Italia "mette in scena" oltre tremila rappresentazioni
viventi. Da Nord a Sud è un susseguirsi di processioni, riti religiosi, feste
popolari, rappresentazioni sacre, sagre e tradizioni folcloristiche. Interi
Paesi scendono in Piazza, durante
La notte del Venerdì Santo le strade si illuminano di fiaccole e la gente vi si riversa per seguire e/o assistere alla processione: il silenzio è quasi irreale, rotto solo dal suono misterioso delle battistangole (le tavole di legno che sostituiscono il suono delle campane), la notte punteggiata dai fuochi che ardono nelle padelle, appese alle facciate dei palazzi.
Ho sempre assistito a questo rito con diversi sentimenti: dalla paura di quando, piccolissima, mi chiudevo occhi ed orecchi per non vedere quegli uomini neri: un cordone attorno alla vita, il cappuccio calato sul volto, quegli occhi grandi che mi guardavano da dietro i buchi e per non sentire il caratteristico rumore delle battistangole che annunciano l’arrivo della processione, all’ emozione e al coinvolgimento che poi sono subentrati e che sempre si rinnovano.
Quegli “uomini neri” sono i ‘sacconi’ (circa 250), che accompagnano
con i loro neri sai il catafalco di Gesù deposto dalla Croce per le strade
del centro storico e sono tutti membri della Pia Unione del Cristo Morto,
E' una settimana febbrile quella che precede
Pochi ricordano (io lo sto scoprendo ora) ormai il 'Mattutino delle tenebre', quando all'imbrunire, il mercoledì, i canonici si riunivano in preghiera, nel coro del Duomo. Nel mezzo, un triangolo di 15 candele, spente una dopo l'altra al termine di ogni salmo. Un soffio sull'ultima fiammella e i canonici cominciavano a battere ritmicamente sui banconi con un ramo di ulivo - quello della Domenica delle Palme - ricordando la flagellazione di Gesù. E poi, la lavanda dei piedi: i cronici dell'ospizio, con un camicione bianco, seduti vicino all'altare, il Vescovo chino davanti a loro, attorniato da tutti i preti della Diocesi, la bacinella, l'acqua, i piedi nudi, i vecchietti felici di tanta attenzione. E la fastosità dei Sepolcri, con le chiese che facevano a gara per allestire il più bello.
Solo
Un paio di settimane prima si comincia a ripulire i lampioni, a lucidarli.
La preparazione è frenetica.
Il Martedì Santo si prepara il Cataletto, il feretro dove verrà deposto il corpo di Gesù: v iene montato lo scheletro in legno, i 'saltaleò' (i candelabri laterali), si mettono i paramenti, custoditi, durante l'anno dalle monache di san Nicolò e si procede poi al controllo della parte meccanica: il motore, le gomme, i freni, le batterie...
Una volta, il Cataletto era portato a mano: "Andava a vino" – si diceva.
I portatori, infatti, ogni tanto si davano il cambio e quelli che riposavano venivano rifocillati con un buon bicchiere di rosso, il peso del feretro li obbligava a cambi e fermate frequenti.
La tradizione voleva, e vuole tutt'oggi, che se il Cataletto si fermava davanti a una casa, lì, entro l'anno, sarebbe morto qualcuno. E la gente allora, per scongiurare questa eventualità, pregava i portatori di non fare sosta davanti alla propria abitazione pagando un pegno: vivande e qualche fiasco di vino.
Il venerdì mattina,
Nel primo pomeriggio, le Tre Ore, la rievocazione della morte di Gesù. Sette candele, davanti alla grande croce, spente una dietro l'altra. "Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio". Reclinò il capo e spirò. Si spegne l'ultima candela, la chiesa si fa buia, la campana batte l'ultimo rintocco. La statua di Gesù viene deposta dalla croce e messa sul Cataletto.
Il momento della Processione si avvicina. Verso le cinque del pomeriggio, I figuranti si spostano nella vecchia chiesa di san Filippo per la vestizione. C'è ressa davanti alla porta. I ragazzini fanno la fila, vogliono entrare per potersi accaparrare un saccone, un lampione.
Si prepara con scrupolo lo schieramento: i tre mazzieri, le
sei battistangole,
E così la “prucessiò” di Osimo si avvia percorrendo tutto il
cuore della città e finisce in Cattedrale per
Tuttavia non finisce qui, si uniscono il “sacro e il profano” poiché dopo il passaggio della processione il corso si riempie di gente, si passeggia fino a tardi (se il tempo è benevolo) ci si incontra, si chiacchiera, si incontrano persone che da tempo non si vedevano perché alla “prucessiò” non manca nessuno.
SETTIMANA SANTA QUI
di Violetta D’Addario
L’articolo è stato lasciato così come scritto, per precisa scelta editoriale, per dare modo al lettore di apprezzare tutta la genuinità del pensiero dell'estensore che si sforza di scrivere nella nostra lingua.
Anni fa, nei paesini via l’oriente del Venezuela si bruciava Giuda, per strada alla sera, e si chiedeva prima la collaborazione alle macchine che passavano per potere finanziare la costruzione di questo Giuda traditore di Gesù. Adesso tutto pulito, niente.
Che si fa in città? Si fa il pellegrinaggio e le promesse a Gesù Nazareno. Esiste gente che per promesse si veste di viola, cammina inginocchiata verso le chiese, quelle che hanno scelto. E alcuni cittadini visitano sette chiese preferibilmente venerdì santo, ma anche durante tutta la settimana, e si fermano per fare una preghiera. Cosi si vede come hanno decorato i sepolcri, dipendendo quest’ ultima dalle zone in cui sono ubicate le chiese.
Per esempio, in Caracas, dove vivo, anche se non piú tanto come un tempo, ci sono ancora delle zone dove predominano italiani, portoghesi, spagnoli, e altri, che rispecchiano un po’ le tendenze di questi paesi nella decorazione dei sepolcri di quelle zone.
E molto carino, vedere tante orchidee attorno al Nazareno, Vergini, tanti fiori, tante decorazioni, tante altre cose. Perchè la gente é diversa, e la fede é tanta.
Quest´anno non sono potuta andare a vedere le sette chiese e i suoi sepolcri. Si sono andata a due messe, quella della Benedizione delle Palme, avendo visto anche in diretta quella del Vaticano, molto presto (4:00 am più o meno), e a quella di Resurrezione di Pasqua. Che é quella che personalmente mi piace di più. Senza fare brutti paragoni a quella dell´anno scorso, con il cattivo pensiero di ‘ammazzare al prete’. Non molto religioso ne lodevole, certamente.
Questo anno invece, facendo onore all´Italia, c’e stato un bellissimo prete ‘italiano’. Senza saperlo ho scelto una chiesa credendo che fosse un prete portoghese, vicino dove vive mia sorella, e mi sono trovata con un prete nuovo simpatico e italiano.
Dieci anni fa sono andata a una per caso, sabato sera, vicino casa dove vivevo a Madrid, Spagna. Ed e stato dopo quello che ho scoperto la vera messa di Pasqua di Resurrezione.
E cosi che mi sono addentrata
a cercare di andare qui. Ma non proprio dieci anni fa, chissà tre anni fa
più o meno. Incredibilmente mai abbiamo assistito a una Messa di Resurrezione,
nella nostra famiglia. Non e che mai siamo stati a messa, e che, semplicemente
non la conoscevamo. Assistere a la messa di sabato sera, prima di
Ma qui, da qualche annetto
cominciano molto prima di
E qui, sento che la gente lo sente di più. In diverse parte della messa sono molto allegri, dopo lo scambio della pace, la musica. É tutta un altra cosa. Per lo meno quest´anno per alcuni, il sacrificio, e valso la pena.
Uscire contenti da una messa di 4 ore e tutto un record. Ma la messa e stata la fine della Settimana Santa. Qui non si festeggia Pasquetta il lunedì per esempio.
Giacché diversamente dagli altri anni, quel mercoledì di Settimana Santa, non mi usciva niente, ho deciso di andare al mare il giorno dopo. Credendo di trovare coda, che non ho trovato, ho potuto fare alcune foto, e le do’, con una luce e sole e cieli che farà bene sicuramente a chi le vede.
Andare al mare e un vero sfogo in un paese dove il clima lo permette quando ci sono molti giorni di riposo, ma non sempre per tutti. Al mare, gente balla sola, quando ascolta la musica, per esempio. Sentono cosi tanto la musica, che anche se non sembrano allegri e felici, ballano, spensieratamente. Quello é, incredibile.
C’è stato quest´anno mare di leva, in altre regione ci sono stati disgraziatamente morti per la corrente. Un pensiero va anche per la gente che se ne andata in Settimana Santa...
Aggiungo foto che parlano da sole, con il vero augurio che chi li veda possa veramente vedere quello che si sente. Anche se ce ne sono spiagge con meno gente, piu tranquillità o anche quelle con più gente…
Se é gente bella o brutta penso che sia la forma come uno la vede.
Come uno trova le spiaggie é, e per chi ama il mare è sempre bello.
Se anche sembrerebbe per molti una marciumaglia di gente, e chissá non bello, questa volta io sono stata benissimo, chissà… perche da tempo non andavo al mare. Incredibile no?
‘E lo spirito che conta!’, come dice mia mamma.
Vi auguro allora un Buon Nuovo Spirito per tutti dopo questa Settimana Santa.
PASQUETTA, NON SOLO UNA SCAMPAGNATA
di Nicola Perrelli
Per
quelli della mia generazione, over 50,
Quando eravamo adolescenti era questo infatti il giorno di festa più atteso e bello dell’anno, altro che Capodanno e Ferragosto. Era solo una gita fuori porta, il cui raggio d’azione poteva andare da Procitta al massimo fino a Campotenese, ma aveva tutti gli ingredienti per essere una fonte di grande divertimento e di intense emozioni.
I preparativi cominciavano nei giorni della settimana santa.
Prima di tutto bisognava formare il gruppo, che di regola era composto di soli ragazzi essendo allora invisa la promiscuità, pure la più innocente. Anche se la speranza di poter agganciare per puro caso una comitiva di ragazze, per trascorrerci piacevolmente qualche ora insieme, restava sempre il leit motiv dominante.
Poi occorreva fare la spesa, al più tardi nella mattinata del sabato santo. Non c’era la varietà e l’ abbondanza di alimenti e bevande che troviamo oggi, ma i pochi cibi in vendita, tutta roba genuina, paesana e di stagione, appagavano lo stesso i nostri desideri culinari, altrettanto naturali.
Infine c’era da fare la scelta del posto dove andare. Che fosse stato il casolare di un amico nella campagna di Procitta o lo spiazzo erboso in riva al fiume Battendiero nella zona del Pantano, poco importava: il più era ormai fatto, c’era da aspettare solo il lunedì dell’Angelo.
Il giorno di “cuzzole e suprissate”, ovvero “du pascùni” ci svegliavamo di buon ora per preparare prima le provviste, con l’aiuto della mamma, e poi l’attrezzatura necessaria.
Pasta
al forno, carne di agnello, pollo ruspante, uova sode del pizzatulo,
insaccati, formaggi e la tradizionale frittata ripiena riempivano fino all’inverosimile
il “cestino” della scampagnata. Completavano il vettovagliamento qualche
birra,
Non dimenticavamo mai le carte da gioco: trascorrere all’epoca una giornata senza fare una partita a misidia, una variante del tressette, era
davvero “insopportabile”. Ci piaceva giocare, ma il vero spasso era un altro: dare ascolto alle cervellotiche elucubrazioni tecniche e tattiche che sedicenti esperti suggerivano durante le partite. E incredibilmente, ancora oggi, dopo tanti anni, di quelle leggendarie giocate c’è chi ne ricorda esattamente ogni mano e finanche la disposizione statica dei giocatori al tavolo: l’istrionico Galizia, per gli amici “u patanu”.
Ma la giornata non si impegnava certo solo a giocare a carte.
Una chitarra e un giradischi portatile a batteria erano altrettanto indispensabili. Intonare qualche canzone di protesta e ascoltare in silenzio i 45 giri in vinile che inneggiavano alla rivoluzione e alla rottura con il passato, ci facevano sognare.
In quei “favolosi anni ’60”, romantici e votati al futuro, avevamo una grande speranza: poter vivere in una società più giusta.
Credevamo che un giorno non lontano il benessere sarebbe stato accessibile a tutti e il mondo avrebbe vissuto in pace.
L’entusiasmo di guardare avanti con occhi diversi rispetto a quelli dei nostri genitori, che solo qualche decennio prima avevano dovuto convivere con gli orrori della guerra e i successivi drammi della ricostruzione materiale e morale, non veniva mai meno. Ma avevamo probabilmente, ed è triste oggi ammetterlo, anche poco realismo.
Nel guardare indietro al nostro passato siamo spesso colti da una particolare sensazione: ci meravigliamo di essere stati un tempo delle persone completamente diverse, non solo nell’aspetto fisico, quanto nei pensieri e nei sentimenti. E questo ricordo del passato, senza il quale non avremmo un’identità, spesso lo recuperiamo ripetendo semplici esperienze. Ad esempio facendo la tradizionale scampagnata pasquale.
La ricorrenza che più di tante altre, pur manifestandosi con abbuffate, canti, balli e sollazzi, dà maggiore sfogo ai nostri ricordi di gioventù.
A
proposito
AMO IL SOGNO DELLA PRIMAVERA….
di Marilena Rodica Chiretu
Amo il sogno che distende sui prati
il verde crudo della primavera,
l’albero in abito da sposa
con la corolla arrotondata
dal profumo del melo,
la timidezza dei teneri boccioli
mentre l’ape gira intorno
al loro mistero;
amo i colori della stagione
che invadono il calore del corpo
scolpendo il labirinto del sentiero,
il fremito delle labbra aspettando
il sapore del frutto;
le mani accarezzano le nuvole
per sciogliere in azzurro del cielo
la loro schiuma,
le guance accese dai desideri
infiammano il disco del sole
che scioglie gli ultimi fiocchi
e fanno fiorire nel confine del cuore
la nuova luce degli occhi.
Quanto vorrei annegare
l’odio dell’inverno /nel fiume dell’amore...
IUBESC VISUL PRIMAVERII…
Iubesc visul care intinde pe pajisti
verdele crud al primaverii,
pomul in haina de mireasa
cu corola rotunjita
de parfumul marului,
timiditatea bobocilor fragezi
in timp ce albina se roteste
in jurul misterului;
iubesc culorile anotimpului
care invadeaza caldura trupului
sculptand labirintul cararii,
freamatul buzelor asteptand
gustul fructului;
mainile mangaie norii
pentru a topi in azurul cerului
spuma lor,
obrajii aprinsi de dorinte
inflacareaza discul soarelui
care topeste ultimii ful
si fac sa infloreasca
in hotarul inimii
noua lumina a ochilor.
Cat as vrea sa inec
ura iernii / in fluviul iubirii…
FITNESS PER
di Paola Cerana
A tutti sarà capitato qualche volta di cimentarsi in test di abilità mentale, esercizi di memorizzazione e giochi di ragionamento più o meno seri.
Il neuroscienziato americano Michael Merzenich, membro dell’Accademia americana delle Scienze e docente all’Università di San Francisco, ha messo a punto una famiglia di software, “Fast for World”, che stimola il miglioramento delle facoltà cognitive e percettive. Inizialmente il programma era indirizzato esclusivamente a bambini con problemi linguistici e di apprendimento. Ma con gli anni Fast For World ha accumulato così tanti casi di spillover, cioè di effetti positivi imprevisti, da decidere di allargare il campo, sviluppando programmi volti a risolvere problemi di autismo infantile e di declino cognitivo correlato all’età.
Oggi il dottor Merzenich ha 67 anni e collabora a decine di progetti scientifici contemporaneamente, riscuotendo continui successi nel campo della ricerca neurologica. Ama definirsi scherzosamente come un uomo “appena al di qua della follia” e pare essere la testimonianza vivente di come la mente possa mantenersi giovane e attiva se stimolata nella giusta maniera.
I test standardizzati da lui ideati sono stati raccolti e pubblicati da Positscience, un programma di fitness per il cervello, diffuso tramite il sito web www.positscience.com. di cui per ora esiste solo la versione in inglese. Cliccando sul link si viene accolti da un messaggio di benvenuto che anticipa l’effetto del tour virtuale, ovvero: “your brain will thank you”, il vostro cervello vi ringrazierà.
Si tratta di esercizi divertenti e apparentemente banali pensati per allenare le capacità uditive e visive, cioè quelle facoltà indispensabili per un’efficace percezione e memorizzazione della realtà, facoltà che inevitabilmente si deteriorano con il passare degli anni. Il pacchetto di test è acquistabile on line ma c’è la possibilità di farne un assaggio gratuito per avere un’idea delle prove in cui ci si deve misurare e soprattutto per avere una stima approssimativa dell’età del nostro cervello. Purtroppo non c’è una versione in italiano, come ho detto, per cui
può essere penalizzante per noi sfidarci in un idioma non nostro, ma questa potrebbe sempre essere una buona scusa nel caso i risultati non siano gran che!
ATTIVITA’ RACCOMANDATE PER IL FITNESS DEL CERVELLO:
1.Mangiare cioccolato. Il cioccolato, rigorosamente amaro, attiva un neurotrasmettitore, la dopamina, che facilita l’apprendimento e stimola la memoria.
2. Visitare un museo o un luogo di interesse culturale seguendo una guida. Prestare attenzione alle spiegazioni della guida durante il tour e una volta a casa sforzarsi di recuperare il più possibile le informazioni ricevute, trascrivendole su un foglio. Oltre che essere interessante da un punto di vista culturale è un ottimo esercizio di memoria che unisce attività uditiva e visiva.
3. Memorizzare una canzone. Ascoltare una canzone nuova e impararne il testo cantandola richiede concentrazione. E questa attività stimola la liberazione nel cervello di acetilcolina, un neurotrasmettitore che facilità la plasticità e la memoria.
4. Esercitare la visione periferica. Sedersi in un ambiente non abituale, un parco, una stazione, una piazza, e cercare di focalizzare non solo ciò che sta davanti al nostro campo visivo ma anche tutto quello che ci circonda senza muovere il capo. Trascrivere tutti i particolari che si è riusciti a cogliere e verificare se si è fatto un buon lavoro. Questa attività di memorizzazione visiva stimola la produzione di acetilcolina, quindi la memoria.
5. Imparare a suonare uno strumento musicale. Soprattutto quando non si è più giovani quest’esercizio rimette in moto le interrelazioni tra diverse dimensioni del cervello: l’ascolto, il controllo dei movimenti e la traslazione dalle note (vista) alla musica (movimento e udito).
6. Comporre un puzzle (non meno di 500 pezzi). Richiede una grande abilità di giudizio visivo, capire dove collocare un pezzo, facendolo ruotare mentalmente e in mano, spostando l’attenzione dalla singola parte al tutto e viceversa. E’ intuibile come questo sia un esercizio davvero completo.
7. Abbassare il volume della televisione. Diminuire progressivamente il volume aiuta ad alzare il livello di attenzione, consentendo di prestare ascolto contemporaneamente anche ad altre conversazioni.
8. Lanciare una palla in aria e riafferrarla. Aiuta il coordinamento visivo, tattile e motorio che naturalmente si arrugginisce con l’età.
9. Impegnarsi in un esercizio di concentrazione, come fare parole crociate e rebus, o lavorare a maglia. Ma l’importante è avanzare di volta in volta con il livello di complessità per stimolare progressivamente la concentrazione e l’attenzione.
10. Imparare a usare anche l’altra mano. Compiere gesti semplici, come spazzolarsi, fino ad azioni più articolate, come mangiare, con la mano che solitamente non usiamo non è così automatico. Questo stimola milioni di neuroni a lavorare in maniera alternativa ed elastica.
11. Mangiare pesce. Una dieta ricca di pesce stimola tutte le funzioni cognitive.
12. Fare esercizio fisico. Camminare, pedalare, nuotare e tutto ciò che comporta un’attività cardiovascolare apporta benefici all’ippocampo e stimola la produzione di nuovi neuroni.
E visto che, come disse Saint-Beuve, “invecchiare è ancora il solo mezzo che si sia trovato per vivere a lungo”, è bene mettersi di impegno per riuscire a farlo al meglio. Aggiungerei, infine, un tredicesimo consiglio, del tutto personale:
13. Sognare. Non avrà un significato scientifico, forse, ma sono convinta che avere sempre almeno un sogno da inseguire sia lo stimolo più forte per non cedere alla pigrizia e per non arrendersi al tempo che passa.
UNA GIORNATA DI UN SEMPLICE TECNICO IT
di Joseph Simionato
Di solito un tecnico informatico si alza al mattino, si sbarba, fa colazione, bacia la compagna e i bimbi se ce n’ha, salta in macchina o in treno e in una mezzoretta arriva in ufficio, fresco e pulito, si prende il caffè, accende il computer e comincia la sua giornata.
Io invece faccio cosi….
….La pioggia era talmente
violenta che non riuscivo a vedere
Indietro non potevo tornare perché l’area appena fuori Port Hedland era senz’altro gia impassabile e allagata forse per giorni.
L’unica cosa sensata che potevo fare era proseguire per la statale fino a Newman e aspettare li il tempo buono che a volte vuol dire aspettare da cinque a dieci giorni prima che le strade fossero viabili di nuovo. Stavo andando per la solita manutenzione quindicinale di routine in una delle miniere satellite fuori Port Hedland.
Immaginate uno Stato circa sette volte l’area dell’Italia.
Ora immaginate questa “immensitudine” abitata da solo due milioni d’abitanti.
Immaginate 1 milione e mezzo di questi vive in una sola città, e altri 300,000 sparsi in altre tre piccole cittadine.
Ora cercate di visualizzare
il resto, ossia i restanti 200,000 sperduti in un area uguale a sette volte
l’Italia meno
Sto parlando dello Stato del West Australia ossia l’Australia dell’Ovest, l’ultima frontiera come la chiamano gli americani.
Questo immenso Stato e’ tra i più selvaggi e isolati del mondo, con capitale Perth e tre altre cittadine, Albany, Augusta e Geraldton.
Dell’altra dozzina di paesetti spersi nel nulla non varrebbero nemmeno la pena a parlarne se non fosse per il fatto sono gli unici posti dopo centinaia e centinaia di kilometri dove un viaggiatore può rifornire l’auto.
Ma c’e’ una cosa che mette il West Australia sul “fronte mondiale”: le sue miniere.
Senza soffermarsi sulle innumerevoli varie risorse come Petrolio, Oro, Argento, Nickel, Uranio, e cosi via, lo Stato del West Australia infatti esporta da solo il 40% del fabbisogno mondiale di materiale grezzo da cui ricava il ferro.
Il ciclone s’era dissipato il giorno prima e da categoria 2 era stato degradato a una bassa pressione tropicale, aveva passato parallelamente la costa al largo di Port Hedland verso Sud, e non sarebbe dovuto entrare, ma come disse il vecchio Murphy…se può succedere, succederà.
Il massiccio fronte di pioggia tropicale aveva improvvisamente cambiato direzione verso est ed era entrato in terraferma dietro di me.. praticamente io ero in strada gia da ore quando il fronte decise di invertire rotta verso terra. Mi aveva “inseguito” e raggiunto ed ora ne ero nel mezzo.
Chiunque sappia qualcosa della regione del Pilbara, sa che l’ultima cosa una persona con un po’ di cervello deve non fare e’ di guidare durante un fronte tropicale. La pioggia può trasformare le strade asfaltate in veri e propri fiumi e uno letteralmente non sa dove e’l’asfalto e dove può essere qualsiasi altra cosa… aiuto non si può chiamare perchè queste zone sono fuori range di qualsiasi comunicazione e l’unico aiuto e la radio che tutti hanno a bordo ma pure questo ha un range limitato di 40 kilometri.
I telefoni satellitari erano allora un po’ una rarità e io non l’avevo ancora in consegna col mio equipaggiamento.
Arrivai al 378simo kilometro dalla partenza ed era tempo di guardare sulla mia destra per il viottolo che girava dentro la prateria e che dopo 300 kilometri circa di questo deserto punteggiato da bassi alberi e cespugli mi avrebbe portato alla miniera dove avrei dovuto passare i successivi tre giorni a condurre manutenzione alla rete IT e altre apparecchiature di comunicazione elettronica.
Trovai la svolta nel viottolo
e fermai
La pioggia batteva sul tetto della Land Cruiser facendo un chiasso infernale, facevo fatica a pensare.
Conoscevo la pista per i
successivi cento di kilometri fino alla ferrovia come il palmo della mia mano
e sapevo dove c’era terreno duro..dopotutto c’erano solo un
Perlomeno non mi sarei perso, anche perchè avevo da questo punto, il tracciato nel mio GPS.
L’altro pericolo in quella regione sono animali come mucche selvatiche o canguri spaventati dai tuoni, ma alla velocità che avevo andato non c’era molto da preoccuparsi.
Il vero problema era che dopo, una volta arrivato alla ferrovia, avrei dovuto girare e seguirla per altri 80 kilometri e questa era a malapena una traccia segnata piena di insidie e piccole valli che senz’altro potevano essere altrettanti piccoli fiumi.
Ma l’ostacolo maggiore era il Turner, un fiumiciattolo di sassi di una decina di metri quando in secca ma un torrente impetuoso largo più di mezzo kilometro quando in piena con alberi divelti, acqua fangosa e rossa e buche a non finire.
Durante l’ultima ora se non di più, non avevo incrociato nessun veicolo proveniente da Newman, era pur sempre un segno che forse la strada statale era stata gia chiusa al traffico più avanti dai Rangers come spessissimo succede in questi casi, quindi in realtà una direzione valeva l’altra e se fossi stato fortunato forse avrei potuto attraversare il Turner prima della piena.
Girai
Facevo a malapena 30 kilometri orari e a quel passo sarebbero state ore di strazio ma d’altronde non potevo rischiare e pian piano arrivai alla ferrovia.
Qui trovai la strada chiusa, col segnale attaccato alla sbarra che il Turner era in piena, non ci feci caso, ovviamente i Rangers avevano chiuso la strada perchè pericolosa, ma siccome non li avevo incontrati, dovevano essere venuti solo dalla miniera, quindi se loro erano passati, sarei passato pure io, a meno che non fossero gia passate ore.
Passai di fianco delle sbarre
attraverso un piccolo fossato trasformato in melma,
Continuai deciso di arrivare in qualche ora e bere una buona tazza di caffè caldo.
Improvvisamente invece dopo una piccola curva, si presento il Turner.
Mezzo kilometro di acqua e tronchi e buche.
Fatto di due avallamenti, mi avevano sempre detto che se riesco a vedere un po’ di sabbia nel mezzo, o dopo il primo avallamento, si poteva ancora passare ma solo se si era un pò spostati.
Io la sabbia in mezzo non la vedevo, ma vedevo l’acqua incresparsi a quel punto.
Non avevo tempo da perdere, ora o mai più.
La mia Land Cruiser aveva lo “Snorkel” lo scappamento modificato che usciva sopra la cabina, per quanto profondo, perlomeno il motore non sarebbe annegato.
Mi slacciai la cintura di sicurezza, misi il mio laptop e i miei vestiti dentro il sacco impermeabile e poi con quanto più fretta che la stanchezza mi permetteva, riempii il portabagagli dei massi più grossi che potevo sollevare. La pioggia calda torrenziale mi sferzava e facevo fatica a respirare.
Rimontai in macchina, feci
marcia indietro per un po’ e poi messa
gridando a squarciagola,
, “Daiiii Forzaaaaa” poi d’improvviso sembrò che il peso mi tornasse in corpo,
le ruote erano su fondo solido e stavo salendo lievemente, le ruote erano
fuori dall’acqua,
casa, fumare una sigaretta, andare a dormire ma il buon senso dettato da anni nel deserto del Pilbara mi disse che non c’era tempo per questi lussi, bisognava che andassi dall’altra parte e subito perchè ovviamente il fiume stava crescendo minuto per minuto e poi c’era il pericolo più grosso di un “flash flood”, persone muoiono tutti gli anni in queste situazioni.
Mi ritrovai ad amare la
mia Land Cruiser, il motore ruggiva quasi a sfida dell’acqua, del fango e
della corrente. La sponda opposta a
2 ore dopo intravidi le baracche solitarie del campo nel misto della pioggia.
Parcheggiai e corsi sotto la pergola del piccolo spaccio che era ancora aperto, un corto silenzio, la gente mi guardo in silenzio ma nessuno fece commenti, qualche risata di celia.. non c’e’ bisogno di commenti, sapevano tutti da dove venivo, niente di speciale, solo un’altro come loro che aveva scelto una vita più dura del normale per guadagnare di più, ma a volte con costi troppo alti.
Stavo sorbendo il mio caffè caldo, seduto fuori sotto la pergola, era ormai notte, mi ero asciugato e cambiato ma senza mangiare perchè la mensa era chiusa, stavo fumando in silenzio quando un ingegnere si sedette vicino e disse:- E tutto il giorno che cerco di mettermi in contatto con mia moglie via internet satellitare ma non riesco ad aprire Outlook, potresti dare un’occhiata? Certo, dissi.
E cosi cominciò la mia giornata in “ufficio”.
AFFRESCHI SACRI A MORMANNO
di Luigi Paternostro
Si tratta di due racconti diversi.
Il primo, in ordine di esame, è ispirato ai Vangeli. Trovasi nella chiesa del Suffragio e tratta, in tre episodi, significativi momenti della vita della Vergine.
Il secondo, dedotto dalla agiografia popolare, è posto in Santa Apollonia e si ricollega al martirio della Santa.
Questa seconda storia nasce dall’influsso della cultura bizantina insediatasi nell’area mercuriense che portò alla venerazione, vedi pure Chiesa di Santa Sofia in Papasidero [9] , di tanti santi nuovi rispetto a quelli della chiesa latina. Tale grecità resistette nei riti fino alla metà del 1500 [10] .
L’anziana diaconessa Apollonia [11] come ricorda San Dioniso vescovo di Alessandria, subì il martirio nel 249. Non solo le furono rotte le mandibole e spezzati i denti ma le si impose di recitare frasi blasfeme con la minaccia di bruciarla viva. La donna chiese un momento di riflessione e liberatasi dalle mani degli aguzzini si lanciò nel fuoco. L’iconografia la trasformò in una giovane con una tenaglia come se le fossero stati strappati i denti.
Entrambe le pitture furono affidate al pennello del mormannese Angelo Galtieri [12] che comincia a dipingere nel 1716 (Retablo chiesa Vergini di Laino Castello) e termina nel 1739 (Giudizio universale chiesa inferiore di San Nicola in Morano Calabro, certamente il suo più completo lavoro).
Gli affreschi, benché restaurati, non hanno un particolare splendore. Occupano le volte a botte delle anzidette chiese
Angelo non firma e non data, stranamente, nessuna delle due opere, cosa che fa invece scrupolosamente a Castelluccio Inferiore nella Chiesa di San Nicola.
Nella storia locale [13] , non vi è cenno alcuno né del Galtieri né della loro opera.
Qualche anno fa, sorretto da più baldanzoso entusiasmo, intrapresi ad inseguire Angelo Galtieri ripercorrendo tutti i posti ove aveva operato. Insieme alla scoperta delle sue opere e alla constatazione che fu quasi inseguito anche da Genesio Galtieri suo omonimo e compaesano [14] , ho notato una mancanza di originalità e di fantasia pittorica.
Fu, secondo me, un mediocre cartonista, cioè usò e dipinse figure già ritagliate su modelli provenienti da botteghe artigiane della Napoli settecentesca. Non fu da meno Genesio anche se entrambi furono influenzati da quella pittura atmosferica di Luca Giordano che aveva lasciato nella Napoli seicentesca importanti opere in S. Gregorio Armeno, Santa Brigida e Sant’Agostino degli Scalzi.
Furono sostanzialmente artisti modesti e non valicarono i confini del territorio appartenente alla diocesi di Cassano allo Jonio. [15]
In loro lascia a desiderare l’inventiva, in definitiva l’arte e di conseguenza una originale irripetibilità. Non usano sfondi, contorni, passaggi tra una figura e l’altra se non affrettate nuance.
I loro personaggi differiscono perciò solo dal colore usato, dalla posizione che occupano nel contesto generale e nel loro spostamento sulla scena a destra o a sinistra.
Ciò sarebbe, in definitiva, l’unico pregio dei due compaesani più preoccupati, secondo me, di sbarcare il lunario, che di attingere a quello slancio, di cui erano privi, che fa di un vero pittore un inconfondibile artista.
Malgrado tutto le loro pitture fecero vibrare l’anima popolare soprattutto quella degli analfabeti, tanti a quei tempi, che si avvicinavano alle sacre scritture affascinati dalla rappresentazione di avvenimenti che non avrebbero altrimenti conosciuto e che lasciavano un segno profondo e palpabile.
A dimostrazione e sostegno della mia tesi, ecco di seguito alcuni raffronti della pittura di Angelo e Genesio in Mormanno e altrove.
COUNTRY HOUSE SALOMONE:
IL PARADISO DEL MIELE
di Piero Valdiserra
A
Matelica, immersa nel verde dei vigneti del Verdicchio D.O.C., è aperta da
alcuni mesi
La struttura è dotata di sei camere, ognuna delle quali è dedicata a un fiore che corrisponde a un miele tipico monoflora del luogo: castagno, girasole, sulla, lavanda, acacia, phacelia. Sempre sul miele è imperniata un’altra importante realizzazione della Country House, vale a dire la fattoria didattica “Ligustica”, che prende il nome dalla razza autoctona di ape italiana, ora divenuta la più diffusa e la più amata anche nel resto del mondo.
La “Ligustica” si compone di una serie di impianti, del laboratorio e dell’aula verde, per accogliere scolaresche di tutti i livelli e per far loro conoscere in modo teorico e pratico tutta la filiera di produzione dei prodotti apistici.
Gli impianti di produzione dei prodotti d’alveare sono quattro: l’apiario per la produzione di miele e propoli, l’apiario per la produzione di api regine e di pappa reale, l’impianto per la fecondazione delle api regine e infine l’apiario per la produzione del polline.
Il laboratorio è destinato alla raccolta e al confezionamento dei prodotti dell’alveare, e alla preparazione di varie squisitezze a base di miele (p.es. confetture al miele, frutta secca al miele, crema di nocciole al miele, ecc.).
Lo spazio aula verde, di estrema bellezza dal punto di vista panoramico e naturalistico, offre una stupenda visuale sui vigneti del Verdicchio D.O.C. di Matelica e rappresenta una suggestiva finestra naturale su tutti gli impianti di produzione apistica del luogo.
La fattoria didattica è inoltre completata da un percorso di erbe officinali, con circa 90 varietà di essenze, e da un ampio frutteto, in cui si possono ammirare piante e frutti secondo la stagione.
(Info: Country House “Salomone”,
Località Salomone 437, 62024 Matelica (MC), tel.
Una nuova iniziativa a Mormanno:
“IL SENSO DELL’ESSERCI”
di L. Cersosimo e G. De Girolamo
Almeno una volta ci si è interrogati su quale sia il “Senso dell’Essere”, ma nostro malgrado l’onniscienza ci preclude le risposte!
Da qualche tempo, nella nostra cittadina, è nata una nuova iniziativa in seno alla Compagnia Teatrale del Cucco, fortemente voluta dal direttore artistico, Tonino Cattolico, e da un gruppo di nuove iscritte alla stessa (F. Armentano, L. Cersosimo, G. De Girolamo, A. Maradei), il cui nome è: Il Senso dell’EsserCI.
L’intento del nostro gruppo è quello di seguire attraverso i “cinque sensi” quali sono le componenti che caratterizzano l’individuo fino ad erigerlo a persona.
Si
è pensato di riassumere le predette caratteristiche umane in almeno cinque
incontri in cui saranno trattati temi come l’Amore, l’Identità,
Sicuramente l’astuto lettore sottolineerà con perspicacia che ognuno degli argomenti può essere parte dell’altro, ma il nostro intento è quello di affrontarli, seppur singolarmente, in modo da capire al meglio l’essenza di ognuno. Vorremmo iniziare con il guidare la gente a guardare, analizzare e discutere le componenti della nostra personalità da angolazioni diverse, per meglio percepirle.
La pietra miliare di tutto è arrivare all’ “Essenza” del Senso insieme ad altra gente, ecco spiegato il suffisso “–CI”, che sta per “CON”, presente nel nome del gruppo.
Quello che il neonato gruppo di lettura si prefigge non è dimostrare quali possono essere i “lumi” della “ridente” cittadina di Mormanno, ma è quello di porgere l’ascolto verso altri argomenti che fanno parte di Noi, attraverso la lettura, l’ascolto e l’arte.
Si è già tenuto il primo incontro Martedì 18 Marzo, presso il teatro S. Giuseppe di Mormanno, durante il quale abbiamo cercato di sviluppare le varie facce dell’Amore attraverso brani poetici, testi letterari supportati da pezzi musicali, accuratamente selezionati per ogni brano a cui si riferivano. Alleghiamo all’articolo il Manifesto, la locandina e la scaletta dei brani trattati durante la serata.
presenta
Il Senso
...dell’esserCI...
AMORE
“Farò della mia anima uno scrigno
per
del mio cuore una dimora per
del mio petto un sepolcro per le tue pene”
(K. Gibran)
Letture e brani musicali
“ALL YOU NEED IS LOVE” dei BEATLES
PREMESSA
“UN LIBERO CERCARE” di T. DE SIO e F. DE ANDRÉ
INTRODUZIONE
“CHE COS’É L’AMOR” di VINICIO CAPOSSELA
“STRANIZZA D’AMURI” di F. BATTIATO
“GLI AMANTI” di Giorgia con P. Daniele
“TARDE, POR FAVOR” dei MADREDEUS
“SAMBA DA BENÇAO” di BEBEL GIBERTO
“TITLE MUSIC FROM A CLOCKWORK ORANGE” di WENDY CARLOS
“DIFERENTE” di CRISTINA VILLALONGA e i GOTAN PROJECT
“LA NASCITA DELLE COSE SEGRETE” di L. EINAUDI
“IN UN’ALTRA VITA” di L. EINAUDI
“THE FLOW” di N. ZAZA
“I GIORNI” di L. EINAUDI
“ZAMBA PER MASSIMO”
“DO YOU REALLY WANT TO HURT ME” di BOY GEORGE & CULTURE CLUB
“CAFÉ DE MAR-
“D’UN BEL MATIN D’AMOR” di
“GLI OCCHI CON GLI OCCHI” di R. COCCIANTE
“IL CANTICO DELLE CREATURE” di A. BRANDUARDI
Finale: “BARCAROLLE (-LA VITA É BELLA)” di NICOLA PIOVANI
Il riscontro ottenuto per questo primo incontro da parte della cittadinanza è stato positivo...augurandoci però che l’utenza sia più cospicua nei prossimi incontri!
In conclusione si rende noto che il prossimo incontro, che si terrà per fine Aprile, avrà come tema l’Identità; chiunque voglia partecipare potrà inviare il materiale, tramite una mail, ai seguenti indirizzi di posta elettronica: lacompagniadelcucco@libero.it oppure giudegy@libero.it e laucer_l@libero.it.
L’augurio è che la nostra iniziativa non sia soltanto un volere singolo, ma uno sprone affinché chiunque possa interessarsi non solo con un mero contributo di testi attinenti ai temi, ma anche con la persona fisica e creare così un produttivo Gruppo di Lettura.
COME VIVIAMO NELLA PROVINCIA RUSSA
di Elena Rudakova
Sono russa. Sono nata in Siberia e attualmente abito in una piccola città di provincia non lontana da Mosca. Qua mi hanno portato i miei genitori molti anni fa. Questa città è famosa solo per una curiosità: è un palazzo-museo del conte Bobrinsky, figlio illegittimo di Ekaterina II e del conte Grigory Orlov. Non c’è altro di bello.
La stazione ferroviaria si chiama «Zhdanka» e significa «attendere». Era qui infatti che nel XVIII secolo l’imperatrice russa Ekaterina II fissava gli appuntamenti al suo amante Grigory Orlov.
Ma nel XXI secolo, come viviamo nella provincia russa?
Nel mondo sono molte le
persone che identificano
La vita nelle città di provincia è tutt’altra cosa. Il tenore di vita a Mosca e a San Pietroburgo non è paragonabile a quello della provincia.
Io che in questa ci abito lo so bene.
In primo luogo vorrei dire che il nostro Stato non fa molto per far vivere meglio la gente di provincia. Il tenore di vita è davvero molto basso. Gli stipendi, le pensioni sono troppo bassi per vivere con dignità. E poi in Russia la gente va al lavoro per passare il tempo, non per realizzarsi. Manca l’interesse individuale.
Anche le ultime riforme
non hanno dato i risultati sperati, la vita quotidiana delle persone non è
cambiata in meglio, sono ancora troppe le persone che soffrono. Troppo il
disinteresse per il popolo. Da questo punto di vista
Nelle città di provincia questo malessere si riflette maggiormente. Il nostro Stato non ritiene proprio di dover sostenere insegnanti, medici e dipendenti statali. L’istruzione superiore non viene apprezzata e riconosciuta.
Io ad esempio sono giurista, coadiutrice del giudice federale, ho una istruzione superiore, lavoro moltissimo, completo il lavoro dei giudici, ma guadagno 14% del loro stipendio mensile. Mi chiedo: ciò è giusto?
Ho una figlia di 15 anni che frequenta la scuola media, della quale non è contenta. Secondo lei gli insegnanti non spiegano bene le lezioni, volutamente. Agli studenti che fanno presente di non aver capito dicono: “puoi venire da me dopo le lezioni, ti farò un po’ di scuola privata; con i tuoi genitori discuteremo del pagamento”. Come pensate? Vi sembra giusto?
Vorrei dire poche parole anche sui nostri medici . Purtroppo anche i rappresentanti di questa delicata professione non lavorarono disinteressatamente. Tanto che nella mia città molta gente preferisce curarsi privatamente. In Russia c’è una barzelletta sui medici: “Al malato che si affanna a raccontare i propri malesseri, il medico di Stato risponde: se vuoi ti curerò, ma hai poche possibilità di guarire”. Una situazione davvero buffa nonostante la sua tragicità.
Per non parlare delle pensioni. In Russia queste ammontano al 20% dello stipendio.
Ad esempio, la pensione di mia mamma `e circa 85 euro, di mio padre – 140 euro. Il mio stipendio `e 300 euro.
E pensare che solo di Servizi comunali ogni cittadino spende in media 80 euro. La domanda sorge spontanea: come continuare a vivere cosi?
C’è una sola risposta, in Russia non si vive, si sopravvive.
Quasi dimenticavo di raccontare una cosa importante riguardo a come il nostro Stato si cura di noi. Io abito in una territorio dove a seguito della catastrofe di Cerrnobyl il rischio radiazioni è molto alto. Per questo motivo il nostro Stato alla popolazione che vive nella zona paga un sussidio mensile per il mantenimento e le cure. Ebbene, questo sussidio ammonta a circa 9 euro mensile. Utile per comprare ad esempio, qualche chilogrammo di frutta.
La preoccupazione del nostro stato è molto commovente. Ho ragione?
Malgrado tutto amo la mia patria, ma di certo non rispetto che la governa.
Mi piacerebbe vedere un’altra Russia, specialmente nelle città di provincia.
“NON È UN PAESE PER VECCHI”
di Carla Rinaldi
Ci sono tutte le loro classiche ambientazioni nel film “Non è un paese per vecchi”, i fratelli Coen ritornano all’atmosfera diradata e marcia delle lande americane dove la brama di denaro e la mancanza totale di senso di colpa, sono protagonisti. Il concetto della possibilità di cambiare la propria vita a discapito di quella di latri, è un tema portante dei film dei fratelli geniali del cinema americano, il prezzo che si paga e si ritorce contro, è un latro tema che si lega alla vicenda, quasi sempre nefasta, di un personaggio ingenuo e cattivo allo stesso tempo, che deve fare i conti con il vero male che lo circonda, e a quanto pare, la sproporzionata America, è piena di malvagità. Un uomo trova una valigetta di dollari in un campo dove si sono ammazzati a freddo dieci uomini per rubarla, decide di impossessarsene e cominciano i guai. Parte, fugge, lo pedina un serial killer psicopatico e abulico, interpretato dal Javier Bardem, che per questo ruolo si è aggiudicato l’Oscar, una schiera di coprotagonisti si avvicendano, schierandosi tra bene e male, per recuperare il denaro sporco. Morti, sangue e confusione alla base della storia, paura e senso totale di vuoto, il contorno per angosciare il protagonista.
Per la pellicola e la regia altri due Oscar quest’anno ma non c’è paragone con la sagacia perfetta della sceneggiatura di “Fargo” o di “Crocevia della morte”, atre due loro pellicole. In confronto “Non è un paese per vecchi” sembra uno stralcio non corretto e non approfondito degli altri due, è monotono e i personaggi che ad un certo punto dovrebbero deviare il corso della storia, restano invece a fare da sfondo in silenzio e senza battute appropriate. Non succede assolutamente niente per due ore, il serial killer ammazza senza sosta, il cowboy che ha trovato i soldi scappa, lo sceriffo (Tommy Lee jones) resta pavido e distaccato e non contribuisce all’arresto del matto Bardem.
E’ un film apocalittico, già nel titolo intravediamo l’impossibilità dell’america in questo momento storico di risorgere, sembra quasi che sia tutto crudele e che tutti siano abituati alla crudeltà e nessuno cerca praticamente di cambiare gli eventi. Dai fratelli Coen ci si aspetta sempre il capolavoro, questa volta si sono accomodati a narrare senza raccontare, le sfaccettature sono il loro distintivo, Jesus che lecca la palla da bowling nel “Grande Lebowski”, è il loro marchio, qui manca tutto questo, c’è un plot e basta, aspettiamo di vedere il prossimo film e a chiudiamo dicendo che questo “non è un film per i fratelli Coen”.
QUANDO IL SOGNO AMERICANO DIVENTA REALTA’: IL CASO PATTI PALMER
di Emanuela Medoro
La cantante, figlia d’una emigrata abruzzese negli States, divenne famosa e moglie di Jerry Lewis
Quando il sogno americano diventa realtà. Un caso è quello di Patti Palmer, cantante americana molto nota nel dopoguerra e fino agli anni Sessanta, splendida vocalist nell’era delle Big Bands. Moglie di Jerry Lewis. Perché ce ne occupiamo? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un salto indietro nel tempo e risalire al 1919 quando Maria Rotellini di Paganica, diciannove anni, a servizio presso una famiglia facoltosa che la trattava a suon di botte, cosa allora ritenuta normale, trovò la via di uscita dall’infelice situazione esistenziale emigrando in America, con un matrimonio per procura, sistema che allora permetteva alle donne di superare tutte le difficoltà burocratiche per entrare negli USA. Il fratello di Maria, Franco, che era emigrato precedentemente e lavorava in una miniera del Wyoming, trovò un suo amico, tale Antonio Calonico, egli pure minatore emigrato, disposto a sposarla. Si combinò il matrimonio e così Maria fece il gran balzo da Paganica, grazioso paese a pochi chilometri dall’Aquila sulla strada che porta al Gran Sasso, ad un villaggio nei pressi della miniera nel Wyoming.
Dal matrimonio nacquero due figli, Pasqualina e Giuseppe. Dell’infanzia di Pasqualina
(Patti) si sa quello che lei racconta nella sua autobiografia “I
laffed till I cried “, pubblicata nel 1993 negli States. E’ evidente
che le percosse ricevute da giovane avevano segnato in modo indelebile il
comportamento della madre Maria, che usava la stessa violenza domestica da
lei subìta nei confronti della figlia. Nella sua autobiografia Pasqualina
racconta: ” L’amore non è mai stato un elemento dominante della mia vita,
prima d’incontrare Jerry. Mia madre mi difese una volta soltanto in vita sua
e me lo ricordo benissimo. Quando si dirigeva verso di me, di solito mi tiravo
indietro perché pensavo volesse picchiarmi. In genere avevo ragione io, ma
se aggrottavo le ciglia, mi dava uno schiaffo e quando le chiedevo che cosa
avessi fatto per meritarmelo, lei rispondeva freddamente: “Non mi piace
il modo come mi guardi”….Molto presto imparai a pulire i pavimenti,
ed a pulirli ogni volta fino a quando non raggiungevo la perfezione che voleva
mia madre…Piangevo quando ero inginocchiata a pulire il pavimento con una
spazzola ed un secchio d’acqua. Le mie mani venivano costantemente schiaffeggiate
se tenevo l’uncinetto in modo sbagliato, mentre imparavo ad usarlo. Se sbagliavo
o non mi concentravo abbastanza, la mamma mi sgridava ed io piangevo…”.
Ed ancora: “Mio padre picchiava spesso la mamma, ed un giorno, dopo l’ennesima
violenta lite, papà se ne andò via da casa per sempre…”. Un inferno, dunque,
questa famiglia americana di recente origine italiana. Ma ben presto le cose
cambiarono per
Incominciò così una nuova vita, a Detroit. E qui fu la musica, la voce a dare uno scopo alla vita di Pasqualina. Prese subito il nome d’arte Patti Palmer, cantando con piccoli gruppi musicali in giro per la città. La sua era una vera passione, con un talento naturale che le dava gioia. Perfezionò con gli studi il canto e gli strumenti. Ebbe presto un’attività artistica intensa che la portò a scritture sempre più importanti, fino a diventare la cantante del gruppo di Jimmy Dorsey e ad esibirsi a Broadway. Risale a questo periodo l’incontro fondamentale della sua vita con Jerry Lewis, anch’egli giovanissimo comico alle prime esperienze, destinato poi ad uno straordinario successo ad Hollywood come attore. Si sposarono nel 1944, Patti e Jerry, risolvendo pacificamente tutti i problemi derivanti dalla differenza di religione, lui famiglia d’origine ebraica, lei cattolica. Intanto di Jerry Lewis cresceva la fama, specie quando nel 1946 conobbe Dean Martin, abruzzese d’origine come sua moglie, e costituì con lui una formidabile coppia di spettacolo nei night club e poi nel cinema. Dal matrimonio, durato trentasei anni, Jerry e Patti hanno avuto cinque figli maschi (Gary, Scott, Chris, Anthony e Joseph), più uno adottato (Ron). Dunque una famiglia numerosa, con genitori super impegnati in attività artistiche fuori casa.
Ed ecco il fantastico salto sociale della nostra Maria Rotellini, la mamma di Patti, che da una specie di capanna in un villaggio di minatori del Wyoming, passando per Detroit, si ritrova a fare la nonna in un’immensa villa lussuosa di Bel Air, a Los Angeles, trentacinque stanze e rubinetti d’oro, che era stata di Louis B. Mayer, uno dei fondatori di Hollywood. Mi piace pensare che in quell’ambiente, distante anni luce dalle sue origini non solo per ricchezza, ma anche per cultura, la nostra Maria abbia per sempre dimenticato la violenza domestica e l’uso delle mani come strumento di educazione.
Questo miracolo darebbe più significato al sogno americano del benessere e della ricchezza, diventato realtà. Questa bella storia con un lieto fine così clamoroso, finora nota solo a pochi, è raccontata in un libro di Raffaele Alloggia “Patti Palmer e Jerry Lewis, due stelle a Paganica” (L’Aquila, 2004).
L’autore, di Paganica come Maria, ha avuto la costanza di ricercare per anni fotografie e documenti necessari per scrivere questa storia. Tutto cominciò quando l’autore, appassionato di foto d’epoca, per puro caso ebbe sotto gli occhi alcune immagini con Patti e Jerry custodite da una zia di lei, scattate a Paganica durante una breve visita della coppia di artisti per conoscere i parenti di Patti, nel lontano 1953. Il volume che racconta questa storia di sogno americano realizzato, riporta anche alcuni capitoli dell’autobiografia di Patti Palmer tradotti dall’inglese.
Della cantante d’origine abruzzese, felicemente vivente, ha seguito le orme musicali il primo dei suoi figli, Gary. Con la sua Band “Gary Lewis and the Playboys”, otto Dischi d’oro, miete tuttora grandi successi ed ha venduto 45 milioni di dischi in tutto il mondo.
L’APERITIVO
di Massimo Palazzo
Sono lombardo ma da anni abito a pochi km da Treviso una città molto bella, tenuta e migliorata giorno per giorno dal sindaco, criticato dagli esterni ma adorato dai Trevigiani anche di parere opposto alla sua idea politica.Treviso e provincia offrono tantissimo sotto tutti i punti di vista, sopratutto si mangia e si beve bene come in tutto il Veneto con un vantaggio a mio parere, che la scelta qui è molto più ampia. Senza peraltro disquisire di piatti o menù particolari parlerei dell’aperitivo chiamato da queste parti in modo diverso: andiamo a farci un’ombra (di vino). Un detto usato nel passato quando il vino veniva portato in giro con i carretti e lasciato all’ombra degli alberi.
Di posti attrezzati per soddisfare questa usanza ce ne sono molti ma due in particolare consiglierei a chi passasse per questa città.
“ Il Bottegon”. Si trova all’interno delle mura alla porta San Tommaso. Il gestore si chiama Renato una persona squisita e disponibile,buon cuoco ottimo intenditore di vini italiani e stranieri. Appena varcata la soglia il profumo la fa da padrone e ci si trova davanti ad un esposizione che annienta ogni resistenza. Polpette, crostoni con baccalà, crostoni con formaggi e salumi di tutti i tipi, soppressa genuina, seppioline, polipetti, pesce fritto, olive ascolane, arancini di riso, olivette di mozzarella, porchetta, stecchi di patate, stecchi di carne, mozzarelle in carrozza e tanto tanto altro ancora. La scelta dei vini è evidenziata da due lavagne una per i bianchi e una per i rossi ma oltre a questi basta chiedere un consiglio e la scelta diventa notevole. Mi è capitato di provare un buon barricato e scoprirne la provenienza marocchina.
Il secondo si chiama “Ai Nanetti”. E’ in centro vicino alla Loggia, di fianco al megastore Benetton. Frigor banco e affettatrici originali anni 50, radio antiche di tutte le marche e banconote di tutto il mondo completano l’arredamento. Non ci sono posti a sedere. Si possono gustare prosciutti e formaggi molto particolari tagliati a spicchi e serviti su piccole assicelle e tanti prodotti sott’olio e di vini ce ne sono di tutti i tipi. Ne vale veramente la pena. Il locale è stato nominato anche nella trasmissione il gastronauta su radio 24. Sulla falsariga dei due citati ce ne sono tanti altri ma uno mi ha colpito per il nome: Farmacia dei sani……….il negozio di fianco è proprio una farmacia.
Se passate di qui BUON APERITIVO…..pardon buon ombra
“FIOR DI BOSCO”
di Francesco Rinaldi
E così ci si ritrova, qui, in una terra amata dalla fortuna (il Trentino), ad un tavolo di legno circolare, dolcemente addobbato con festose composizioni di fiori secchi e colorati; e fini merletti che sembrano danzare, come in un Walzer di Johann Strauss.
Come note fluttuanti e libere, veniamo subito introdotti in una emozionante sinfonia.
La sensazione è di infinita continuità, come quella che è possibile immaginare si provi attraversando uno Stargate, un cerchio del tempo. L’ambiente in cui si entra assume quasi una funzione trascendente, trasportandoci in un mondo di antichi sapori e maniere.
“Fior di bosco”: questo nome evoca pace e felicità, il menù è la cortesia, la cucina è raffinata.
In un nascosto anfratto di una lussureggiante valle sperduta (Valfloriana), si trova un piccolo agriturismo. Nei piatti regna la tradizione, ma ben rivisitata: panzarotti con lucanica e patate al burro versato; vellutata di sedano e rapa al profumo di arancio; orzotto ai porcini e radicchio; filetto di coniglio croccante con patata rustica e pisello mangiatutto; costolette di maiale al forno con verza stufata e polenta del chiese; e, per concludere, l’ottimo “dolce dell’imperatore”, il Kaiserssmarm, offerto dai trentini all’Imperatore austroungarico Francesco Giuseppe, in occasione di una sua celebre visita. Ottimo è, poi, il pane. E, naturalmente, non è tutto !
Se il cibo è all’altezza, non lo è da meno il vino: dal Traminer al Pinot Noir, dal Marzemino, al Cabernet Sauvignon, fino all’Antares spumeggiante.
Come un appassionato e garbato esperto Direttore d’Orchestra, il simpatico Patron (Graziano Lozzer), con in mano uno strano marchingegno per decanter, al posto della bacchetta, ci viene incontro con fare affabile ed amichevole. A dispetto della sua giovane età e dal contegno simpaticamente distratto, è il Presidente dell’Associazione Agriturismo Trentino.
Tuttavia, il cuore pulsante di questo buen retiro non è la cucina, bensì uno splendido, celebre esemplare di mucca grigia, la cui età
supera i 20 anni. E’, forse, la mucca più anziana di Italia ed è in forma strepitosa: si tratta di Lola la grisa, una vera chantosa.
Ah ! Dimenticavo !
Vi è anche la possibilità di pernottare in poche confortevoli camere, per assaporare al meglio questa atmosfera di completo abbandono in un tempo che trascorre lentamente, dal primo albeggiare all’imbrunire.
Vi do l’indirizzo: Agritur Fior di bosco, Azienda Agricola Biologica, Famiglia Lozzer, 38040 Valfloriana, Loc. Comuni (Trento), Tel. 0462.910002.
Buon soggiorno a tutti e … “l’erba pù bona non la buta sula strada maestra” !
SANTA DOMENICA TALAO DEVE LE SUE ORIGINI ALL’ANTICA CITTA’ DI SCALEA
di Elena Paolino
Nel suo territorio, che apparteneva alla famiglia degli Angioini, vi facevano
permanenza alcuni coloni e forensi, soprattutto di Mormanno, il primo dei
quali G. Andrea
Nel XVI secolo il territorio fu acquistato dalla nobile famiglia degli Spinelli di Scalea ed il principe Don Ettore, che era solito recarsi in quei luoghi soprattutto per la purezza dell’acqua di “Cannidata”, decise di fondare un paese sulla collina dove oggi è Santa Domenica.
Intorno al 1620 fece costruire delle casette e situò con le proprie mani la
prima pietra, vi buttò del denaro, fece regali agli operai dell’epoca. Dopo
il 20 invitò dei forestieri a popolare quel rione promettendo a tutti una
particolare benevolenza e mezzi di sussistenza. Nello stesso periodo anche
G. Andrea
Nel 1662, con la partecipazione dei cittadini, si incominciò a costruire
Nel 1669 il villaggio cessò di essere tale e fu eretto il Municipio ossia Università.
Ogni anno, il 25 agosto, in pubblico parlamento erano eletti gli ufficiali della Municipalità: il Sindaco, due eletti, un mastro giurato ed un procuratore della chiesa madre di San Giuseppe. Per amministrare la giustizia fu nominato un luogotenente, detto anche delle Difese Spinelli.
I cittadini continuarono a piantare vigne e ulivi, a produrre, in grande quantità, il zibibbo, l’uva passa e i fichi secchi, a costruire casette e, soprattutto, mulini sia nelle campagne sia nel centro abitato, di cui ancora oggi esistono le tracce.
A partire dal 1760, però, a causa della diminuita fertilità del suolo e della protezione baronale, delle inimicizie tra famiglie, della morte di D.Antonio Spinelli , molto amato dal popolo, Santa Domenica perse la sua importanza. Il brigantaggio, durante l’occupazione francese, contribuì a rovinare anche il tessuto sociale.
Dopo l’unità d’Italia, con il decreto legislativo del
_____________
(Notizie storiche tratte da : Santa Domenica, da feudo degli Spinelli a terra di briganti a cura di Di Giorgio D, Lucchesi A, Muscarello M.E, Paolino M.G e Paolino M.M. - Poligrafica 2002)
GIANNI BERENGO GARDIN, IN PERCORSI DI LUCE, SVELA MARCELLO MARIANI
di Goffredo Palmerini
Settanta immagini d’un genio della fotografia mondiale in un libro sul grande pittore abruzzese
L’AQUILA – Un forte fermento sociale, spirituale e culturale viveva la città, all’inizio del Seicento, per l’arrivo in quegli anni di nuovi ordini religiosi che si aggiungevano a celestini, domenicani e francescani insediatisi immediatamente dopo la sua fondazione, tre secoli e mezzo prima. L’arrivo all’Aquila dei gesuiti aveva portato un’istruzione d’alto livello, mentre a quella popolare pensavano piuttosto i barnabiti. Eppure, nel 1607, molto s’arricchì culturalmente la città con il sorgere d’una comunità di padri filippini che diede notevole impulso alle attività teatrali, letterarie e musicali cittadine. Cominciarono a riunirsi, insieme ai laici, in un oratorio cinquecentesco dedicato a San Gerolamo, situato in parte dove ora insiste la chiesa di Santa Caterina Martire, di cui più avanti si dirà, lungo la via che dalla grande piazza del mercato scendeva fino alla fontana dalle molte cannelle progettata da Tancredi da Pentima, vicino la porta urbica della Rivera. Trent’anni dopo, ben cresciuta di numero, la comunità dei filippini gettò le fondamenta della chiesa di San Filippo. Tempio raccolto, cruciforme, vantò l’opera d’artisti provetti nella realizzazione degli altari, del transetto, degli stucchi della navata e delle cappelle arricchite da tele ed affreschi. Resistita al terribile terremoto del 1703, la bella chiesa è arrivata fino ai nostri giorni, mutando la sua funzione una ventina d’anni fa dal culto al teatro, ad opera dell’ente teatrale d’innovazione “L’uovo”, con un intervento che segna un armonioso equilibrio tra sacro e profano.
In questa preziosa bomboniera, dove l’antica propensione dei filippini per l’arte
ha trovato degna eredità, il 29 febbraio scorso è stato presentato “Marcello
Mariani. Percorsi di luce” di Gianni Berengo Gardin, stupendo
volume fotografico curato da Silvia Pegoraro, per
Silvia Pegoraro, nella sua rigorosa introduzione al volume, annota come similmente a Cartier Bresson, padre del reportage contemporaneo, “…Berengo Gardin, pur dotato di un inconfondibile eleganza formale, privilegia l’approccio documentario. Non si tratta mai, del resto, di una documentazione freddamente analitica, ma di un documento istantaneo e istintivo, sintesi di una situazione colta velocemente nel suo divenire. Una percezione più umana che meccanica, colta dall’occhio nel momento irripetibile in cui un evento si manifesta. E infatti, uno degli elementi che hanno reso singolare e inconfondibile il lavoro di Berengo Gardin nel panorama della fotografia degli ultimi cinquant’anni è lo sguardo affabile, partecipe, ma mai patetico, con il quale egli coglie gesti e atteggiamenti capaci di rivelarci leggerezza e peso della vita di ogni giorno. Più che fotografie, quelle di Berengo Gardin sono frammenti di tempo e spazio vissuti dall’autore e memorizzati dalla machina fotografica …”. Ottaviano Del Turco, tra l’altro, scrive sul pittore: “… Più Marcello Mariani si sforza di aiutarci (…) inventando suggestioni formali (che nei suoi lavori non ci sono mai) più ci è chiaro che il suo è un processo creativo che ha radici, origini, sviluppi, che nascono da sentimenti, emozioni, suggestioni, tutti parenti stretti di quel “sacro” che vive sempre in ognuno di noi, anche quando lo ignoriamo o cerchiamo di rimuoverlo. (…) Il suo lavoro somiglia al suo carattere e, soprattutto, somiglia al suo sorriso. Veder sorridere Mariani nel suo studio, e guardare i suoi lavori, è un’operazione che vi rivela più di qualunque saggio critico l’origine della sua ispirazione e il processo che la guida …”. Un aspetto, il “sacro”, presente anche nella nota critica di Gabriele Simongini: “… Non si può capire la pittura di Mariani senza tenere a mente le radici abruzzesi dell’artista: il nitore cristallino dell’aria e dei cieli aquilani, i verdi e i rossi infuocati, autunnali, delle campagne, gli scabri ed ascetici profili montuosi, gli equilibri geometrici di antiche architetture attaccate dall’inflessibile aggressività del tempo. E tutto ciò affiora in immagini distillate non per un fragile residuo naturalistico ma per l’insopprimibile e spontanea esigenza sentita da Mariani di dipingere prima di tutto il calore vitale, la traccia immanente di una presenza sacrale ( …) Infine, guardando attentamente il magnifico reportage fotografico che Gianni Berengo Gardin ha dedicato a Mariani ne emerge la figura anticonformista di un uomo e di un artista che cerca la propria strada con inesausta umiltà, in silenzio, affidando la propria voce all’incanto di un colore inquieto, talvolta corrucciato, ma sempre rivelatore nelle sue luminescenze interiori ed umanissimo nella sua palpitante verità”.
Il percorso fotografico di Berengo Gardin dentro l’avventura artistica ed umana di Marcello Mariani, descritta per immagini nel prezioso volume, è uno zoom graduale che parte dal contesto ambientale: gli orli dei monti intorno alla campagna aquilana, poi speroni rocciosi ed eremi sospesi, quindi Mariani nei borghi arrampicati alle montagne e poi immerso nelle architetture della sua città, il primo piano dell’artista sullo sfondo d’insigni monumenti. Poi ancora più dentro: lo sguardo ieratico del pittore, il senso di mite inquietudine ma anche d’innocente leggerezza che muove il suo sorriso, la sua delicatezza ed il suo rigore, quindi l’ingresso nel suo laboratorio “sacro”, tra utensili attrezzi tele e colori che conoscono un’atavica sapienza d’artigiano, l’ordine inconsueto dell’atelier, tra le tracce singolari dell’antico luogo di culto. Sì, quella chiesa di Santa Caterina Martire legata con un filo d’Arianna alla presenza religiosa e culturale dei filippini in città, da quasi un ventennio è lo studio di Marcello Mariani. Su quei particolari, su quei muri dove le tele sembrano un tutt’uno, sul viso dell’artista all’opera, gli scatti di Berengo Gardin realizzano una sequenza d’immagini che di Marcello Mariani svelano tutto, fino all’anima. Incredibile, confessa Mariani stesso, come Berengo Gardin in una sola settimana l’abbia scandagliato e svelato così nel profondo.
Marcello Mariani nasce all’Aquila,
nel 1938. Allievo
di Fulvio Muzi, si forma all’Accademia di Belle Arti di Napoli, iniziando
al teatro San Carlo i suoi primi lavori di scenografia. Nei primi anni Sessanta
viaggia in Europa, conosce artisti a Berlino, ad Amburgo tiene
una mostra personale. A Parigi conosce Sartre e gli esistenzialisti.
Rientrato in Italia, nell’ambiente romano conosce Boille, Manzoni,
Rotella, Lisi e Rauschenberg. Con Rauschenberg intesse dialoghi franchi ed istintivi sulla pittura e sulla
cultura. Con Boille, Lisi, Manzoni e Rotella vive gli anni infuocati
delle contestazioni giovanili. Inizia ad insegnare all’Istituto Statale d’Arte dell’Aquila. Tra gli anni ’60
e ’70 si dedica con slancio alla pittura informale, sull’influenza di Alberto
Burri, che conosce e frequenta in “Alternative Attuali”, importanti
mostre internazionale d’arte contemporanea tenutesi all’Aquila nel 1962,
’63, ’65 e ’68, curate da Enrico Crispolti. Frequenti incontri con
Mario Ceroli, Lucio Fontana, Alberto Burri e Carmelo
Bene, imprimono nel giovane artista un influsso determinante sulla sua
ricerca pittorica. Sempre più poetica ed anarchica la sua visione del mondo,
per l’avversione al consumismo d’una società dominata dal mercato. Nel 1974
conosce Joseph Beuys e rafforza la sua convinzione in una terza via
umana e sociale, fuori dal capitalismo e dal comunismo. Quello stesso anno
espone insieme a Guttuso, Accardi e Consagra. Nel 1979 inizia il
ciclo di viaggi in Oriente, in Madagascar ed in Australia, dove a Melbourne
terrà due mostre personali, nel ’79 e nell’80. Proprio in Australia è
conquistato dal fascino della cultura aborigena tribale, che ancor più gli
fa scoprire il senso della materialità e dei colori della terra. Rientrato
in Italia sviluppa la sua pittura arricchendola di tracce materiche più calde.
Pittura quasi muraria, originaria e simbolica dell’essenza. Sono anni intensi
d’incontri e contaminazioni, con Tullio Catalano, Berardino Marinucci,
Enrico Crispolti e Antonio Gasbarrini, i quali presenteranno alcune
sue mostre collettive. Numerose le sue partecipazioni ad esposizioni con le
grandi firme della pittura contemporanea. Rilevanti le sue più recenti personali:
Archetipi, nel 1997, presentata da Vito Apuleo all’Aquila; poi nel
‘98 una nuova personale presso
I viaggi in Africa, Oriente ed Australia, quasi sempre
fuori dalle grandi città, segnano per Mariani la continuazione ideale d’un vissuto perduto nell'infanzia, il ricordo della
povertà del dopoguerra ed una semplicità esistenziale colma di libertà e sofferenza.
La sua pittura è imbevuta di Mediterraneo, quello vero della sua giovinezza,
quando anche i nostri paesi d’Abruzzo erano villaggi rurali allagati dal sole,
con chiese vecchie di secoli rattoppate con calce e mattoni fatti a mano.
Dunque il suo peregrinare in terre lontane è propaggine d’un sogno esistenziale.
Accanto ad un vissuto del genere, Mariani aggiunge grandi esperienze artistiche
vissute quasi inconsapevolmente, fuggendo da una sorta di repressione familiare
che gli impediva di esplodere. Spesso spariva, per tornare poi in Abruzzo,
terra ancora antica e sapida di memorie. Spesso il suo ritirarsi è voluto,
quasi genetico, un’aspirazione mistica alla solitudine. La sua pittura è molto
diversa da quella dei suoi contemporanei. Il suo è uno splendido informale
dai toni caldi, lucentemente poetici. Egli entra profondamente nella poetica
del muro. Le sue tele sono superfici memoriali, sfiorate dalla luce e dal
segno, tracce di un'esistenza incerta, tragicamente esistenziale. Gli aborigeni
australiani usavano la terra per dipingere sui muri delle caverne. Si sente
vicino alla loro esperienza, capisce che l'umanità ha avuto una cultura poetica
universalmente comune. Il suo impegno umano e politico origina da tale convinzione,
dal profondo rispetto per la grande armonia del creato di cui l'uomo è solo
un ingranaggio. Un artista con tale sensibilità non può condividere il consumismo
o l'omologazione esistenziale della società contemporanea, l'infelicità che
l'opulenza reca, la superficialità nell'analisi delle cose, dei sentimenti
perduti. Insomma, quest’opera ci rivela davvero molto di Marcello Mariani.
Ma è anche un altro grande dono di Gianni Berengo Gardin alla città, dopo
quello di alcuni anni fa con la stupenda monografia “L’Aquila”, edita
dall’Istituto Cinematografico “
ROSSO GORGONEO
di Raffaella Santulli
Imbevuto di simbologie ed arcani, il corallo è forse in assoluto il più potente catalizzatore di prodigi.
Elemento dotato di poteri magici e taumaturgici è lo specchio contro la malasorte ed il malocchio, antidoto infallibile contro la sterilità, efficacissima protezione contro grandine e siccità, contro topi ed insetti voraci.
Nato secondo il mito del sangue colato dalla testa recisa di Medusa, unica mortale delle tre Gorgoni –ad opera di Perseo- il rosso fiammante del corallo trionfa nel Rinascimento su coppe e vasellame prezioso, si apparenta alle reliquie ed ai mille bagliori degli smalti e dei cristalli di rocca; spicca al collo del Cristo di Piero della Francesca.
Dal Rinascimento al Barocco, a Torre del Greco passando da Trapani ove i banchi corallini, secolare appannaggio dei pescatori, si esaurirono verso la metà dell’Ottocento.
Da allora la lavorazione del preziosissimo filo rosso nodoso iniziò a fiorire in Campania, ancora oggi centro di produzione mondiale e sede di scuole dove vengono tramandate le tecniche ed i segreti ancestrali.
Non solo rifiuti.
ELEZIONI: VOTA IL FRANCOBOLLO CHE PIÙ TI PIACE!..
di Francesco Aronne
Quadro o tondo, a farmi prendere in giro non ci sto per alcuna ragione al mondo!...
Non ho mai udito questa filastrocca, e non credo che sia stata ascoltata in precedenza, certo è che, anche se completamente scevra da velleità elettorali, già mi sembra di sentirne i prevedibili e scontati commenti (ma anche la replicante e condivisa eco…) poco importa! Il sistema immunitario ben conosce questi microbi e batteri e le loro prevedibili venefiche attività.
E così dopo un altro aprile, e ad un solo aprile di distanza, un altro francobollo: stesso argomento, stessa rete, stesse esche, stessi pesci… immutate le considerazioni di allora sul fatto “che io debba essere governato…”, sullo “scandalo della politica” e quant’altro richiamato in quella occasione. Per non annoiare l’ardito lettore e per brevità non si riportano integrali le, anche se attualissime, citazioni che restano comunque consultabili nell’archivio della nostra testata. Rispetto ad allora, solo più grande lo scenario per le dimensioni nazionali dell’evento elettorale.
Spesso, alcuni catalizzatori di imprevedibili fibrillazioni sociali, quali i momenti elettorali, come Mosè e la sua verga, dividono in due il Mar Rosso dei nostri giorni e, attraverso il prevedibile, anche se ambiguo e labile spartiacque, danno ad ognuno l’apparente democratica possibilità (ma, a differenza del racconto biblico, senza finale salvezza), di scegliere se bagnarsi da una parte, bagnarsi dall’altra, non preoccuparsene affatto o stare altrove. Delle quattro vie ognuno è chiamato a scegliere la propria e quand’anche sordo al richiamo, sceglie comunque…. L’assennato dilemma: per cosa optare? Da quale sirena lasciarsi ammaliare?
Il lercio e sozzo teatrino di marionette e pupari della politica di certo non aiuta a sciogliere i legittimi dubbi e dare una risposta. Lo stesso ha messo in scena il ripugnante meglio di se nella legge elettorale con cui ci hanno chiamato a votare e con cui si voterà ancora. Questa legge, additata, a ragione, come responsabile dell’instabilità politica che tanti danni provoca al paese, è stata vituperata, insultata e denigrata da tutti, proprio tutti, compreso l’ideatore e promotore, salvo al momento di cambiarla: con il consueto e prevedibile voltafaccia dell’ultima ora, a cui la nazione è ormai abituata, mendaci ed influenti fautori, al contempo recenti e labili detrattori, la riscoprono, nella ghiotta contingenza, una buona legge che non si tocca! Almeno per ora… e l’almeno la dice lunga, lunga, a dir poco, quanto il naso di Pinocchio.
I governanti uscenti, dal loro canto, con diverse teste ben nascoste nelle buche dell’accidentato territorio afgano, non sono riusciti a modificarla, palesando la totale incapacità a rapportarsi ai problemi concreti del paese e giustificando ampiamente la prematura dipartita… Ogni pianto postumo è vano ed inascoltabile. Chi si candida a governare, se eletto, ha il dovere e l’obbligo di governare. Governare bene e non ad esclusivo proprio appannaggio. Anche con serie coalizioni, ma non con improvvisate accozzaglie. Lo starnazzare poliforcuto e di bottega di tante galline ha paralizzato l’attività del pollaio decretandone la miseranda fine.
Nelle concitate e farsesche fasi della caduta del governo e negli infruttuosi tentativi di rianimazione seguiti, l’orda parlamentare ha elargito con prodigalità ignominiosi ed indecenti spettacoli. Gli scranni della repubblica ridotti a panche di postriboli o di infime osterie dove i rappresentanti della nazione, scelti dalle segreterie dei partiti e ratificati dal popolo, si sono esibiti in risse da suburra tra avvinazzati onorevoli, con tanto di aggressioni e sputi. Bagarre da stadio. Una schiera di impudenti incivili che ha trasformato il parlamento in un bivacco di barbari. Nessun decoro, nessun pudore! Genuina e nostrana oscena rappresentazione della cancrena italica agli occhi del mondo.
E non ancora ebri e sazi i nostri futuri rappresentanti fanno a gara per annichilire lo sconcertato ed imbambolato elettore. Dopo sospetti fair-play la trivialità dilaga, si strappano i programmi elettorali dell’avversario dopo averne decretato la clonazione e somiglianza col proprio, strappando di fatti il proprio. Se è vero che i due programmi delle più quotate formazioni sono simili dovrebbero gioirne entrambi poiché comunque andranno le cose per il paese andrà bene. Ed invece no, con un infantilismo che esala aria di putrida menzogna marcia, lo scontro si nutre di puerili argomenti… Il sollazzo trova l’apice nel compiacimento di accondiscendenti sondaggisti. Si vendono frettolosamente pelli di orsi non ancora catturati.
Le elezioni rappresentano una ingorda, vorace e attesa occasione per alcuni ed un importante momento di partecipazione democratica per altri. Una lezione di democrazia affidata sempre più ad ignoranti ed indegni docenti. Partiti che confluiscono e si disciolgono senza alcun congresso e ritegno, evaporando in un ordine ineludibile proveniente dal leader della formazione ospitante a cui quello della formazione ospitata si prostra (chissà mai perché) scattante e a mo di zerbino. Leader che all’ultimo minuto con un colpo di spugna azzerano la propria storia, la propria tradizione, il proprio pluriurlato e pluririvendicato nelle piazze, senso di appartenenza ad una formazione politica. Quanti frustrati seguaci, oramai orfani politici che vivono il disagio di clamorosi abbandoni, o l’ancor più frustrante alternativa di ulteriori umiliazioni a far da pecoroni e, in cambio di nulla, con una tessera in tasca ed un'altra con il loro stesso nome in arrivo, seguire gli stolti lupi. Belve che fanno bella mostra delle loro miserie, imputando alla politica, il loro sacrificio per il Paese (ma chi glie lo ha chiesto?) trasformando ogni elezione in momento di mistificazione demagogica e populista finalizzata all’autoconservazione della casta.
Il malato in coma è proprio la democrazia e la morte della democrazia apre le porte ai totalitarismi. E’ sulla gravità di ciò che tutti (candidati compresi) siamo chiamati a riflettere. In momenti di particolare confusione, o di difficoltà di interpretazione e lettura di quanto accade, vado sempre a cercare lumi e conforto tra le righe di quanti, ideologicamente vicini o lontani, che con la loro opera hanno rischiarato l’evoluzione del pensiero umano. Cerco così nella distanza temporale una “saggezza” che deriva dal non essere trascinati nella mischia contingente dell’arena e nel non essere catturati dal vorticoso crescendo degli ultimi giorni della campagna elettorale. Particolarmente attuale trovo una autore (non sospetto!) Karl Popper ed un suo testo pubblicato nel 1945 con tante ferite ancora schiuse: La società aperta ed i suoi nemici . In questo scritto l’autore indaga sulle radici del totalitarismo ed individua grandi bersagli nel nazismo, nel comunismo, nelle teorie della razza e nel pensiero di Marx, offrendoci al contempo interessanti spunti di riflessione.
Popper, in modo concreto, va oltre la attuale questione che tutti, del resto, si pongono da sempre: «chi deve governare?» (e che ha provocato risposte definite sterili, tipo: i migliori, i filosofi, un sovrano illuminato, il popolo, la razza superiore) superandola con un'altra: «Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi ed incompetenti facciano troppo danno?». Domanda inevitabile in un, largamente accettato, contesto di ineluttabile necessità di riforme istituzionali. Ogni risposta che presuppone governanti buoni ed onesti è falsa! Si rende pertanto necessario un controllo istituzionale dei governanti. Solo attuandolo risolveremo il paradosso delle democrazie, ovvero il paradosso di un popolo che sceglie la tirannide, come è accaduto in Germania con l'avvento di Hitler. Aggiunge: «Il cosiddetto paradosso della libertà è l’argomento per cui la libertà, nel senso dell’assenza di qualsiasi controllo restrittivo, deve portare a un’enorme restrizione perché rende i prepotenti liberi di schiavizzare i mansueti.»
Un’altra sua considerazione che trovo di pregnante attualità nel contesto o meglio bailamme politico nazionale, il cui sostegno ai candidati è contrassegnato più da motivazioni di tipo sportivo che non politico-ideologiche, ma che deve indurre a profonde riflessioni è «Il potere politico può essere decisivo ai fini della protezione economica. Il potere politico e il suo controllo sono tutto. Al potere economico non si deve permettere di dominare il potere politico; se necessario esso deve essere combattuto dal potere politico e ricondotto sotto il suo controllo.»
Popper tracciò una linea di demarcazione tra totalitarismo e libertà che si espresse in una netta distinzione tra dittatura e democrazia. Scriveva in proposito:
«1. La democrazia non può compiutamente
caratterizzarsi solo come governo della maggioranza, benché l'istituzione
delle elezioni generali sia della massima importanza. Infatti una maggioranza
può governare in maniera tirannica (la maggioranza di coloro che hanno una
statura inferiore a
2. Dobbiamo distinguere soltanto fra due forme di governo, cioè quello che
possiede istituzioni di questo genere e tutti gli altri; vale a dire fra democrazia
e tirannide.
3. Una costituzione democratica consistente deve escludere soltanto un tipo
di cambiamento che mette in pericolo il suo carattere democratico.
4. In una democrazia, l'integrale protezione delle minoranze non deve estendersi
a coloro che violano la legge e specialmente a coloro che incitano gli altri
al rovesciamento violento della democrazia.
5. Una linea politica volta all'instaurazione di istituzioni intese alla salvaguardia
della democrazia deve sempre operare in base al presupposto che ci possano
essere tendenze anti-democratiche latenti sia tra i governati che tra i governanti.
6. Se la democrazia è distrutta, tutti i diritti saranno distrutti; anche
se fossero mantenuti certi vantaggi economici goduti dai governati, essi lo
avrebbero solo sulla base della rassegnazione.
7. La democrazia offre un prezioso campo di battaglia per qualsiasi riforma
ragionevole dato che essa permette l'attuazione di riforme senza violenza.
Ma se la prevenzione della democrazia non diventa la preoccupazione preminente
in ogni battaglia particolare condotta su questo campo di battaglia, le tendenze
anti-democratiche latenti che sono sempre presenti ( e che fanno appello a
coloro che soffrono sotto l'effetto stressante della società...) possono provocare
il crollo della democrazia. Se la comprensione di questi principi non è ancora
sufficientemente sviluppata, bisogna promuoverla. La linea politica opposta
può riuscire fatale; essa può comportare la perdita della battaglia più importante,
che è la battaglia per la stessa democrazia.»
Dopo questa lunga divagazione che appare come una bussola rispetto alla babele degli inattendibili ed incomprensibili attuali linguaggi della politica resta la decisione da prendere per le prossime elezioni. Il voto è comunque un premio o l’apertura di una linea di credito. Di fronte a questa considerazione, ed in questo contesto politico, non vedo condizioni premiali da riconoscere a chi comunque ha governato, né aperture di linee di credito da effettuare a chi vuole prenderne il posto. Consapevole di ciò che questo comporta, non intendo comunque cadere nella trappola e dare un voto contro, o scegliere il meno peggio. Non con il mio voto, quindi!… Una democrazia effettiva dovrebbe vedere rappresentati in parlamento tutti i cittadini aventi diritto di voto, anche quelli che non scelgono questo o quel rappresentante, dandone evidenza della consistenza numerica con l’assegnazione di seggi vuoti con gli stessi criteri con cui si assegnano i seggi agli eletti. Di ciò ne beneficerebbero tutti i cittadini con ingenti risparmi sugli stipendi di tanti scaldapoltrone…
Per chiudere altri due pensieri di Karl Popper (il primo preso dal testo citato, il secondo preso da Miseria dello storicismo) finalizzati ad un più dignitoso futuro:
Il sacrificio può avere un alto, e anche superiore, significato quando è fatto in maniera anonima. La nostra educazione etica deve seguirne l’esempio. Devono insegnarci a fare il nostro lavoro; a fare il nostro sacrificio per amore di questo lavoro, e non per conseguire lode o evitare il biasimo. (Il fatto che noi tutti abbiamo bisogno di qualche incoraggiamento, speranza, lode e anche biasimo e tutt’altra faccenda). Noi dobbiamo cercare la nostra giustificazione nel nostro lavoro, in ciò che facciamo noi stessi e non in un fittizio ‘senso della storia’.
Il pensatore alla moda è per lo più prigioniero del proprio conformismo, mentre io considero la libertà – la libertà politica così come il pensiero libero e autonomo – uno dei principali valori che la vita può offrirci, se non il principale. Per questo motivo, per molti anni ho cercato di contestare le mode intellettuali nella scienza, e ancor più nella filosofia.
[2] Villià è un termine derivato da villeggiare ed ha lo stesso senso di stare in villa per riposarsi, svagarsi. La fanciulla amata potrà cosi rifarsi delle clausure che un antico sistema educativo le aveva imposte
[3] Zappili è una variate della zappa di cui è meno pesante. Insieme al zappilèddru serve per lavori di fino.
[4] Elemento sottinteso
[5] Da cui clausura
[7] Voce familiare ed affettuosa usata al posto di madre
[8] Rapimento e fuga seguito dal matrimonio riparatore. Il vocabolo è di origine siciliana.
[9] Mio Guida alla scoperta ecc, di prossima pubblicazione
[10] Vedi il mio Mormanno un paese…nel mondo Seconda edizione Phasar Firenze, anno 2007
[11] Nome di origine latina collegato al culto del dio Apollo forse derivato dall’etrusco Apluni casato di una gens gentilis
[12] Vedi vita ed opere in Uomini illustri di Mormanno, ed. Phasar Firenze, anno 2000, pag.10-15
[13] Vedi E. Pandolfi, A. Cavaliere e V. Minervini,
[14] Che lascia a Mormanno due ovali nella stessa chiesa del Suffragio che data , 1777, e firma
[15] Genesio si spinse a Paola
FARONOTIZIE.IT - Anno III - n° 24, Aprile 2008
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