FARONOTIZIE.IT  - Anno III - n° 21, Gennaio 2008

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

 

CAPODANNO E CAPO DI MESE, FAMMI…

Editoriale del Direttore  Giorgio Rinaldi

Autorevoli giornali inglesi e statunitensi hanno evidenziato nei giorni scorsi il declino dell’Italia da paese più invidiato al mondo a quello oramai abitato da gente triste e povera.

Nulla di meno vero!

In Italia, è vero, c’è tanta gente preoccupatissima del proprio presente e del proprio futuro, che negli ultimi anni ha visto i propri redditi falcidiati nel loro valore.

Ma, è altrettanto vero, c’è tanta e tanta gente che vive allegramente la vita e se la gode alla faccia di chi sta male.

Si, perché chi da un lato deve fare i conti con stipendi, pensioni e simili predeterminati non riesce più a far quadrare i conti, dall’altro ricchezze finanziarie, immobiliari, commerciali e speculative in genere sono aumentate a dismisura.

Tanti, per atavica abitudine ad essere servi di nazioni straniere o signorotti locali, sono sempre pronti a fare i giullari del potente di turno e saziarsi delle briciole che cascano giù dal tavolo della mensa del padrone:    nell’Italia del sud una volta (?) le pensioni di invalidità erano i classici ossi dati ai lacchè, nel nord del Paese, invece, una volta (?) contributi a pioggia e procurata cecità fiscale….

Tanti altri, però, non ci stanno, e alle baggianate politiche che ci vengono quotidianamente propinate, rispondono con serietà, lavoro, abnegazione.

Se l’Italia dovesse risollevarsi con le ricette di quei politici da operetta e dei cosiddetti economisti che la sera affollano i salotti televisivi, staremmo davvero freschi…!

Per fortuna c’è un’economia sana, una classe operaia (meno male che ancora esiste, come il sipario che si è alzato sulla tragedia di Torino alla Thyssen ha dimostrato) portatrice di grandi valori di civiltà e una imprenditoria capace e caparbia.

Accanto, però, vivacchiano vecchi arnesi del famigerato capitalismo straccione che continuano ad operare nell’ottica della furbizia e del parassitismo.

Con ciò dando corda a quei giornalisti stranieri che non perdono l’occasione nel magnificare il proprio paese a danno degli  altri.

Tra le tante “volpi”, prendiamo la Telecom,  grande azienda di straordinaria importanza strategica nell’economia del Paese.

In queste settimane ha fatto partire una campagna per la riconquista dei clienti passati ad altri operatori telefonici.

Ti contattano, ti dicono che hanno una proposta che tu non potrai rifiutare, inconsapevolmente facendo il verso ad una celebre frase del film di Coppola “Il Padrino”.

L’incaricato che ti fa visita ti esalta le condizioni contrattuali; tu per fortuna lo ascolti con la necessaria e dovuta diffidenza, riservata di solito anche ai rapporti che intrattieni con banche e assicurazioni.

Poi, gli chiedi di visionare il cartaceo dell’offerta: scopri così che da qualche parte c’è un microscopico asterisco  che ti rimanda all’invisibile righino ove trovi una scritta e delle sigle  indecifrabili.

Tu chiedi spiegazioni, e l’addetto, come scoperto a rubarti la marmellata, ti dice che è la sigla del canone telecom che si va ad aggiungere all’offerta…, che –così- , facendoti pagare più di quel che paghi al concorrente, davvero è veramente da… “non rifiutare”: dovresti solo aggiungere qualche martellata sui denti al genio che l’ha concepita per ritenerla davvero perfetta.

E’ questo il sistema commerciale con il quale deve operare una grande azienda?

E’, piuttosto, il modo di vendere dei “magliari”, così magnificamente immortalati nell’omonimo film  interpretato da Sordi.

E, che dire degli “autovelox” ?

Amministratori incapaci di far quadrare i conti del bilancio  che si trovano ad avere 30 cmq di territorio comunale su una grande arteria, che ti fanno?

Ti mettono improbabili ed impossibili limiti di velocità e un autovelox che come un gabelliere ti assicura una sonora alleggerita al portafoglio.

E, se proprio non possono sistemare un autovelox, allora eccoti un semaforo che ha il “giallo” che è un vero e proprio “giallo” quanto al mistero dei tempi di frequenza nello spegnimento.

E’ così che si è buoni amministratori ?

Tanti e tanti altri esempi non mancano di certo a dare la visione di un paese che fa di tutto per intristire i suoi abitanti.

E’ compito di ciascuno di noi liberarci dall’ossessiva presenza di furbetti ed incapaci e far si che quella Italia che oggi tira la cinghia riprenda a sorridere.

Con l’arrivo dell’anno nuovo, ai buoni propositi si aggiungono di solito anche le speranze, il cui auspicio di buona realizzazione viene accompagnato dalla famosa “strenna”.

Per questo 2008, come strenna di capodanno, mi piacerebbe:

-          che i dirigenti Telecom che hanno ideato e varato la campagna per la riconquista della clientela perduta (definitivamente…!) venissero     impiegati nella coltivazione della canna da zucchero in Amazzonia

      e nella rivendita della stessa ai cacciatori di teste delle foreste

      venezuelane, notoriamente amanti delle postille contrattuali;

-          che gli amministratori dei comuni che pensano di risanare le casse con il codice della strada venissero utilizzati come “asfaltisti” per rifare tutte le buche nelle strade dei loro comuni, con l’utilizzo di un “tardovelox” a misurare la velocità di esecuzione dell’opera e relativo pagamento di un euro per ogni minuto di ritardo nel tempo preventivato.

-          che quei leghisti che praticano l’odio razziale e impediscono l’esercizio del credo religioso a chi ad altre divinità è votato, venissero finalmente condannati all’esilio perpetuo in uno di quei paesi dove tanto amano le vignette religiose, specialmente se stampate sulla maglietta della salute, tanto in voga tra chi parla solo di “sghei”.

Lo so che chiedo troppo.

Ma, per fortuna, in questo Paese ancora si può sognare gratis.

BOLLICINE A MEZZANOTTE

di Raffaella Santulli

Una storia antica, nobile e avventurosa quella del brindisi.

Connota l’usanza del bere alla salute di qualcuno o di qualcosa con intenti beneauguranti.

Se  ne parla nella Bibbia, ne sono traboccanti i versi di Anacreonte e di Alceo.

Del resto, nella Grecia antica i brindisi erano di prammatica, tanto che i Romani battezzarono quell’abitudine “bere alla greca”.

Brindavano anche i primi Cristiani: Sant’Ambrogio attesta che era costume alzare i calici per onorare la memoria dei martiri e dei santi.

L’usanza si diffuse al Nord, in Francia ed in Germania soprattutto.

In Italia, nel ‘500, il brindisi assunse le forme di un’arte, perché all’atto di bere si abbinava la composizione di un inno di circostanza.

Capodanno, che magnifica occasione, l’unica in cui il tappo possa schioccare e volare liberamente !

Le bottiglie di tutto il mondo sono state in queste settimane passate  in gran fermento, pronte ad esprimere sogni e speranze allo scoccare della mezzanotte di San Silvestro, ad esplodere un piacere pieno di allegria, talvolta convenzionale e difficile da condividere.

Tutti, o quasi, abbiamo accolto il nuovo anno con un brindisi glorioso ed indimenticabile.

Il primo giorno dell’anno, un nuovo giorno.


IL SIGNOR DODICIPENNE

di Miriana Vadalà

Nella bolgia mattutina delle 8.30, quando tutti spingono tutti appiccicati come gechi sulle porte della metropolitana, per accaparrarsi un posto a sedere, quasi fossero rimasti in piedi negli ultimi tre giorni, il signor Dodicipenne se ne stava appollaiato al suo posto, con il fedele mazzo di giornali, la borsettina di tela beige e uno zainetto nero. Occupava il posto definito “del lettore”, quello che in realtà era riservato alle persone diversamente abili e accanto al quale era possibile lasciare la carrozzina senza ostruire alcun passaggio, ma che veniva spesso occupato da coloro i quali amano la lettura. Questi ultimi sedendosi lì presupponevano di non essere disturbati da persone che per scendere potessero chiedere “Scusi” “Permesso” “Posso”, distraendoli così dalle loro articolate astrazioni. Con molta tranquillità se ne stava lì seduto e leggeva assorto il quotidiano.

Il signor Dodicipenne era il soprannome che gli avevano affibbiato gli studenti di Medicina, per via delle dodici penne che portava sul taschino della camicia. Di diverso colore, di marca differente, ma tutte allineate una accanto all’altra, pronte ad essere usate per ogni evenienza. Laszlo Januk, di origine ungherese, era nato durante la Guerra Fredda a Budapest e aveva vissuto nell’Europa dell’Est per parecchi anni, un po’ da vagabondo, un po’ da musicista d’occasione e poi dopo la caduta del Muro di Berlino, era arrivato nell’Europa dell’Ovest e vi era rimasto.

Era un uomo taciturno e molto riservato. Non parlava mai, non disturbava nessuno, se ne stava sempre solo, assorto in chissà quali pensieri e distratto da chissà quali preoccupazioni. Aveva vissuto fino allora una vita sufficiente, bastevole a guadagnarsi da vivere e a permettersi qualche extra. Non era abituato ai lussi, forse non li aveva mai conosciuti e conseguentemente mai rimpianti. Aveva organizzato tutti i suoi averi nella stanzetta presa in affitto in una casa per studenti, nella quale in realtà non abitavano solo studenti, ma anche altri che per tali si spacciavano. Fuori corso, disoccupati, immigrati in attesa di rinnovare il permesso di soggiorno, coloro i quali si potevano accontentare della precarietà di un alloggio limitante, per quei pochi mesi che li separavano dalla prossima e sperata “migliore occupazione”.

Benché non avesse molti metri a sua disposizione, Laszlo era riuscito a sistemare ogni cosa in un suo spazio definito, il suo magro guardaroba, le quattro paia di scarpe, le poche stoviglie ed aveva perfino sfruttato gli 85 cm di distanza tra la parete del divano-letto e il lavabo, per accatastare

pile di libri dei più disparati argomenti. Manuali di botanica, sonate di Brahms, vocabolari bilingue, libri di letteratura, semplici romanzi.

A vederlo nessuno ci avrebbe creduto, eppure Laszlo parlava quattro lingue e suonava benissimo il violino. Una foto ormai sbiadita infilata nell’angolo sinistro della cornice di un quadro, raffigurava lui e un altro ragazzo sul ponte Carlo a Praga, che col viso spensierato dei ventenni, davanti a numerosi e incuriositi ascoltatori, come degli orchestrali pronti per l’inizio di un concerto, suonavano il violino. Tempi andati. Riguardo alle lingue, l’ungherese era la sua lingua madre, ed essendo di matrice ugro-finnica, gli aveva per così dire spianato la strada per impararne

rapidamente delle altre. Il russo e il tedesco, vuoi per un motivo, vuoi per un altro, fra la scuola e il Sistema, li aveva imparati durante l’adolescenza. L’unica lingua che aveva imparato da adulto e con la quale aveva ancora qualche piccola difficoltà era l’inglese. Ad aiutarlo ci pensava John, londinese, 23 anni, che abitava nel suo stesso piano. Due volte la settimana si incontravano in cucina la sera e parlavano, chiacchieravano, John rallentava il suo dire e ad ogni piccolo errore che Laszlo faceva, un past tense, un plurale, un verbo ausiliare, John doveva correggerlo. Era un metodo efficace, come si usa con i bambini piccoli, che poi quando sono grandi non ripetono più gli stessi errori. Laszlo non si vergognava affatto di tutto ció. Era fermamente convinto che se questo metodo funzionava con i bambini, doveva funzionare ugualmente con gli adulti e se durante l’ora di lezione qualcuno degli altri che abitavano nello stesso piano entrava per caso in cucina, Laszlo soprassedeva, non ascoltava e continuava a parlare con John concentrandosi attentamente come fosse un soliloquio.

Alla Facoltà di Medicina, dove lavorava come assistente bibliotecario, molti lo deridevano. Il suo compito era piuttosto modesto: riportare i libri al loro posto negli enormi scaffali dopo che gli interessati lettori come richiesto dagli avvisi, li avessero lasciati sui banchi. Con molta pazienza ad intervalli di un’ora ciascuno, Laszlo cominciava il giro dei banchi. Dato che era uno che sui libri aveva trascorso molto tempo durante la sua vita (anche se nessuno di credeva), non solo li raccoglieva e li accatastava, ma prima di controllare l’etichetta di catalogazione, dava sempre un’occhiata ai risvolti di copertina, all’anno di edizione, e a quante ristampe erano state fatte. Se un libro era stato ristampato molte volte, aveva per lui un valore maggiore, perché aveva meritato l’attenzione di più lettori, presumibilmente non tutti esperti in materia. 

Gli studenti lo deridevano soprattutto per via delle dodici penne che portava sul taschino, non immaginavano affatto che Laszlo fosse uno che aveva studiato, che aveva una certa cultura e che se solo avesse voluto, avrebbe potuto redarguirli in malo modo. Ma non aveva voglia di ribattere, Laszlo, sapeva di non essere uno che dimostra autorità e temeva che se

avesse provato a rispondere per le rime, gli studenti avrebbero accentuato il loro increscioso rito beffardo.

Una volta il sig. Dodicipenne, stanco della sua vita di sufficienza, stanco di essere sempre quello che per evitare si tiene tutto dentro, si prese una rivincita che lo rivalutò tantissimo e trasformò radicalmente l’opinione di tutti quelli che lo deridevano e non riponevano in lui alcuna fiducia.

Era il mese di Dicembre e com’e’ uso in Germania, i mercatini di Natale (Weihnachtsmärkte) occupavano le piazze di città e paesini. Donne piene di pacchi che si affrettavano a comprare altra roba sperando di non dimenticare nessuno nella lista dei regali di Natale; uomini enormi che sorseggiavano tazze di Glühwein ai tavolini delle piazzette; bambini biondissimi che scorrazzavano coi giocattoli nuovi, incuranti dell´aria gelida che li avvolgeva. In questa folla pomeridiana Laszlo e John, cercando di scansare bambini in corsa e pacchi smarriti, si dirigevano di fretta alla tombolata di Natale, organizzata dalla Facoltà, che avrebbe avuto luogo di lì a poco, nel centralissimo Palazzo Municipale. Il giovane John era riuscito dopo vari tentativi a convincere Laszlo a prendere parte alla tombolata, che sarebbe stata seguita dal Quizzone, un sorta di Trivial Pursuit organizzato in inglese per accontentare tutti gli stranieri che lavoravano a Medicina. E Laszlo, tolti i sandali e indossata la camicia blu,

non aveva esitato. Dopo due ore dall’inizio la tombolata si era conclusa, per la felicità dei vincenti che portavano a casa premi tipicamente natalizi, un cestino pieno di frutta secca, un libro, un vassoio, un Babbo Natale di cioccolata, una tazza da tè; e dopo una pausa di quindici minuti era cominciato il Quizzone.

Le prime domande erano state di carattere per così dire innocuo, capitali di Stato, traduzioni di verbi, frutta locale, cibi esotici. Arrivati alle domande di storia, il pubblico aveva cominciato a venir meno, soprattutto i più giovani, che per un motivo o per un altro, non davano alla storia l’importanza che in realtà essa meritava. Così d’improvviso si era avvertita un’aria di esitazione e di dubbio. Alla domanda “cosa sanciva la pace di Carlowitz” un silenzio generale era calato in sala. Nessuno conosceva la risposta e nessuno osava azzardare una spiegazione immediata, piú o meno plausibile. Fu proprio in quel momento che il sig. Dodicipenne si prese di coraggio, si alzò in piedi, e disse ad alta voce: “La pace di Carlowitz fu firmata nel 1699 a Sremski Karlovci (una città che si trova nell’attuale Serbia) e mise fine alla guerra del 1683–1697 tra l'impero austriaco e quello ottomano, dal quale la parte ottomana usciva sconfitta. Con questa pace iniziò il declino dell'impero Ottomano in Europa”.

Tutti i presenti rimasero a bocca aperta dopo aver sentito Laszlo pronunciare quelle parole, in perfetto in inglese, senza alcuna incertezza, sicuro di sé e incurante del giudizio altrui. Gli studenti di Medicina, che

fino ad allora si erano presi gioco di lui, si alzarono in piedi e gli batterono le mani, seguiti da tutto il pubblico, ancora stupito da cotanta sapienza e impressionato dal sapere di quell’uomo. John gli offrì tre birre, perché grazie a questa pastiglia di cultura, la loro squadra aveva vinto il montepremi, mettendo fine ad una manche che era durata oltre un’ora e mezza. Nessuno più da quel momento in poi osò prendersi gioco di Laszlo e il signor Dodicipenne, che fino allora era stato considerato un perdente, un uomo minore, adesso veniva rispettato da tutti e da tutti considerato un vecchio saggio da cui prendere esempio.

LO SPEZZATINO EUROPEO.

Storia di un viaggio in treno, dal Balaton alla laguna

di Giorgio Rinaldi

La stazione ferroviaria di Kaleti, una delle quattro di Budapest, è rimasta tal quale a quando vedeva i treni partire carichi di truppe per questo o quel fronte, per una delle grandi guerre e piccole guerriglie che hanno infiammato l’Europa nel secolo scorso.

Oggi, forse, è stata solo privata dei simboli del passato regime.

Nulla di più.

Alle 16,30 è annunciato il treno per Venezia, con la pomposità e l’emozione di un tempo, nonostante l’Occidente non susciti più alcuna trepidazione.

Due giocatori di scacchi danno le spalle ai binari e con le scacchiere appoggiate su un “respingente” ferroviario in cemento armato aspettano –pazienti- che qualcuno voglia cimentarsi con loro.

Alle 17 il treno si muove, alla volta del lago Balaton, il mare ungherese.

Krisztina, la mia spumeggiante traduttrice ungherese, mi regala un sorriso e con la mano mi fa cenno di buon viaggio.

La responsabile della carrozza-letti ha l’aria preoccupata, sa che gli orari di attraversamento delle frontiere sono coincidenti con le ore deputate al sonno.

Di più, è visibilmente impaurita da possibili incursioni di delinquenti pronti a fare razzia di ogni bene ferroviario e di quelli dei passeggeri cullati dalle braccia di Morfeo.

L’invito è quello di azionare tutti i catenacci della porta, di barricarsi nello scompartimento, di guardare dallo spioncino prima di aprire, assicurarsi che siano doganieri, poliziotti e simili.

Come se un ladro non potesse travestirsi….

Alle 22 il treno si ferma, su un binario morto, in una landa desolata.

Dalle scritte su un deprimente edificio si capisce che è ancora territorio ungherese.

Salgono sul treno otto guardie doganali, hanno divise di colore e di foggia diverse l’una dalle altre.

Il primo poliziotto è ungherese, cerca sigarette e altra merce che evidentemente in Ungheria costa meno che altrove.

Poi è la volta delle guardie di frontiera croate.

Alla vista della mia carta di identità elettronica fanno finta di essere degli esperti consumati.

I loro occhi, però, tradiscono l’ignoranza di quel pezzetto di plastica con la mia foto.

Rigirano fra le mani la tesserina, fanno finta di guardarla e me la restituiscono ringraziando.

Sembra che sia passato un milione di anni da quando, trent’anni fa, rimasi bloccato per ore in frontiera con Nicola –che da quella volta, per lo spavento, ha cominciato a perdere i capelli-  perché cercavano il “libro verde” (libretto di circolazione dell’auto) che in Italia  era stato sostituito da un più economico foglietto di carta incolore.

Arrivano altre divise, non capisco la loro appartenenza.

Uno di questi soldatini colorati insiste per vedere il passaporto perché la tessera plastificata non lo convince.

Per puro caso ho il passaporto con me, ma faccio finta di non averlo.

Mi calo nella parte di Aldo, il comico del trio con Giovanni e Giacomo, quando in uno sketc fa credere di non trovare il biglietto dell’autobus e il controllore è pronto a fargli la multa perché convinto che non ce l’abbia.

Non appena il doganiere è certo che io il passaporto non l’abbia davvero ed è pronto a farmi scendere dal treno nel cuore della notte nel posto più buio ed inospitale d’Europa, gli esibisco il documento.

Ritenta con qualche domanda (come si chiama?) sperando di mettermi in difficoltà.

E’ un pietoso tentativo che immediatamente rintuzzo per punire la sua arroganza di qualche secondo prima.

Salgono altre divise.

Altre domande inutili.

Il treno riparte, due ore dopo arriviamo a Zagabria.

Piove.

Il treno è invaso da numerosi viaggiatori croati che, per il vociare e per la mancanza di rispetto di chi dorme, battono qualsiasi comitiva di italiani in trasferta calcistica.

Passano pochi minuti e arriva un altro controllo: croati e sloveni.

Poi è la volta dei soli sloveni.

Lunga pausa, il sonno prende il sopravvento.

Ecco di nuovo i controlli doganali sloveni.

Infine, gli italiani.

Ore 7,00, arrivo a Mestre.

Non ho chiuso occhio tutta la notte.

A cosa mi sarà mai servito prendere il vagone-letto?

A che serve un vagone-letto che ha le porte d’accesso chiuse a chiave e un controllore sempre allerta che dovrebbe e potrebbe custodire i documenti di tutti dando l’opportunità ai doganieri di poter selezionare le verifiche, senza svegliare tutti i passeggeri solo per un rapido e banale controllo su documenti di cui, come nel mio caso, verosimilmente ignorano anche l’esistenza?

A che serve un grande Europa Unita se gli aspiranti e i già membri non si fidano tra di loro neanche per un (inutile) controllo doganale?

Speriamo solo che non si passi dallo spezzatino al…bollito!


UNA BREVE INTRODUZIONE

di Annamaria Cesari

Ti svegli di notte come soffocato dalla sete di qualcosa di più naturale, di meno costruito, di meno fittizio della “realtà” che ci circonda – se di realtà poi trattasi ….  Insomma con la voglia di “toccare” la terra…di staccare da tutto ciò che ci fa apparire ma non essere… C’era voglia di sentire, di respirare aria sostenuta da un vento più forte, un vento capace di generare mutamenti frequenti, che non ti permette di perdere tempo o di non approfittare di quello che ti si presenta davanti…

Sud Africa – Cape Town, una terra davvero bizzarra… uno paesaggio che in sé stesso ne racchiude tantissimi, tra i più disparati, come ad essere in un caleidoscopio di scenari. Non fai in tempo ad abituarti alla terra rossa alternata da verdissimi cespugli, che già sei immerso in boscaglie stracolme di altissimi pini, e a poche centinaia di metri l’oceano e le sue onde costanti che si infrangono sulle spiagge bianche, ben lontane dall’immagine delle nostre coste affollate…  il paragone quasi ti fa innervosire…

Stando sulla costa l’aria è davvero diversa, è come colma di un qualche ingrediente familiare ma dimenticato, di un qualcosa che la rende “carica” … ma non si può descriverlo a parole… lo devi sentire…

Osservi il mare, pensi, e diventi un tutto con quelle nuvole che a causa del vento costante scivolano velocissime, vieni distratto da una foca che passa in perlustrazione in acqua, a bordo riva, e ti guarda come per dire “ohi ti stai svegliando?”, ma il continuo infrangersi delle onde ti fa

ri-immergere nel paesaggio, ed è li che ti stacchi con ciò che sei.

Cosi ho risposto quando mi è stato chiesto “perché Cape Town ?”

A 15 minuti dalle spiagge il centro, la “city bowl” (conca metropolitana), un perfetto melange tra vecchio e nuovo, tra ricco e povero, tra luce e buio, tra libertà e impedimenti. Ad ogni angolo della città  spuntano cantieri. Tutto è in evoluzione. Edifici di recente costruzione, completamente rivestiti di specchi, emergono nel contrasto immobiliare e danno un senso di sicurezza, come a dire: “questo paese sta emergendo”. Persone di ogni provenienza creano un notevole arcobaleno di etnie che, benché visibilmente differenti tra loro, appaiono come un’unica popolazione ben amalgamata.

A 5 minuti dal centro, poi, si erge Table Mountain, una delle montagne di più antica formazione. La geometria perfettamente lineare della vetta, la quale è appunto piatta come una tavola, ha originato tra le più disparte leggende. Per raggiungere la cima di

Table Mountain i più sportivi scelgono uno tra i vari percorsi a piedi, gli altri “comuni mortali”, che sembrano decisamente essere la maggior parte di coloro

che vogliono raggiungerne la vetta, utilizzano la cabinovia.

Le nuvole quando raggiungono la cima della montagna sembra che vi si accomodino amicalmente, fasciandola come se fossero una coperta, sembra ne diventino parte. I sudafricani chiamano questo fenomeno “la Tovaglia”… si la table mountain ha la tovaglia fatta di nuvole…

A pochi chilometri dal centro inizia la realtà dell’Africa…le immense distese di terre, la natura vera, quella non mitigata dall’uomo, e le township cioè gli insediamenti in cui vivono gran parte dei sudafricani: agglomerati di baracche in legno o plastica, costruite con materiali di fortuna l’una affiancata all’altra, in situazioni igieniche tutt’altro che descrivibili.

All’interno delle Township vengono organizzati tour che permettono ai turisti, attraverso la scusante della finalità umanitaria (distribuzione di generi alimentari), di vedere come si svolge le quotidianità al suo interno. Personalmente lo trovo aberrante pertanto ben poco potrò riportare quanto a questa “escursione”.

“La vita” in Cape Town è tra la più varia. Anche in questo ambito coesistono, nello stesso “ecosistema”, realtà opposte: l’ambiente perfetto per la famiglia tradizionale – la realtà universitaria e la vita notturna dei club - lo spazio per gli sportivi amanti di sport acquatici tra i più disparati - la frenetica realtà lavorativa (equiparabile a quella di una New York) presente parallelamente all’inenarrabile pacatezza della vita lavorativa dei paesi del sud del mondo – la realtà per le coppie di fatto (omosessuali e non). Una particolarità: dal 14 novembre 2006 il parlamento sudafricano ha approvato la legge sul matrimonio omosessuale, rendendo il sud africa il primo paese africano a legalizzare l’unione tra persone del medesimo sesso.

Le infinite sfaccettature che Kaapstad presenta (così Cape Town era chiamata inizialmente) sono l’indice di una società polietnica che, nonostante gli evidenti dislivelli economici e sociali, sta imparando ad integrarsi.

Non vorrei essere il “gufaccio della situazione”, ma l’apartheid sembra veramente essere solo un ricordo del passato, un capitolo di storia ormai superato.

Ciò che per ora posso fermamente dire di avere captato è  che la proiezione di Cape Town nei prossimi tempi, in particolare in vista dei mondiali di calcio del 2010, non potrà che essere tra le più propositive e propulsive.

L’energia sta cambiando in questo paese… 

MEMORIE

di Luigi Paternostro

Scelti tra altri innumerevoli episodi di vita i quattro riportati, a prima vista diversi, hanno in comune quel profondo senso del dovere che ha caratterizzato tutto un mondo, oggi sostituito da idoli mostruosi ed arroganti. 

Le uova. Storia di famiglia.

Siamo nel gennaio del 1935.

Mio padre, non trovando lavoro si recò nella Spagna ove viveva come emigrato mio nonno materno. Abitava in Tarrasa, Plaza Cruz, n° 25. Era un mesticatore fornito di  vari prodotti  tra cui molti da  lui stesso e dallo zio Amedeo fabbricati in un taller [1] che faceva pure da retrobottega dal quale si accedeva poi ad un’ampia cucina che immetteva in un patio soleggiato.

Più sopra, su due piani, vi erano le camere da letto. Qui era vissuta mia madre e qui aveva sognato.

Il ragioniere Paternostro, anche in virtù della sua conoscenza della lingua, fu assunto in prova  al consolato francese di Barcellona. Tutto il ritrovato e agognato benessere svanì dopo pochi mesi a causa dello scoppio della guerra civile.

I falangisti perseguitavano gli italiani, considerati nemici. A loro volta i franchisti, appoggiati dai fascisti, cercavano tra gli italiani gli oppositori  al Generalissimo.

Una mattina, lo ricordo come un sogno, mio nonno fu letteralmente trascinato via dal suo negozio e ferocemente bastonato in calle Cremat da un gruppo di facinorosi.

Il clima d’incertezza e d’insicurezza derivante dalla lotta delle fazioni in campo, consigliò, luglio del 1936, a ritornare in Italia.

Tale rientro fu una vera avventura. La  nostra famiglia, eravamo in cinque, trovò posto, su un mercantile francese diretto a Napoli che sostò tre settimane nel porto di Marsiglia.

Ci sistemarono nella stiva. Come in sogno rivedo grossi colli sospesi a robusti canapi che salivano e scendevano accompagnati da voci ignote e da persone che si muovevano come ombre. Già da bambino, avevo  appena compiuto cinque anni, conobbi fame, miseria e disagi.

Rientrammo a Mormanno più poveri e afflitti di quando eravamo partiti.

Non so proprio dove mio padre attingesse forza e coraggio per iniziare un nuovo percorso di vita. Un impiego privato [2] fu una vera salvezza.

Erano anni difficili [3] .         

Nel 1938, il signor Ferdinando Paternostro vinse il concorso per il posto di ragioniere comunale a Mormanno.

Il 10 giugno del 1940 scoppiò la guerra [4] e la nuova situazione costrinse la mia famiglia (quattro figli, due zii ed un nonno) a durissime economie e sacrifici.

La mamma ci confezionava, utilizzando vecchie coperte, scarpe di tela con suole di cartone, berretti, pantaloni, giacche e perfino le cartelle con cui andavamo a scuola.

Erano i tempi della tessera annonaria [5] .

Il nonno e lo zio paterno avevano una vigna di mezza tomolata [6]   che curavano e spremevano come un limone.  Era un vigneto polifunzionale.

Tra i filari si seminava il grano e piantavano le patate. Vi erano poi tanti alberi da frutto.

Un rettangolo era riservato all’orto che forniva, secondo le stagioni, rape, cicorie, fave, piselli, pomodori, peperoni, melanzane.

Non vi era sera che dalla vigna [7] non arrivasse un paniere pieno anche solo d’erbe portato a mano lungo l’impervia strada del Serrone, oggi non più praticabile, o per quella più pericolosa della Costa che partendo dal ponte della centrale della Salviera s’inerpicava per una ripida e scivolosa salita che attraverso la Mùrgia del Monachello e poi quella della Magàra portava direttamente alle prime case della Costa di Vàsciu e di là a casa posta in Via G. Rossi.

Questo rientro serale era il calvario finale che concludeva una giornata di lavoro in piedi.

La vigna forniva anche sterpaglia, pezzi di pali vecchi, rami potati ed essiccati d’ogni tipo d’albero.

Da essa provenivano pure le uniche proteine animali che consumavamo: la carne del maiale [8] , allevato come un figlio, e quella delle galline il cui numero veniva ogni anno riequilibrato con le chiocciate di primavera.

Le bocche erano tante e proporzionale era la fame.

Ogni tanto capitava un fatto strano.

Qualcuno bussava alla porta e portava delle uova [9] .      

Questa manna arrivava, quasi a farlo apposta, proprio quando la mamma aveva appena finito di dire che non sapeva proprio cosa mettere in tavola.  

Ma faceva i conti senza l’oste.

Appena mio padre rientrava dall’ufficio e veniva informato che comare Maria [10] , aveva portato le uova  si rannuvolava in viso e cambiava umore. Non ammetteva che il suo lavoro e i suoi atti dovessero venire ricompensati con doni, soprattutto da parte di gente povera.

Essendo io il maggiore dei figli, mi chiamava e mi ordinava di riportare le uova all’offerente. 

La mamma non osava interloquire.

Partivo allora come un razzo per le viuzze del paese.

Se  non avevo potuto o saputo individuare l’abitazione della signora o non l’avevo trovata, dovevo ripetere più volte il tragitto e risolvere prima di sera il problema della restituzione di quelle povere uova che nell’andirivieni erano diventate quasi sode a contatto delle mie calde e sudate mani.

Più tardi, a guerra finita, nella settimana che precedette il 2 giugno del 1946, giorno del referendum istituzionale, in un clima di nascente democrazia e di riappropriazione da parte del popolo dei suoi diritti inalienabili di libertà, assistetti ad una lunga processione di compaesani che sventolando la bandiera del comune bussarono alla porta di casa reclamando a gran voce il ragioniere cui consegnarono le chiavi del Municipio dal quale avevano allontanato (sic!) tutti gli atri impiegati [11] .    

Non ho mai dimenticato quella ed altre lezioni d’onestà né il rispetto della norma e delle persone.

I sacrifici di mio padre continuarono ininterrotti per poter mandare avanti una numerosa famiglia composta alla fine di sei figli. Per poter sbarcare il lunario e mantenere tutti allo studio, fu insegnante di Ragioneria e Matematica, Agente dell’Ina Assicurazioni, Agente della SIAE, zona Mormanno, Papasidero e Laino, Borgo e Castello. Fu soprattutto il signor  ragioniere del comune di Mormanno funzionario vigile, attento, preciso. Ricordava con orgoglio le sue  parità di bilancio in tempi difficili ottenute non con il suggerire o imporre gravami alla povera gente che amava e rispettava, ma attraverso una ben oculata gestione della cosa pubblica. Dovrebbero esistere agli atti tutti i documenti contabili sui quali lo trovavo incollato ogni volta che gli facevo visita nella sua angusta stanzetta del vecchio comune.

Ai tuoi esempi o Padre, ho improntato tutta la mia vita. Grazie!

Fede e volontà

Nato nel 1917 ebbe una sola fede: quella fascista. A vent’anni si arruolò nella M.V.S.N. [12] Da giovane fu attivo seguace e convinto assertore dell’ideale mussoliniano. Si trovò cosi, dopo il servizio militare a Trieste, combattente nella campagna di Grecia, poi profugo attraverso i Balcani fino a Dachau [13] , ove fu, in virtù delle proprie capacità, falegname a tempo pieno.

Per aver un giorno risposto con un attimo di ritardo e per sola disattenzione ad un graduato tedesco, ricevette una baionettata del braccio sinistro.

Parlando di quel periodo ricordava la fame ed i disagi causati dal vivere in una baracca al cui centro era un bidone dove tutti orinavano per raccogliere...ammoniaca.

Ricordava pure il sapore dell’unica patata giornaliera e la debolezza del suo fisico costretto ad un lavoro senza soste o riposi.


La mattina dell’otto maggio 1945, il giorno dopo cioè della firma della resa incondizionata delle truppe tedesche da parte dell’ammiraglio Doenitz, si trovò libero e discendendo tutto lo stivale, si diresse al paesello ove giunse in un pomeriggio del mese di settembre, in calzoncini, confuso, affamato e piangente.

L’abbraccio dei vecchi genitori, dei fratelli, della giovane mora dai folti e lunghi capelli che poi divenne sua sposa, segnò un ritorno alla vita interrotta.

Quando fu necessario sostenere la strada della nascente democrazia per avere la speranza di un mondo più nuovo e diverso, non volle rinnegare la sua antica fede e aderì, fin dalle prime battute, 1947, al nascente M.S.I. (Movimento Sociale italiano), convinto che gli ideali del regine fascista, specie quelli della breve Repubblica Sociale Italiana [14] , fossero l’unico modo di governare il Paese.

Si doveva, a suo dire, rivedere la Costituzione e rifondarla su un senato corporativo capace di sostenere una repubblica presidenziale a struttura rigidamente unitaria e fortemente nazionalistica specialmente in politica estera.

Tale partito doveva essere un ponte tra la sua generazione e quelle del dopoguerra. Cercò così simpatizzanti sia nei giovani che in vecchi combattenti. Fu attivo e diresse per anni una sezione. Sul suo capo passavano intanto tutti i governi senza minimamente intaccare la sua fede e le sue illusioni.

Carico d’anni e di acciacchi, sempre più stanco, non cessò di perseguire i suoi sogni e, pur trovandosi controcorrente, continuò ad essere fedele fino alla fine dei suoi giorni a quell’ideale che gli aveva riempito il cuore di gioia negli anni più belli e fulgenti della sua lontana e  mitizzata giovinezza.

Una vita a servizio del dovere

Ancora ai prima anni del secolo scorso era salda la concezione che i figli fossero braccia e pane. Se ne mettevano al mondo tanti nella speranza che qualcuno sopravvivesse alle incurabili malattie, alle guerre ed alle disgrazie per poter assistere nella vecchiaia i disabilitati genitori.

Quelli nati da famiglie povere dovevano affrontare una vita di stenti.    

Tra essi il più disgraziato era il maggiore. Gli si chiedeva di tirare la carretta [15] e rinunciare a volte anche al matrimonio.

Le condizioni generali della società imponevano privazioni e sacrifici che sembrava potessero finire solo con il rivolgersi a vie di acqua e di terra [16] .

Nato nel 1905, il Nostro, a vent’anni divenne Carabiniere Reale e cominciò ad aiutare la famiglia pensando alla dote delle sorelle.

Dopo una diecina di anni passati in posti sempre nuovi e diversi del sud, capitò in un paesello. Qui fu colpito dalle grazie di una fanciulla di cui s’innamorò pazzamente.

E quando già stava pensando di realizzare il suo sogno fu travolto da avvenimenti più grandi e si trovò imbarcato e diretto in A.O.I. ove giunse nel 1935 [17] .

Sbarcato a Massaua, dopo un soggiorno ad Asmara durato quattro mesi, attraversando Adua, Macallé e Dessiè giunse, inserito nelle truppe di occupazione comandate dal generale Pietro Badoglio [18] ad Addis Abeba, ove restò fino al 1939.

Fu immerso in una nuova realtà civile e sociale. Destinato a capo di un drappello di Ascari [19] , fu sorvegliante dei lavori di costruzione della strada che partiva da Addis Abeba per raggiungere tutte le parti dell’immenso

Paese e conobbe vari usi e costumi [20] , tra cui alcuni alimentari come quello di mangiare il pane di taff, o la polenta di bultuc, ricavata da una specie di panico sgusciato e ridotto in farina.

Si coprì anche il capo con il tarbuse, e bevve acqua attinta a pozze da una delle quali, una volta, spuntarono i piedi di un animale morto da più giorni.

Svolse incarichi delicati e di responsabilità, ricevendo tre Encomi Solenni oltre varie Croci di Guerra.

Fu fedele all’Arma cui ubbidì tacendo [21]

Una gran dirittura morale accompagnò tutta la sua vita.      

Finita la bufera, rientrò in patria e coronò il suo sogno d’amore.

Terminò il servizio fino alla pensione che, per via di normativa d’epoca, si concluse quando avrebbe potuto e voluto spendere ancora energie ed esperienze.

Per continuare a sopravvivere e far fronte a pressanti impegni di famiglia accettò incarichi di fiducia in diverse aziende private. Questi nuovi ruoli misero in luce la sua onestà e quella dedizione che gli provenivano da una vita a servizio del dovere.

Parlando dei suoi trascorsi, ricordava con nostalgia il lungo periodo africano e vivendo ora in un mondo diverso “pieno di ogni comodità e ben di Dio”, esclamava con forza: Ah! quell’Africa!. a significare che la povertà d’oggi, pur con tutti i suoi drammi, era insignificante e imparagonabile alla miseria che aveva visto in quelle lontane regioni.

Il compagno [22]

Fin da ragazzo ho avuto molti compagni.

Erano miei simili, uguali a me per qualità e valore, con le stesse mie caratteristiche, soprattutto quelle derivanti dell’età anagrafica, amici, in definitiva, per consuetudini di vita e interessi.     

Erano cum pane, come la stessa etimologia spiega, paragonabili cioè al pane che accompagna la nostra vita dalla nascita alla morte [23] .

Nel 1945 sentii parlare per la prima volta di compagni in senso diverso.

Questa volta i compagni erano cittadini uniti da comuni ideali, sentimenti, opinioni e programmi d’azione politica, tutti iscritti o simpatizzanti del P.C.I.

Negli anni sessanta conobbi un compagno con cui spesso dialogai.  

Il ricordo delle angherie e dei dispotismi che avevano mortificato e sacrificato il popolo, ancora duri a morire in quegli anni di nascente vita democratica, lo impegnavano in una sfibrante e quotidiana lotta da cui sapeva trarre la forza per sperare in un mondo migliore ove regnasse finalmente l’uguaglianza, il lavoro e l’abolizione della miseria materiale e morale.

Senza trascurare quelle forme di aggregazioni primitive o aspirazioni distributive della ricchezza già debolmente apparse nel mondo classico, comunità pitagoriche della Magna Grecia, poi nelle religioni orientali, tra cui quella buddista, o nello stesso primitivo cristianesimo caratterizzato in senso comunitario proprio quando si appellava alla fratellanza umana e alla giustizia, per lui contava il vero comunismo, quello passato attraverso le varie utopie del More, di Bacone, di Babeuf, di Meslier, del cartismo inglese per finire all’anarchismo di Proudhon, sintetizzato poi nel manifesto di Marx ed Engels ed elaborato da tre Internazionali e realizzatosi prima in Russia e poi in Italia con Gramsci e da ultimo con Togliatti.

Nato il 21 gennaio 1921, per scissione dal XVII Congresso del PSI (Partito Socialista Italiano), il Partito Comunista Italiano, negli anni compresi tra il 1945 e il 1947, aggiornò la propria struttura capillarizzandola nelle sezioni periferiche e nelle cellule organizzando non solo gli operai e quanti si ritrovavano nell’ideologia marxista, quanto soprattutto i lavoratori che ne accettassero il programma politico indipendentemente dalla razza, dalle convinzioni filosofiche e dalla fede religiosa.

A tale proposito, il P;C;I; con una tattica assai spregiudicata e clamorosa, non si oppose all’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione repubblicana (art.7) anche se tale posizione non riuscì a superare l’antitesi dottrinale con la chiesa cattolica che arrivò alla sua scomunica (Papa Pio XII 1949).

Torniamo al nostro compagno mormannese. 

I lusinghieri risultati elettorali del 1946 dettero forza alle sue idee.

Restò sempre attaccato al partito sia quando questo fu costretto all’opposizione dopo il 1953, sia quando raggiunse risultati lusinghieri alle elezioni politiche del 1958 ed a quelle del 1963 e anche quando andò a mano a mano perdendo consensi col mutare del clima interno ed internazionale.

Fu sempre critico con i dirigenti e gli iscritti. Autodidatta studioso e perseverante, unì ad una naturale rettitudine dell’animo un impegno di vita basato su incrollabili ideali.

Eletto consigliere comunale, non perse mai di vista il bene della comunità.

Morì alla fine degli anni ottanta.

RISCOPRENDO MONSIGNOR PAOLINO PACE [24]

di Francesco Regina

Riteniamo sia giunto il momento di donare il giusto riconoscimento ad una sì grande e rilevante personalità mormannese del settecento spesso nominata ma molto poco conosciuta.

Il suo nome è da noi mormannesi prevalentemente associato solamente al locale tempio a noi tanto caro, per essere stato dallo stesso consacrato la seconda volta il 5 settembre 1790.

Il 2 ottobre dell’ormai lontano 1999 ebbi il piacere di conoscere il reverendo Don Pasquale Vanacore, giovane e fattivo Parroco in Sant’Andrea di Vico nonché studioso appassionato di storia della chiesa e di arte sacra. Egli giunse qui a Mormanno con il preciso intento di visitare i luoghi di Monsignor Pace [25] .

Nel rievocare parte dell’opera feconda del nostro compaesano colà svolta appariva dal suo dire una profonda ammirazione per quel personaggio, sembrava quasi affascinato da quella figura di prelato carismatico che aveva conosciuto attraverso gli scritti e le opere tramandate.

Al termine della breve visita mi fece dono di due testi [26] , di alcune foto e di copie di documenti appartenenti alla biblioteca Pace.

Fui estremamente colpito in positivo da cotanto interesse da parte di un “estraneo” per chi poteva essere solo uno dei tanti transeunti in una diocesi.

Dopo non molto, il 5 gennaio 2001, ebbi modo di contraccambiare la visita giungendo alla volta di Vico Equense.

Dopo una breve perlustrazione per la città giunsi in prossimità della cattedrale nelle prime ore pomeridiane.

La vista di quella solenne struttura arroccata su di un’alta rupe calcarea a picco sul mare, le cui onde vi si infrangevano impetuosamente, e dalla quale si può contemplare la costa sorrentina in tutta la sua sterminata bellezza, suscitò in me una strana sensazione: provai quasi un incondizionato sentimento di commozione

Pensai a cose forse semplici, forse anche banali, ma comunque appartenuti a campi d’azione remoti ma pur sempre reali ed ancora tangibili.

Pensavo alla nomina avuta, al giubilo della comunità mormannese, ai preparativi per la partenza,ai cavalli bardati, lasciare il certo per l’incerto, affrontare un viaggio, impattare con un paesaggio nuovo e fino a quel momento sconosciuto [27] …..

Nonostante le oggettive difficoltà (per quel tempo, ovvio) affrontate e superate, un figlio della nostra terra si affermò in quella turbinosa realtà partenopea dell’epoca imprimendo l’orma profonda ed imperitura della sua eccezionale ed irripetibile tempra.

La cattedrale è raggiungibile passando per uno stretto e suggestivo vicolo dal cui imbocco è visibile il campanile ed il suo arco che immette nella terrazza naturale antistante l’ingresso del luogo sacro.

L’effigie di monsignor Pace, nella versione a noi più nota in atteggiamento benedicente fu fatta ritrarre ed incorniciare nella sacrestia dell’ex Cattedrale dallo stesso Pace, nell’ambito di un contesto più generale e completo rivolto al collocamento in ordine  cronologico dei dipinti di tutti i vescovi vicani [28] avvicendatisi alla reggenza di quella cattedrale, fortemente voluto da esso Pace.

L’opera è contemporanea alle tele custodite nella nostra chiesa madre [29] , ne è prova una lettera a lui indirizzata e di pugno del pittore partenopeo Francesco Palumbo , datata 2 luglio 1781, nella quale l’artista tanto gli riferiva in merito alla realizzazione di tre dipinti in precedenza commissionati: “… ho ricevuto pur anche i 3 ritratti, che 2 di essi chiaramte si conoscono da tutti essere l’Effigie degnissima di V.E. Ill.ma ed alcune degne Sue che in questa sua casa son capitate l’Han conosciuta da loro stesse, né io ci rattrovo dissomiglianza tra il primo ed il secondo. Ma per tenerla servita come si merita esaminerò ben bene e con attenne: per farvi altra ritoccata. Ma il terzo, mi sembra un uomo che non ancora è stato al mondo e totalm. battezzato e il Pittore indegno di essere alla giuliva paga di V.E Ill.ma, degno è di ogni supplizio: atteso, non solamente non rassomiglia, ma difettoso in tutte le parti del corpo non chè nelle membra della faccia ….”

Sul dipinto conservato in Vico risulta visibile in alto a destra il suo simbolo costituito dalla colomba con il ramoscello d’ulivo, presente anche nella balaustra della cattedrale stessa.

Prima di ripercorrere le tappe significative della sua vita [30] , è doveroso offrire al lettore interessato almeno una pillola circa le origini della sua famiglia di appartenenza.

Il primo dato certo e significativo riguarda Mastro Cipriano di Pace di Laino [31] , il quale visse nella metà del cinquecento, e ci rimanda per eventuali approfondimenti al vicino borgo.

Dei sottostipiti che seguirono [32] , il nostro provenne dalla prosapia di Clemente, il quale mutò le sorti della sua discendenza per essersi unito con una di casa Fazio [33] , creando l’humus favorevole per un pronto riscatto sociale.

Paolino Pace, penultimo di nove figli, crebbe in un ambiente che fu di fatto la naturale anticamera al sacerdozio: in famiglia due suoi fratelli vestivano l’abito sacerdotale, Don Clemente già Cantore e Don Giuseppe; peraltro in quel periodo dalle nostre parti erano in auge i sermoni suadenti del famoso Padre Angelo da Acri [34] (che qui a Mormanno presiedette il Quaresimale del 1735)

XXXIII [35] . Dopo un’adolescenza dedita agli studi letterari si dedicò totalmente al Diritto, sia in Napoli che in Roma, ove conseguì la laurea il 20 maggio 1743 presso l’Arciginnasio Sapienza.

Poi, in qualità di Vicario Generale prestò molta opera e servigi a più vescovi, a Mons. Giuseppe Marciano della Roma vecchia, a Leonardo Cecconio del Monte Alto ma soprattutto significativi ed intensi risultarono i quindici anni prestati al servizio di Pompeo Compagnonio, pio e dotto vescovo di Auximo e di Cingolo.

Nel 1768 fu nominato Vicario Apostolico di Nicastro e finalmente Vescovo di Vico Equense il 10 maggio 1773 da Clemente XIV, il quale volle che venisse consacrato dal Vescovo Compagnonio ad Auximo, con incredibile soddisfazione dell’uno e dell’altro.

Con grande generosità accettò questo grande incarico, con maggiore celerità lo attuò nella vita [36] .

Infatti la chiesa cattedrale ricevette da lui una forma quasi nuova: una epigrafe commemorativa riassume in maniera concisa i numerosi interventi strutturali, gli ampliamenti ed abbellimenti che la cattedrale conobbe nel suo periodo di reggenza.

Si interessò anche a che venisse completato il lavoro di tubazione mediante cui sia l’Episcopio che il Seminario potessero approvvigionarsi dell’acqua; inoltre non solo munì l’orto di muri, ma per conferirgli anche simmetria e bellezza lo divise artisticamente in più parti distinte e lo allietò con la piantagione di alberi di cedro e medicamentose. Né va omesso di ricordare una certa aggiunta al reddito della mensa vescovile, avendo dato in fitto in perpetuo con molto maggior profitto di prima, un podere dove si trovavano i ruderi della vecchia Vico Equense.

In pro del culto divino e della salvezza delle anime fu parimenti eccellente, molte cose degne meritano di essere ricordate.

Egli percorse ogni anno la Diocesi, consacrò sette chiese e tre altari secondo i riti stabiliti. Cresimò 641 uomini su un totale di 2000, fino al 1777 prescrisse fra le vecchie tradizioni il particolare rito di partecipare devotamente alla supplica delle Rogazioni [37] .

Attesa l’assenza da più anni di Monsignor Giovan Battista Coppola,Vescovo di Cassano, col di lui permesso… fu invitato alla consacrazione Monsignor Paolino Pace [38] ”, recita letteralmente la cronaca scritta a noi tramandata e relativa alla seconda consacrazione della nostra chiesa madre avvenuta, come detto, il 5 settembre 1790..

Dal 22 giugno al I° ottobre 1790 amministrò la Cresima a 334 uomini e 277 donne.

Ci restano in suo ricordo un pluviale di lamia bianco guarnito di oro massiccio, la mitra della stessa fattura, il camice arricciato con amitto ed un calice d’argento con patèna, fattura di pregio dell’arte romana che egli stesso aveva offerto alla chiesa il 13 agosto 1775.

Morì in Vico Equense il 14 aprile 1792 ed in Mormanno si fecero i funerali con una magnifica castellana per giorni tre [39] .


IL SEGRETO DEL MISTERO

di Mirella Santamato

Da quando l’uomo è apparso sulla terra e ha cominciato a guardare le stelle ha cominciato a pensare e a capire che la vita finisce. Tutte le religioni si fondano sul mistero della morte.

La morte è incomprensibile per chi è vivo come la vita diventa “incomprensibile” per chi è morto.

Ognuno di noi non può essere altro da sé e la regola vale su qualsiasi piano.

Forse ti sembrerò presuntuosa o azzardata nel pensiero che segue queste mie parole, ma ritengo che tutto il dire, il parlare, lo scrivere intorno a questo argomento sia tema fallace, discussione di “lana caprina”, come dicevano i nostri antenati.

Dobbiamo quindi buttare via Kant e Shopenhauer, o Platone e S.Paolo ? No, certamente no, ma rendersi conto che se cotanti geni non sono riusciti ad uscire fuori dal labirinto del Dualismo, allora bisogna accettare che la strada da loro intrapresa è sbagliata. Dalla dicotomia dell’umana natura non si esce con la mente, ma con il cuore.

Si è sempre usato, quindi, lo strumento sbagliato ed è per questo che non ci siamo mai riusciti finora. Se neanche le menti straordinarie dei geni che ci hanno preceduto sono riusciti a risolvere l’enigma, significa che la strada da intraprendere è un’altra.

L’unico ponte che ci collega a tutto ciò che è  altro da noi è l’amore. Solo attraverso di esso possiamo penetrare il mistero e cercare di coglierlo dentro di noi.

La morte fa parte di noi, come la vita. In continuazione il nostro corpo “muore” e “rinasce”. Nel nostro corpo miliardi di cellule muoiono e si rigenerano delle nuove cellule ogni giorno. Quando andiamo nell’infinitamente piccolo (come nell’infinitamente grande) le masse fisiche si dissolvono, lasciando tracce di onde riflesse di quanti inafferrabili.

Tutto questo ormai è scienza, ma non è ancora patrimonio mentale dell’umanità. La nostra piccola mente stenta ad accettare l’inafferrabilità

delle cose, il vuoto che è anche pieno. Credo che questo sia l’ostacolo più grande all’accesso alla Conoscenza.

Socrate rimane il più grande dei filosofi perché era l’unico ad accettare di “non sapere”.

Accertato che la strada finora percorsa dalla mente umana è fallace, allora rivolgiamoci al cuore, questo sconosciuto.

Se fossimo dei latini diremmo “ Hinc sunt leones”, ovvero è terra  sconosciuta.

Solo alcuni mistici e alcuni profeti si sono avventurati su queste strade impervie e sconosciute, ma con scarsi risultati, in quanto la massa della gente è incapace di capire il cuore.

Pascal diceva che  il cuore ha ragioni che la ragione non conosce.

Possibile che i siffatti geni che ho prima menzionato, non abbiano mai avuto l’umiltà di andare ad esplorare l’amore?

Lo hanno ritenuto “roba da donnette”, rispetto ai grandi temi del Bene del Male, del Essere o del Non Essere ecc…?

Non so. So solo che la risposta è qui.                                                   

In realtà  non lo so, ma lo sento. Parafrasando Cartesio mi verrebbe da definire l’uomo solo un essere “senziente”, ovvero Sento ergo sum.

Il “sentire”, ovvero l’avere “sentimenti” o “sensazioni” rende gli esseri viventi tali.

Amare è il più grande dei sentimenti e ne siamo completamente ignoranti. Se ignoriamo l’amore, ignoriamo la vita e se ignoriamo la vita (che pure ci appartiene) come possiamo conoscere la morte, che non ci appartiene?

L’inghippo, la trappola è tutta qua.

Il filo di Arianna è rosso, come l’amore. Molto più grande e vicino alla verità allora Beethoven piuttosto che Kant?

A mio parere, sì.

La strada verso l’amore è lastricata di sinfonie non ancora scritte? Di poesie non ancora dette?

La morte non è altro che il silenzio tra due note.

I PERSONAGGI DEL PRESEPE

di Antonio Penzo

Il presepe è la rappresentazione plastica dell’evento della nascita di Gesù Cristo Redentore, nata da un’idea di S. Francesco che a Greccio fece la prima rappresentazione vivente della Natività, per dare modo a tutti di vivere il Natale e cioè di avere la piccola “Betlemme” in casa. Il popolo non sapeva leggere ed attraverso la rappresentazione scenica, riesce a comprendere la narrazione teologica del Natale. Rappresentazione che prima si svolgeva nelle chiese e poi nelle case nobili e infine nella casa domestica. Con il presepe si ha l’estrisencazione dell’umanizzazione di Dio, attraverso il suo Figlio Unigenito e la semplicità del fedele riconosce attraverso di esso il mistero della vita, che venne creata da Dio e di cui egli è portatore.

I vari personaggi che vengono rappresentati nei numerosi presepi trovano fonte non solo nei due Vangeli di Matteo e di Luca, ma anche nell’Antico Testamento (Isaia, Michea e Zaccaria) e nei vangeli apocrifi, dove si trovano vari episodi relativi alla natività (Protovangelo di Giacomo, il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di pseudo Matteo, il Vangelo arabo siriaco, il Vangelo armeno, il Libro sulla Natività di Maria e la Storia di Giuseppe falegname). Da non dimenticare anche l’influenza di opere letterarie, come lo Stabat Mater speciosa di Jacopone da Todi, le Meditationes di Giovanni de Caulibus o da San Gimignano, la Legenda Aurea di Jacopone da Varazze e le Rivelazioni di santa Brigida.

Con il tempo e a seconda dei luoghi, si hanno vari tipi di presepio: tradizionale, napoletano, bolognese e così via, ma il nucleo base dei vari personaggi che partecipano al Natale sono i seguenti.

L’Eterno Padre: questa figura, nelle sue varie rappresentazioni, fino alla mano che esce dalle nubi, sottolinea l’esistenza di un disegno di salvezza per l’uomo, dopo il peccato originale.

Il Bambino: le fasce che lo avvolgono sono la profezia della morte, che è il prezzo della salvezza. Ma grazie alle visioni di santa Brigida, il bambino viene raffigurato nudo sulla terra: è sinonimo della nuda povertà e della prima sofferenza del Figlio (esemplare è la rappresentazione del Beato Angelico); oppure posto sulla paglia. Spesso è raffigurato benedicente con la mano o meglio con due dita, come a significare che è la seconda persona della Trinità.

Maria: la beata Vergine è sempre regale e offre il Bambino all’adorazione. Il colore delle vesti sono: il manto di colore azzurro che simboleggia la sua funzione di Regina dell’universo o come Semprevergine; la veste di colore rosso o purpureo rappresenta la Madre di Dio o Deipara con manto purpureo o rosso. Viene anche rappresentata in un tutto unico con il Bambino, con il manto che lo avvolge come a protezione o ad ostensione o comunque a significare il Mistero grande della nascita che li accomuna.

Giuseppe: era rappresentato in piedi, a capo scoperto ed appoggiato ad un bastone, mentre fissa il Bambino. Ora spesso è in ginocchio, in un

atteggiamento di preghiera, raramente è seduto. Giuseppe è l’intelletto che si inchina a Dio, accettandone la volontà.

La mangiatoia: è indicazione o della profezia della passione e croce (sepolcro od altare) oppure del fatto che in Gesù tutti troveranno il cibo della vera vita o il pane del cielo.

L’asino: l’asino rappresenta i gentili, ossia i non ebrei. L’asino raffigura la personalità e la natura inferiore dell’uomo.

Il bue: il bue rappresenta gli ebrei, il popolo prediletto. Il bue rappresenta il principio generativo, la forza sessuale ed è simbolo della fertilità e fecondità.

L’asino e il bue, con il loro fiato, scaldavano il Bambino. E’ la reminiscenza del soffio primordiale con il quale Dio dà la vita all’uomo.

La paglia: rappresenta il cibo divino, di cui si cibano l’asino e il bue: è segno dell’Eucarestia.

L’angelo: l’angelo compare nei presepi. Sono le schiere degli angeli che danno l’annuncio ai pastori, che cantano, che chiamano a festa. Sono rappresentati o in ginocchio ad adorare o in piedi, con cartigli con scritte varie, o con trombe o cantori. Se ha in mano un rametto d’olivo rappresenta la Nuova Alleanza che Dio stabilisce con gli uomini attraverso suo figlio Gesù.

La stella: è simbolo della presenza divina. Ha normalmente sei punte che è il numero cristologico per eccellenza. Se ha otto punte allude all’ottavo giorno della creazione, cioè quella nuova della resurrezione, che inizia con la nascita del Bambino. Fu Giotto, che la dipinse (1303-1305) nella forma di stella cometa nella Cappella degli Scrovegni a Padova ed ormai la stella è sempre rappresentata con la coda. La stella è una luce raggiante che scende dal cielo e simboleggia anche che Dio riconosce in Gesù il suo figlio.

La grotta: nei vangeli di Luca e Matteo non se ne parla. Nel vangelo apocrifo del pseudo Matteo si ha indicazione della grotta. La grotta è luogo profondo e buio nella montagna ed è simbolo delle tenebre del peccato o degli inferi dove scenderà Gesù – luce del mondo - per recuperare il genere umano. Tuttavia la grotta è anche simbolo del ventre materno, della terra che porta i frutti che daranno nutrimento e vita, essendo fecondata dal cielo.

La capanna: non ha rappresentazione simbolica e spesso viene riempita degli oggetti di lavoro tipici delle regioni; è la casa dell’uomo. In molte raffigurazioni si ha anche un muro diroccato o delle rovine, che simboleggiano il vecchio mondo cadente che ospita la novità del Cristo Redentore. 

La stalla: rappresenta la povertà e la miseria.

I Magi: rappresentano l’universalità delle genti che riconoscono in Gesù il Salvatore ed a cui portano doni regali. Il loro numero non venne subito fissato: in alcuni casi è dodici come i segni dello Zodiaco e come i mesi. Ormai è fissato in tre ed i loro nomi sono: Baldassarre ossia il protetto del Signore; Melchiorre il re della luce e Gaspare che è colui che ha conquistato la forza-splendore.  Il tre è il numero della perfezione e del compimento e tre sono i doni che portano. Essi rappresentano le tre razze umane – semitica, camitica e giapetica – oppure le tre età dell’uomo oppure i tre continenti allora conosciuti – Europa, Asia e Africa – oppure le tre categorie in cui era suddivisa l’umanità nel mondo indeuropeo – sacerdoti, guerrieri e produttori; comunque è sinonimo che il messaggio di Gesù è rivolto a tutti gli uomini di ogni nazione e di ogni tempo.

Il più anziano è in ginocchio, quasi prostrato ed offre oro, segno della corona e della regalità che è posta ai piedi di Gesù; un altro offre mirra, unguento usato nella sepoltura e segno della umanità, oppure medicamento – Gesù è il grande Medico che guarisce l’umanità; il terzo offre l’incenso, che simboleggia la divinità del Cristo. Il loro viaggio per giungere all’adorazione in Betlemme è simbolo del percorso che l’uomo deve compiere per incontrare Dio. Per questo motivo, nei luoghi di pellegrinaggio, i Magi sono spesso rappresentati. Secondo la tradizione i re Magi morirono in Persia e sepolti insieme in una grande tomba. Elena, madre di Costantino, fece trasportare le reliquie a Costantinopoli. Da questa città vennero trasportate a Milano o dai crociati o dal vescovo Eustorgio. Nel 1162 Federico Barbarossa rase al suolo Milano, teneva molto alla conservazione delle reliquie e nel 1164 le fece trasportare a Colonia, dove tutt’ora sono conservate.  Il reliquiario è uno dei più belli esistenti al mondo.

I pastori: i pastori rappresentano gli ebrei chiamati  a riconoscere il Salvatore. E’ il popolo prediletto che vegliavano e così rispondono all’annuncio angelico. Rappresentano l’umanità che attende il Salvatore, che porta la salvezza dopo il peccato originale. Sono indice della capacità di sentire ed accogliere il messaggio divino e di rispondere. I pastori sono la primizia degli ebrei che corsero ad adorare il Salvatore, come i Magi lo sono per le genti. Oppure i Magi erano i saggi e gli illuminati, mentre i pastori rappresentano la gente normale, che è pronta nel ricordare le promesse e nel rispondere all’annuncio ed alla chiamata. I pastori rappresentano le persone umili di cui Dio si avvale per ricondurre gli uomini – il gregge – sulla retta via.

Le pecore: il gregge è simbolo del popolo d’Israele che è guidato da Dio, come un pastore premuroso. Gesù parla di sé stesso come di un Buon Pastore e dei suoi discepoli come pecorelle. Un piccolo agnello è il segno di Gesù, mite ed innocente.

La tradizione: è rappresentata da un fanciullo accompagnato da un adulto, maschio o femmina. E’ la rappresentazione della trasmissione della Buona Novella, che deve sussistere in ogni ambiente familiare e domestico e premessa ad ogni incontro ecclesiale.

La meraviglia: è la persona che apre le braccia allo stupore, colpita dall’amore di Dio, che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio.

L’adorazione: la statuetta è raccolta, a mani giunte, rivolta al bambino intenta ad adorare. E’ come Maria, sorella di Marta, che attende alle parole di Gesù. I pastori sono anche i primi pellegrini che senza indugio hanno lasciato le proprie cose per andare incontro a Gesù, adorandolo. 

L’offerta: la statua porta un dono. Al dono della Vita Divina, l’uomo risponde portando i suoi prodotti, oggetto della sua attività, e offrendo se stesso.

Il dormiglione: è la figura emblematica negativa. E’ rappresentata da una persona con guance arrossate dal vino, con la pancia prominente per effetto degli stravizi, come una persona in colpa e che rifugge all’annuncio divino; non si desta e non si vuole lasciare cambiare ed è sordo all’annuncio del vero Dio.

Gli animali: gli animali domestici riempiono il presepe ed indicano le profondità dell’inconscio, l’istinto, le forze cosmiche, fra le quali si avverte una solidarietà fra esse e l’uomo, come compagne di vita, di lavoro, strumenti e segni. Il cardellino è associato a Gesù Bambino; il pettirosso annuncia la passione di Gesù; il pavone significa il mistero pasquale della morte e resurrezione.

L’acqua: è rappresentata da fontane, specchi, laghetti, rivoli, abbeveratoi e rappresenta l’acqua del battesimo, simbolo della purificazione e della rinascita. E’ il bene indispensabile per l’uomo.

Il fuoco: rappresenta la fede, che purifica e prepara alla nuova vita.

Il castello di Erode e l’osteria: sono rappresentazioni del maligno, del covo del male.

La curiosa: è una figura recente. Rappresenta la persona indecisa che osserva l’avvenimento senza essere vista, nascosta dietro ad una colonna o ad un muro e fa supposizioni senza prendere una decisione che può cambiarle la vita.

ALTRI SIMBOLI DEL NATALE

di Antonio Penzo

La Vigilia di Natale è il giorno che precede quella che è considerata una delle principali festività del cristianesimo. Cade il 24 dicembre.

Nella tradizione del mondo occidentale assume una grande valenza simbolica poiché si celebra, nella notte, la nascita di Gesù Cristo, in una grotta di Betlemme, nella Giudea, regione della Palestina. Secondo i vangeli, seguendo una stella di Betlemme, i re magi venuti dall'oriente trovarono un bambino che giaceva in una mangiatoia: ne riconobbero l'importanza e gli offrirono oro, incenso e mirra.

Per il fedele, la veglia notturna della vigilia serve da transito verso il mistero della nascita del Dio che si fa uomo ed entra nella storia dell'umanità: si danno gli ultimi ritocchi al presepe, ci si prepara per la messa di mezzanotte, in una attesa che ha lo scopo far presente e reale il miracolo della nascita di Cristo.

All'originaria valenza è stata aggiunta quella propria della festa moderna, percepita anche dai non credenti, caratterizzata da una ricca cena (detta appunto della Vigilia) e dallo scambio di regali, destinati alle persone care, allo scoccare della mezzanotte (solo in alcune regioni d'Italia; altre rimandano lo scambio dei doni ed il banchetto principale al pranzo del giorno successivo).

L’albero di Natale: l'immagine dell'albero, specialmente sempreverde come simbolo del rinnovarsi della vita, è un tradizionale tema pagano, presente sia nel mondo antico che medioevale e, probabilmente, in seguito assimilato dal Cristianesimo. La tradizione fa riferimento ad una cronaca di Brema del 1570, secondo cui un albero veniva decorato con mele, noci, datteri e fiori di carta. La città di Riga è fra quelle che si proclamano sedi del primo albero di Natale della storia, in cui il "primo albero di capodanno" fu addobbato nella città nel 1510).

Precedentemente si può trovare un gioco religioso medioevale, celebrato proprio in Germania il 24 dicembre, il "gioco di Adamo e di Eva" (Adam und Eva Spiele), in cui venivano riempite le piazze e le chiese di alberi di frutta e simboli dell'abbondanza per ricreare l'immagine del Paradiso. Successivamente gli alberi da frutto vennero sostituiti da abeti, poiché questi ultimi avevano una profonda valenza "magica" per il popolo. Avevano il dono di essere sempreverdi, dono che secondo la tradizione gli venne dato proprio dallo stesso Gesù come ringraziamento per averlo protetto mentre era inseguito da nemici. Non a caso, sempre in Germania, l'abete era anche il posto in cui venivano posati i bambini portati dalla cicogna.

Per molto tempo, la tradizione dell'albero di Natale rimase tipica delle regioni a nord del Reno. I cattolici la consideravano un uso protestante. Furono gli ufficiali prussiani, dopo il Congresso di Vienna, a contribuire alla sua diffusione negli anni successivi. A Vienna l'albero di Natale apparve nel 1816, per volere della principessa Henrietta von Nassau-Weilburg, ed in Francia nel 1840, introdotto dalla duchessa di Orleans.

A tutt'oggi, la tradizione dell'albero di Natale, così come molte altre tradizioni natalizie correlate, è sentita in modo particolare nell'Europa di lingua tedesca (si veda per esempio l'usanza dei mercatini di Natale).

Nei primi anni del Novecento, gli alberi di Natale hanno conosciuto un momento di grande diffusione, diventando gradualmente quasi immancabili nelle case dei cittadini sia europei che nordamericani, e venendo a rappresentare il simbolo del Natale probabilmente più comune a livello planetario. Nel dopoguerra il fenomeno ha acquisito una dimensione commerciale e consumistica senza precedenti, che ha fatto dell'albero di Natale un potenziale status symbol e ha dato luogo, insieme alle tradizioni correlate, alla nascita di una vera e propria industria dell'addobbo natalizio.

Babbo Natale o Santa Claus o San Nicola: il personaggio di Babbo Natale, che viene chiamato, a seconda delle tradizioni, con molti altri nomi (ad esempio: Santa Claus, Joulupukki, San Nicola, Kris Kringle, Died Maroz, Djed Božicnjak, ecc.) è una figura mitica, presente nel folklore di molte culture, che distribuisce i doni ai bambini, di solito, la sera della vigilia di Natale.

In Italia Babbo Natale è una figura storicamente molto amata e si identifica, ormai, con San Nicola, anche se le due figure hanno origini storiche diverse.

Tutte le versioni del Babbo Natale moderno derivano dallo stesso personaggio storico, il vescovo San Nicola di Mira, della città di Myra (antica città dell'odierna Turchia), di cui si racconta che fosse solito fare regali ai poveri. La leggenda di San Nicola è alla base della grande festa olandese di Sinterklaas (il compleanno del Santo) che, a sua volta, ha dato origine al mito ed al nome di Santa Claus nelle sue diverse varianti. Da non confondere Sinterklaas con Babbo Natale! Nei Paesi Bassi, infatti, Sinterklaas arriva due settimane prima del 5 dicembre, data in cui distribuisce i doni. L'equivalente di Babbo Natale in questo paese è Kerstman (letteralmente: "Uomo di Natale").

Babbo Natale è un elemento importante della tradizione natalizia in tutto il mondo occidentale, in America Latina, in Giappone ed in altre parti dell'Asia orientale.

In molte tradizioni della Chiesa ortodossa, Babbo Natale è identificato con San Basilio e porta i doni ai bambini il giorno di Capodanno, in cui si celebra la sua festa.

Le rappresentazioni di Babbo Natale sono anche strettamente legate al personaggio russo di Nonno Gelo (Ded Moroz), che porta i regali ai bambini ed è vestito con una giacca rossa, stivali di pelliccia e porta una lunga barba bianca. Una gran parte della iconografia di Santa Claus sembra derivare dalla figura di Ded Moroz, soprattutto attraverso il suo equivalente tedesco Väterchen Frost.

Di solito, Babbo Natale viene rappresentato come un signore anziano, corpulento, gioviale e occhialuto, vestito di un costume rosso con inserti di pelliccia bianca, con una lunga barba anch'essa bianca. La sera della vigilia di Natale, sale sulla sua slitta trainata dalle renne volanti e va di casa in casa per portare i regali ai bambini.

Per entrare in casa si cala dal comignolo, sbucando quindi nel caminetto. Durante il resto dell'anno, si occupa della costruzione dei giocattoli con la Signora Natale ed i suoi aiutanti elfi.

La dimora tradizionale di Babbo Natale cambia da paese a paese: negli Stati Uniti si sostiene che abiti al Polo Nord (situato per l'occasione in Alaska) mentre in Canada il suo laboratorio è indicato nel nord del paese; in Europa è più diffusa la versione finlandese che lo fa abitare nel villaggio di Korvatunturi, in Lapponia. Altre tradizioni parlano di Dalecarlia, in Svezia, e della Groenlandia. Nei paesi dove viene identificato con San Basilio, viene talvolta fatto abitare a Cesarea.

A causa di alcuni tratti decisamente fuori dal comune del comportamento di Babbo Natale (come la capacità di recapitare, in una sola notte, i regali a tutti i bambini che credono in lui, quella di infilarsi nei comignoli e di entrare, anche, nelle case senza caminetto, la presunta immortalità ed il possesso di renne volanti), di solito, le sue azioni vengono spiegate con il ricorso alla magia.

L’agrifoglio e il pungitopo: le foglie pungenti ed acuminate scacciano gli spiriti maligni, mentre le bacche rosse donano gioia ed esultanza.

Il vischio: è considerato un talismano che allontana le avversità ed il dolore. Per tale motivo viene appeso sulla porta d’ingresso per auspicare Buon Anno. E’ anche simbolo della vita, essendo sempreverde.

Il ginepro: era utilizzato per la sua forma che ricorda l’abete, ora è protetto. Veniva bruciato nel focolare la Vigilia e il suo carbone utilizzato nell’anno per rimedi della farmacopea contadina (o superstizione).  

La stella di Natale: è una pianta di origine messicana, dalle caratteristiche foglie rosse che circondano i minuscoli fiori. Il rosso è colore beneaugurante.

Le campane della Vigilia: era tradizione bolognese che all’alba della Vigilia di Natale, dal campanile si suonava “al dappi dla manza”  il doppio della mancia, ossia il concerto intero, per chiamare i poveri alla distribuzione della “spôrta d’Nadèl”, sussidio in danaro e generi alimentari, che si donava alla povera gente per permettere a tutti di fare festa.

Gli zampognari: il suono delle zampogne ha sempre accompagnato l’arrivo del Natale. I pastori che spuntavano nella città erano solitamente due, uno anziano ed uno giovane o fanciullo e, discretamente, chiedevano offerte. Provenivano dall’Italia centrale o dai monte dell’Appennino reggiano e della Garfagnana. Giovanni Pascoli nella sua poesia “Le ciaramelle” esprime il fascino che quel suono evoca.

Il ceppo di Natale: il fuoco è l'elemento fondamentale di numerosi rituali natalizi europei ed extraeuropei. È molto probabile che da tutte queste tradizioni del passato abbia preso origine la tradizione del ceppo natalizio, il cui fuoco bene rappresentava il sole, e dal ceppo di quercia (simbolo di forza e di solidità) che nelle case doveva bruciare per dodici giorni consecutivi (fino alla nostra Epifania, quando le giornate iniziano lentamente ad allungarsi) si prendevano gli auspici su come sarebbe stato l’anno successivo in base alla maniera come bruciava.

La corona d’Avvento: La sua origine va ricercata presso i Luterani della Germania orientale.

La corona d'Avvento può essere considerata la continuazione di antichi riti pagani che si celebravano nel mese di yule (dicembre) con luci.

Nel sec. XVI divenne simbolo dell'Avvento nelle case dei cristiani. Questo uso si diffuse rapidamente presso i protestanti e i cattolici. Successivamente fu impiantato anche in America.

La corona d'Avvento è costituita da un grande anello fatto di fronde d'abete (si usa anche il tasso o il pino, oppure l'alloro). E sospesa al soffitto con quattro nastri rossi che decorano la corona stessa. Può anche essere collocata su di un tavolo. Attorno alla corona sono fissati quattro ceri, posti ad eguale distanza tra di loro. Significano le quattro settimane d'Avvento.

Alla sera la famiglia si riunisce e accende un cero, oppure due, tre, quattro, a seconda della settimana d’Avvento in cui si trova. Una tradizione suggerisce anche il nome alle quattro candele: 1. candela della Profezia; 2. di Betlemme; 3. dei Pastori; 4. degli Angeli.

Il colore delle candele è vario: o bianche o colorate. Nel caso di candele colorate, la candela della terza settimana deve essere di colore rosa, dal colore delle vesti della terza domenica, detta anche “Gaudete”.  

L'accensione del cero è accompagnata da un canto e da invocazioni della venuta del Signore. Si conclude con un canto alla Vergine Maria.

La lettera a Babbo Natale: l'abitudine di scrivere una lettera a Babbo Natale è una tradizione natalizia che risale a molto tempo fa. Le lettere contengono di solito una lista dei giocattoli desiderati e la dichiarazione di essere stati buoni. Le bambine di solito scrivono lettere più cortesi e più lunghe rispetto ai bambini, anche se le loro richieste non sono superiori a quelle di questi, e usano più espressioni per parlare della natura del Natale.

I mercatini di Natale: in Germania ed in Alto Adige nel periodo dell'Avvento vengono organizzati i diffusi e popolari mercatini di natale (in tedesco Christkindl-, Weihnachts- o Adventsmärkte) e nel quale la gente si prepara alla venuta di Cristo con la preparazione di dolci e biscotti tipici natalizi, dell'albero (Weihnachts- o Christbaum), del presepe (Krippe) e delle decorazioni. Il 6 dicembre viene festeggiato in tutta la provincia e da tutti i gruppi linguistici l'arrivo del Nikolaus (in italiano anche San Nicolò) accompagnato dai terribili Krampus, che porta piccoli doni e dolci (cioccolata, mandarini e frutta secca, bonbon, Pfeffer- o Lebkuchen) spesso nel caratteristico sacchettino rosso. Ogni domenica d'Avvento vige l'usanza di accendere una candela sulla tipica corona dell'Avvento (Adventskranz), mentre ogni giorno i bambini attendono l'arrivo del Natale aprendo una casellina del calendario dell'Avvento (Adventskalender) che parte dall'1 arrivando al 24. La sera della vigilia di Natale (Heiligabend), è il momento in cui ci si scambia i doni e per i bambini arriva o il Christkind (anche in italiano Gesù Bambino) o Babbo Natale (quest'ultimo è molto più diffuso tra i bambini di madrelingua italiana e porta i regali talvolta nella notte tra il 24 e il 25 dicembre; spesso i bambini mistilingui ricevono i doni dal Christkind il 24 e Babbo Natale il 25). Per tutti vale la messa di mezzanotte del 24 dicembre. La festa non si conclude con il Natale, ma si attende l'arrivo dei Re Magi (Heilige Drei Könige) con i bambini travestiti da magi, che vanno di casa in casa ad annunciare la nascita di Cristo chiedendo una piccola offerta, mentre in cambio vengono offerti spesso dei dolci. In Alto Adige la figura della Befana, diffuse nelle regioni meridionali confinanti, è al più sconosciuta. Ora i mercatini si stanno diffondendo in ogni regione.


COSA VORREI DALLA BEFANA….PER MORMANNO

di Nicola Perrelli                     

Ricordo con immensa tenerezza la notte magica, tra il 5 e il 6 gennaio, di tanti anni fa…

L’attesa cominciava con le feste natalizie, con la preparazione nella sala da pranzo dell’albero e del presepe.  Ma di tutto il periodo  l’avvenimento che con i miei genitori preparavo  con più cura e entusiasmo, e attendevo con  senso di mistero, era l’arrivo della Befana.

La vecchietta che dentro le calze,  appese la sera del 5 al grande camino in cucina, mi faceva trovare, al mattino del 6 gennaio,  una quantità di cose che quasi sempre  avveravano i miei desideri.

Per un certo  tempo, seppure dall’altro lato della barricata, in quanto ormai genitore, ho  continuato lo stesso a gioire della magica atmosfera d’attesa e di speranza che la notte della Befana sempre suscita.

Nell’iconografia tradizionale la Befana viene rappresentata come una vecchia misteriosa e inquietante che appare nella dodicesima notte dopo quella di Natale, nel periodo di transizione tra il vecchio ed il nuovo  anno.

Ed è  stata interpretata come l’immagine di Madre Natura che giunta alla fine dell’anno incanutita e logora assume le sembianze della Befana che prima di morire offre dolciumi e doni di ogni genere, che simbolicamente  rappresentano i semi grazie ai quali la Natura riapparirà nelle vesti di una giovinetta. Potrà cosi assicurare alla popolazione il raccolto necessario per  la sopravvivenza nel nuovo anno.

Nasce da qui la tradizione di chiedere nel periodo dell’Epifania, che viene subito dopo la seminagione,  quindi in un momento  carico di aspettative e speranze per il futuro, doni beneauguranti   per assicurarsi l’abbondanza, il benessere e l’eliminazione del male nell’anno appena cominciato.

Ogni anno alla Befana, come credo facciano la maggior parte degli adulti, perché un po’ è come tornare  bambini, chiedo qualcosa. Non doni  preziosi  o la fine di tutte le guerre nel mondo, ma cose ottenibili o realizzabili e possibilmente a vantaggio di tutti.

Quest’anno  nella calza vorrei  trovare  la soluzione a due problemi che affliggono Mormanno: 1) il traffico, 2) le condizioni del manto stradale urbano.

Sono problemi, in particolar modo il primo, che ogni amministrazione comunale in questi ultimi trent’anni, a prescindere dal colore politico, ha  affrontato senza però sortire alcun risultato, nemmeno misero.

La questione traffico è sotto gli occhi di tutti: evidenzia una situazione ambientale critica.

Nel Corso di Mormanno, o meglio “canyon”, transitano centinaia di veicoli al giorno producendo spesso un’aria irrespirabile, sicuramente dannosa per la salute dei cittadini. E chi ci amministra ha  il dovere di tutelare il nostro diritto alla salute, che tra l’altro  è sancito nella Costituzione all’art. 32:”la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività...”

La sera dopo le 21,00  il parcheggio “fai da te”, illecitamente, occupa la piazza e parte del corso limitrofo, impedendo non solo  il regolare transito dei veicoli, magari di una ambulanza, ma soprattutto depredando i cittadini della vivibilità del centro storico. Un’ anomalia però che nonostante la sua “visibilità”, incomprensibilmente,  viene  “tollerata” dalle  Autorità.

La risposta ai cittadini da anni è sempre la stessa: “la materia è complessa”. E cosi invece di accrescere il livello d’attenzione si spera, infidamente, di creare nei cittadini una sorta di assuefazione, quasi un tentativo di rimozione dalla memoria del problema; salvo poi a farlo riaffiorare come punto programmatico durante le campagne elettorali.

Se il problema  traffico è di gran lunga il più sentito dai mormannesi, subito dopo arriva quello delle condizioni delle strade urbane, anche per una questione di decoro.

 Attualmente la maggior parte delle strade comunali sono un “campo minato” di buche, avvallamenti e rappezzature fatte alla meno peggio.

Costituiscono di fatto un super slalom per le auto, un serio pericolo per le due ruote, un rischio in più di cadute e distorsioni per i pedoni.

Per non parlare dello stato di abbandono di alcune cunette e margini di strade della rete urbana; esempi di pessima manutenzione e in qualche caso di totale disinteresse da parte dell’amministrazione comunale a ripristinare lo stato di decoro civico (vedi Via F.Turati).

Spero  che la befana voglia e possa esaudire questi miei desideri,  senza dubbio  analoghi a  quelli della maggioranza dei mormannesi.

Sono fiducioso…io credo ancora alla Befana.

…L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E L’ALTRE STELLE.

di Alessia Della Casa

Un’altra fine, un nuovo inizio.

Arriva la fine dell’anno, un momento per tirare le somme, per riepilogare quel che è stato dell’anno ormai vecchio, per guardare indietro e lasciare fortune e sventure in pasto al passato. Si inizia un nuovo anno con uno slancio verso il futuro, con obiettivi e progetti, più stimolati alle novità. O più semplicemente si vive Capodanno come un giorno qualunque, confuso tra le altre festività e poco significativo nel bel mezzo dell’anno scolastico, che per tanti scandisce il ritmo del tempo.

Quel che forse più importa è saper prendere l’entusiasmo delle novità, non aspettare una data per fare di un giorno il primo di tanti, sentire ogni momento buono per un nuovo inizio, e ogni inizio come una festa, uno slancio costruttivo. Come se si volesse sentire in ogni giorno un anno, e in ogni risveglio una nuova partenza, annullando la ridondanza della routine, trovando entusiasmo e festa in ogni giorno, così precario se ci si pensa!

La nostra epoca ha velocizzato tutto, e spesso il tempo ci sfugge tra le mani, rimaniamo indietro, siamo in ritardo, ci insegue la fretta e lo stress. Il cambiamento è talmente veloce a sua volta, che non ci rendiamo conto di quanto oggi tutto diventi più sfuggente e insicuro, di quanto sia necessario accorgersi in fretta del presente, e assaporarne il valore, per non perderlo tra le furie del tempo moderno.

Nel passato lo stile di vita per molti era rurale, e la ciclicità era scandita dalle stagioni, dai raccolti, dai cambi meteorologici. Il ritmo era tranquillo e la vita calma, i viaggi lunghi e le comunicazioni lente.

Oggi tutto corre e va, passa, si esaurisce nell’astratto della tecnologia, lasciando poche fotografie o fogli di carta, ma soprattutto impedendo di gradire allo stesso modo il tempo che viviamo, nasce così il bisogno di nuovi appigli per poter apprezzare uno schema così fitto e contorto. Appigli franchi che ci danno sicurezza, e la sicurezza sta dentro di noi, a ognuno la sua – col compito di gestirla – .

La passione e l’amore certamente possono guidare verso la felicità, verso una giusta sensibilità nei confronti della vita e dei suoi capitoli. Un libro che leggiamo e gustiamo, comprendendone le parole e amandone il sottile significato, appassionandoci dell’atmosfera nella quale ci facciamo condurre dall’autore, che ha amato tutto questo prima di noi. Lui come un’insegnante appassionato ci illustra le sue esperienze, le sue sensazioni volendo farci capire e condividere quel che anche lui ha amato.

Ed è così che si trasmette la saggezza, la lezione che resta segnata da quella comunicazione pregna di passione appunto, di coinvolgimento e di ascolto.

Mi viene spontaneo a questo punto ricollegarmi a quanto sta facendo di recente Roberto Benigni con la “Divina Commedia”, regalando alla piazza fiorentina, che ne onora l’autore, e agli spettatori televisivi una straordinaria dimostrazione di come la passione e l’amore siano colonna portante della propria ricchezza spirituale, e diventino di riflesso un canale conduttore verso gli altri.

In equilibrio tra poesia e prosa Benigni espone e trasmette a molti studenti, e a molti insegnanti,  il valore e la bellezza di questo poema, catturando quella esule farfalla che vola leggera tra comunicazione e ascolto. Incanta e appassiona chi sa ascoltarlo e seguirlo nella sua teatrale vivacità, e porta a scoprire quel che c’è di più vero in un augurio, quel che ci illumina nutrito dalla nostra luce.

Porta a scoprire la grande forza dell’amor…


G. A.

di Francesco M. T. Tarantino

Portavi nel nome la storia di gente consacrata

Scritto con le pietre preziose e gli oli profumati

Perle di saggezza lungo la vita contrassegnata

Da passi decisi ma, attraverso i figli, misurati

Eri un gigante di bontà e di innocente cortesia

Consulente di fiducia esperto di trasformazioni

Ci deliziavi di racconti di esperienze e fantasia

In un turbinio di commozioni senza frustrazioni

Hai visto crescere i figli e conosciuto i nipoti

Hai domandato ai sogni di avverarsi ancora

In una generazione nuova senza utili idioti

Senza la distanza d’oltreoceano che addolora

Vedesti partire i tuoi fratelli senza arrivederci

E solo la speranza di saperli vivi ti preparava

Ad un viaggio in un posto fatto per rimanerci

Sotto lo sguardo di tua moglie che ti guardava

Ed ora che vivi altrove ti respiro tra questi fiori

Ti sento soffiare col vento tra l’erba e le foglie

Mi chiedi chi sono e ti consegno i miei timori

Mi conosci: sono l’innaffiatore delle tue spoglie

IL DOPPIO VOLTO DELLA LONTANANZA

di Veronica Khayam

Mancano 10 giorni al mio rientro nella madre patria, e l’aspettativa si fa sempre piu forte…

La lontananza rende la memoria degli uomini talmente breve da far dimenticare la realta’, che 

d’ improvviso si presenta nel momento dell’ agognato arrivo.

Partire è come un po’ morire, tornare è come un po’ ricordare.

La vita dell’errante porta con se belle e brutte cose, una nostalgia constante  che lo porta a ricercare sempre e comunque cose che gli ricordino il suo paese d ‘origine.

Sotto Natale la necessità di ricordare e di essere nostalgici si fa piu’forte.

Ti guardi intorno camminando per una cittá che non è la tua, e mai lo sará, e non capisci perche’ le cose non funzionano, perche’ la gente non e’solidale ed educata…e la mente se ne va lontano alla terra d’ origine dove tutto era perfetto.

Dove nessuno ruba cellulari in mezzo alla strada, ti lasciano attraversare sulle strisce..

E uno dice ma no…in Italia e’ diverso, la gente saluta, la gente e’ educata, la gente si fa rispettare…qui in sud america no…

Tornando in patria si scopre che la lontananza ci ha fatto vedere le cose con occhi di nostalgico amore peri l nostro paese e che putroppo di perfetto non ha proprio niente.

Il Natale non e’ una festa consumistica che si reduce solo all’ acquisto di regali, e tanto di piu’…o no?

La nuova tendenza politica del mondo e’ al liberismo totale e assoluto che purtoppo nei Paesa poveri come il Perú genera solo quella che io chiamerei la politica del “credito”.

Per cui in questo bellíssimo periodo dell’anno le persone spendono e spandono con le loro carte di credito con interessi stellari che le porteranno ad indebitarsi con le banche.

Questo ancora una volta è il frutto dell’incultura da un lato e di una grande truffa economica dall’altro.

Far credere ai “poveri” di essere ricchi, mentre in effetti li spogliano, per via degli alti interessi pagati sui debiti, anche di quel poco che hanno. Questo in Italia si chiama “ usura”; in Sud America si chiama scintillante carta di credito!

Ma per me il Natale è il momento piú bello dell ‘anno.

Non ha nessun significato particolare, e’solo stare insieme tanto tempo condividendo le cose belle della vita, un buon bicchiere di vino davanti al camino con gli  amici di una  vita.

Per  me non esiste regalo migliore.

Vedere mia nonna che a 96 anni aggiunge un Natale in piú come la matriarca di una numerossima famiglia, di quelle che non ne esistono piú.

Ricordare quando eravamo piccoli e tutto ci sembrava allora cosi’ magico e semplice…


LAINO CASTELLO: UN TUFFO NEL PASSATO

di Nicola Perrelli                     

In attesa della conclusione, con la giornata del 6 gennaio, anticipiamo un primo bilancio della nona edizione del Presepe vivente di Laino Castello. Caratterizzata anche quest’anno dal coinvolgimento di decine di partecipanti, fra figuranti e organizzatori.

Il presepe come è noto inizia all’imbocco di un colle, non a precipizio, di questa zona dell’Appennino  calabrese dove sorge lo storico borgo, riaperto per questa manifestazione dopo una lunga e impegnativa ristrutturazione che lo ha trasformato in un interessante sito turistico e culturale della Regione Calabria.

Il programma delle giornate  prevede che i visitatori percorrano un suggestivo itinerario pedonale, in parte in salita, lungo la strada che porta al centro storico del paesino,  disabitato ormai dal 1982 in seguito al terremoto, ma non per questo però in stato di abbandono. L’amministrazione comunale ha infatti da tempo avviato un piano per il recupero e la riqualificazione dell’antico borgo come Centro Studi e  Borgo-albergo.

La prima giornata, quella del 26 dicembre, è stata un successo. Fin dal primo pomeriggio, uggioso ma non freddo, la strada d’accesso all’area del Presepe  è stata invasa da centinaia di persone  impazienti di assistere alla rappresentazione della Natività per cogliere il messaggio di pace che la grotta di Betlemme da sempre irradia.

Accanto alle scene di ispirazione biblica i visitatori hanno potuto vedere, da vicino e all’opera, anche quelle che riproponevano i mestieri tipici e i ritmi di vita della Palestina di 2000 anni fa.

Mentre un particolare interesse è stato  suscitato da tutte quelle rappresentazioni che facevano vedere i processi di lavorazione dei prodotti artigianali e culinari della tradizione locale.  

Alla riuscita della manifestazione contribuiscono chiaramente gli ambienti angusti  del borgo e gli anfratti naturali disseminati lungo il tragitto che porta al paese,  che restituiscono  scene davvero realistiche e coinvolgenti. Stradine scoscese, vicoli strettissimi, piccoli bivacchi illuminati da torce, la dignitosa povertà dei pastori,

l’utilizzo di antichi attrezzi, il grazioso slargo antistante la Chiesa Madre di San Teodoro dove la folla si ritrova per rifocillarsi e il suo vociare e i dirupi tutti intorno, fanno il resto suscitando un mix di nostalgia e meraviglia.

Non occorrono insomma effetti particolari o speciali, basta farsi guidare dai bagliori dei fuochi accesi e dai bracieri, guardare i figuranti intenti a  lavorare il ferro e il legno,  lavare, ricamare, tessere, cucinare, e ammirare la bellezza degli scenari per rivivere  l’evento che ogni anno rinnova la propria magia e  trasmette  serenità nell’animo.

Per sentirsi veramente coinvolti dall’atmosfera natalizia e vivere nuovamente la nascita di Gesù attraverso la visione di un presepe  vivente non c’è niente di meglio dunque che fare una passeggiata nel buio della sera per i vicoli fiocamente illuminati  del  piccolo borgo di Laino Castello.

LE TINTURE DELL’APOCALISSE

di Francesco Rinaldi

Quando sei bambino, impara le buone maniere

Quando sei adolescente, controlla le tue passioni

Quando sei un uomo maturo, sii un uomo giusto

Quando sei vecchio, dà buoni consigli

Quando muori, muori senza rimpianti”.

Pressappoco così, recita un antico detto greco, si dice risalente all’epoca di Alessandro il Grande.

I 110 metri dei meravigliosi – ma paradossalmente poco conosciuti, sicuramente meno noti del bel Castello che li ospita – arazzi di Angers, nella Loira atlantica, al confine con la Bretagna, disegnano, con sguardo inquietante e drammatico, la fine della storia di una umanità, vissuta a lungo.

E, forse, lo merita !

E’ un po’ come il vecchio che, nel detto greco, si spegne lentamente, chiudendo il lungo ed intenso percorso della sua vita, qui, senza rimpianti; nelle tinture, al contrario, con la visione apocalittica inevitabile, rappresentata da San Giovanni, in ginocchio, dinanzi al Cristo.

E’ un po’ come un viaggio che non terminerà mai, che ti avvolge incomprensibilmente.

Un viaggio in una storia gloriosa, il cui protagonista assoluto è solo un uomo, che percorre, in silenzio, millenni di passione.

Simili emozioni suscita la vista degli Arazzi, testimonianza della grandezza dei Duchi D’Angiò, protetti dalla inespugnabile cittadella fortificata di Angers ed acerrimi antagonisti degli Orleans, nella contesa del trono.

Questa lotta per il potere, per un posto nella storia e nella gloria, è ben descritta dai magnifici e celebri Castelli della Loira, che, disposti in fila lungo il

fiume, mai perdono il loro fascino, a volte banale, altre sorprendente.

E, così, vengono incontro, abbandonando Parigi e Versailles verso sud, in direzione di Orleans la Pulzella –, lungo la statale n. 152, i più bei castelli della Loira: Chabord, la piccola Versailles, si dice,

addirittura, essere stato progettato da Leonardo; Chenonceaux, il preferito, che sembra emergere dalle acque; Cheverny, l’essenziale;

Amboise, scelto da Leonardo, che vi riposa, e dai Templari, alimentandone l’alone di misterioso maniero; Blois, la cui raffinatezza molto ricorda le aristocratiche italiche dimore; Villandry, con i meravigliosi giardini ricchi di splendidi fiori dai mille colori; Azy le Rideau, che, seppure meno spettacolare di Chenonceaux, è, in parte, immerso nel fiume, che, circondandolo, lo separa dal suo bel parco; Ussé e Langais, il cui nome suona come un colpo di frusta e di cui colpisce l’imponenza dei bastioni; la spettacolare rocca di Chinon, dove nacque il medico e scrittore Rabelais, che di tanti si fece beffa.

Come schegge impazzite nel vento, la Loira ci spara nell’Oceano, ed è qui che termina il nostro viaggio, ammutoliti dalla sensazione di essere stati parte, almeno per un po’, di una storia irripetibile, al cospetto di un pallido tramonto atlantico, in attesa dell’Adorazione.

MORMANNO: NEI MEANDRI DELLE CANTINE

di Nicola Perrelli                     

L’otto di dicembre si è stati fino all’ultimo col fiato sospeso.

Le ire  di Giove Pluvio hanno funestato  Mormanno con una pioggia sferzante e continua per tutta la giornata.

Ma il richiamo del vino, fonte di gioia e di piacere, è stato più forte:  all’appuntamento c’erano tutti, locali e forestieri.

E cosi  il paese ha potuto offrire un colpo d’occhio straordinario.

Lungo le viuzze, che incrociandosi tra loro danno vita all’antico borgo, risaltavano, illuminati da luci  e fiammelle, gli stemmi degli antichi quartieri Torretta, Capo Lo Serro, Costa e Casalicchio.

Nei vicoli, attraversati in ogni senso da fiumane di persone, e nelle cantine, affollate, non si entrava più.

La settima edizione de La Festa delle Cantine è insomma riuscita benissimo. Il tempo inclemente e la pioggia non hanno arrestato l’afflusso dei visitatori, che anzi a dire il vero è stato superiore alle aspettative.

Come si dice: “festa bagnata, festa fortunata”.

“Perciavutti”, giorno della stura delle botti  del vino nuovo, è un avvenimento tradizionale   che si è conquistato nel giro di pochi anni  l’attenzione degli amanti della buona tavola, al punto che nella zona è ormai  considerato un vero e proprio  itinerario eno-gastronomico.

Un percorso che  si snoda nei vicoli dell’antico borgo dove un tempo nell’aria le fragranze del cucinato, l’odore del formaggio e l’aroma dei salumi messi a stagionare si mischiavano con l’odore del cortile,  dove si tenevano, spesso in un’unica stalla, gli animali domestici (galline, asini, maiali,pecore), orgoglio e dignità della civiltà contadina.

A “perciavutti” quest’atmosfera arcaica si rivive. Le  cantine, incastonate tra  case basse,  antichi archi, cortili oggi ornati di fiori odorosi  e ripide scalinate che si affacciano su viuzze lastricate, per una sera  sono erette a

cenacolo, a luogo d’incontro, e alla piacevolezza della conversazione con amici e avventori bene si accompagna il vino appena spillato dalla botte.

Andare per le cantine di Mormanno, e lungo l’itinerario ce ne sono tante, è un modo di viaggiare dentro un mondo non solo vinicolo ma anche ricco di tradizioni, specialmente culinarie.

Anche quest’anno la gastronomia mormannese ha proposto  una vastissima scelta di piatti e prodotti tipici. Le massaie  hanno fatto del loro meglio per esaltare e accompagnare le carni di maiale, manzo e coniglio,  le salsicce, le soppressate le frattaglie, il formaggio pecorino, la ricotta, il baccalà, i fagioli, i peperoni, le patate cotte e fritte, i funghi, le castagne, le noci, i condimenti, i dolci, i bocconotti e tutto il resto. Mentre regine dei primi piatti sono state  le paste fresche fatte in casa, come i classici cavateddri e  rascateddri.

Cibo, musica folk e danze popolari sono stati certamente gli ingredienti che hanno contribuito al successo della festa,  ma è  sotto la carezza del divino Bacco che una moltitudine di anime per una notte ha avuto l’impressione di trovarsi nel regno delle favole.

Prosit!!

A  PROPOSITO DELLE ORIGINI GEORGIANE

di Nino Garsenishvili

Sono stata contenta di vedere il mio articolo pubblicato su www.faronotizie.it. Ho saputo dall’Avv. Rinaldi che il mio articolo ha avuto successo e molti commenti: molte grazie a tutti!

Ho sentito anche che alcuni italiani pensano che io sia persiana ... "principessa di

persia..." ho ricevuto questo genere di complimento ... ma io voglio darvi informazioni corrette sulla mia origine.

Io sono Georgiana. Come io menzionai nel mio primo articolo noi siamo Cristiani dal primo secolo, la Persia ha una religione diversa, loro sono musulmani.

Io sono una persona tollerante, mi piacciono tutte le nazioni e le rispetto, anche nonostante il nostro passato con i persiani ... intendo le battaglie come molte altre nazioni hanno fatto prima.

Ma ora noi abbiamo buone relazioni con la Persia. Come molte nazioni, inclusa la vostra è orgogliosa della propria origine, anche io sono orgogliosa delle mie radici, io sono georgiana, abbiate fiducia in me, io ho molte cose di cui essere orgogliosa!

Io so che voi avete poche informazioni a proposito di noi... ci sono molte ragioni... per esempio la Russia abolì il regno della Georgia nell'anno 1801. Per  anni siamo stati una provincia russa. Nel 1921 la Georgia indipendente divenne membro dell'Unione sovietica sotto la pressione russa. Comunque ... il leader dell'Unione Sovietica era il georgiano Stalin... Sfortunatamente il mondo civilizzato pensa che l'Abitante della Georgia è Russo...(ed ora io sento che qualcuno pensa che l'Abitante della Georgia è anche Persiano) ma è un errore.

Comincio dall'inizio. Come voi sapete secoli prima che Dio creò il diluvio per i peccatori e le persone oscene ... lui salvò l'unica creatura umana che lo meritò, Noé, che aveva tre figli. Caucasici, così anche gli abitanti della Georgia sono discendenti di Targamos, il figlio di Noé.

Ci sono molti materiali archeologici che asseriscono l'antichità di persone georgiane ed il loro alto livello culturale! Antichi Greci ci raccontano sui pezzi d'antiquariato georgiano! Esiste un ciclo intero di storie in Georgia sul "Vello Dorato" o della "Compagnia dell'Argonauta" nella Georgia ricca d'oro in Kolkheti. I greci vollero rubare quel "Vello Dorato" sul quale fu scritta l'abilità di estrazione dell'oro.  Medea la figlia del re georgiano Aieti, (che regnò in quel periodo) divenne l'inventore della Medicina.

Ci fu il re Georgiano Parnavazi, fondatore della dinastia di Parnavazian Prima di Cristo nei secoli quarto e terzo. Lui fu ben istruito, un uomo coraggioso e stava governando la Georgia con grande saggezza. Lui realizzò uno dei più grandi arrangiamenti culturali, dichiarò la lingua

Georgiana come la lingua statale, estese l'alfabeto Georgiano, l'alfabeto che è uno dei 14 alfabeti esistenti nel mondo! Quindi il nostro proprio alfabeto Georgiano è anche una lingua antica, risale circa al 7° secolo AC.

Il prossimo Antenato della Georgia è Bagrationi. Proprio ora vicino la mia città in Dmanisi fu effettuato uno scavo archeologico. Là furono trovati i crani di un uomo antico e una donna. È asserito che in Europa uomini antichi vissero qui... Il cranio di uomo è stato chiamato Zezva e Mzia quello di donna, nomi georgiani. (in quello scavo lavorarono molti archeologi stranieri insieme ai georgiani).

Penso di avervi dato informazioni interessanti sulle mie origini! Ora scriverò di altre cose sulla Georgia ... le tradizioni e così via e se meriterò ancora la vostra simpatia e complimenti preferisco essere chiamata "principessa georgiana" invece di "persiana", perchè io sono Georgiana!

ANFITEATRO DEL SOLE

di Marilena Rodica Chiretu

Sul piede di un prato,

sorride la bocca del paradiso,

i colli ricchi di frutteti e vigne,

labbra carnose,

baciano le altezze miti delle montagne.

Lì, nella valle dei sospiri,

tra le sorgenti dei desideri,

vivo io, nella contrada degli avi,

respiro la dignità degli abeti,

mi nutro con la linfa delle radici,

cammino sul sentiero che mi porta nel cuore del Paese,

del mio Paese, l’ anfiteatro del sole

spento dal dolore muto del passato,

acceso dagli sguardi audaci del futuro.

Ci sono qui, sulla terra soprannominata

 “il Giardino della Santa Vergine”,

sono io, così piccola e fragile,

davanti alla grandezza e alla potenza

di un mondo dimenticato

sulla sponda dell’ amore.

Gira il vento intorno a noi

e allontana la tempesta

quando io e te ci lasciamo abbracciati

dai rami della quercia

e ricamiamo l’ amore come le sue foglie,

ritrovandoci alla “Porta del bacio”.

L’ immagine tremola

 nelle mani di vita innamorate,

mentre alzo, di pensieri, di parole e di suoni,

la ”Colonna dell’ infinito”,

sulla quale vorrei che saliamo insieme,

per averti sempre, qui, vicino a me:

“su un piede di prato,

su una bocca di paradiso” *.

perché io ho vissuto, un attimo,

in inferno.

* “Mioriza” ballata popolare romena

AMFITEATRUL SOARELUI

Pe- un picior de plai,

zambeste gura raiului,

dealurile si livezile, buze carnoase,

saruta inaltimile muntilor.

Acolo, in valea suspinelor,

printre izvoarele dorintelor,

traiesc eu, in tinutul strabunilor,

respir demnitatea brazilor,

ma hranesc cu seva radacinilor,

merg pe drumul care ma duce

in inima tarii,

a tarii mele, amfiteatrul soarelui

stins de durerea muta a trecutului,

aprins de privirile indraznete ale viitorului.

Sunt aici, pe pamantul numit

“Gradina Sfintei Fecioare”,

sunt eu, atat de mica si fragila

in fata maretiei si puterii

unei lumi uitata pe tarmul iubirii.

Se roteste vantul in jurul nostru

si indeparteaza furtuna

cand eu si tu ne lasam imbratisati

de ramurile stejarului

si brodam iubirea ca frunzele sale,

regasindu- ne la “Poarta sarutului”.

Imaginea tremura in mainile

de viata indragostite,

in timp ce inalt, din ganduri,

cuvintele si sunete,

“Coloana infinitului”,

pe care as vrea sa urcam impreuna,

pentru a te avea mereu, aici, langa mine:

“pe- un picior de plai,

pe- o gura de rai”*

pentru ca eu am trait, o clipa,

in infern.

* ”Miorita”- balada populara.

AZIENDA AGRICOLA CONTE COLLALTO

di Piero Valdiserra

Un tuffo all’indietro nel passato di oltre 600 anni, precisamente nel 1345. Ai piedi del Castello di San Salvatore Collalto, in provincia di Treviso, si susseguono scene emozionanti di vita medievale: la vendemmia, la pigiatura dell’uva con i piedi, la caccia con il falcone, l’animata vita delle botteghe artigiane, i funambolismi dei giocolieri e dei musici, le parate degli armigeri.

Parliamo della terza edizione di “Vigne nel tempo”, la rievocazione storica della vendemmia del Medioevo recentemente svoltasi (30 settembre) a Susegana, nelle grandi, bellissime tenute dei Conti Collalto, e confortata da un grande successo di pubblico.

È dal Medioevo infatti che i Conti Collalto producono vini. Di antichissima origine longobarda, i Collalto affondano le loro radici familiari nella storia della Marca Trevigiana. Attorno all’anno Mille governano, con il titolo di Conti di Treviso, la stessa città. Tra il XII e il XIII secolo si stabiliscono tra le Prealpi e il Piave, dove erigono i Castelli di Collalto e di San Salvatore (in quest’ultimo si svolgono ancora oggi diverse manifestazioni culturali e, da qualche anno, “Vino in villa”, la principale kermesse organizzata dal Consorzio di Tutela del Prosecco di Conegliano Valdobbiadene).

L’Azienda Agricola Conte Collalto dispone oggi di 250 ettari di terreno, in gran parte adibiti a vigneti (142 ettari), quindi a pascolo, seminativi e bosco. Tutta la filiera produttiva, dalle operazioni di vigna alla vinificazione in cantina, è posta sotto il suo controllo. La produzione attuale è di circa 850mila bottiglie l’anno, di cui 550mila di Prosecco DOC, nelle sue varie versioni, e 300mila di vini rossi (7 varietà) e bianchi (10 varietà). Per quanto concerne il Prosecco, l’Azienda è fra le più grandi realtà private che producono questa varietà; nel novero degli altri vini, spiccano in particolare gli Incrocio Manzoni, ottenuti da una lunga e accurata selezione nel corso dei decenni, e il raro Wildbacher, portato dalla Stiria austriaca nella Marca Trevigiana proprio da un Collalto.

A completare il portafoglio aziendale vi sono anche una grappa e un olio extravergine d’oliva (l’ulivo, pianta mediterranea per eccellenza, tra i vigneti e i boschi locali ha trovato un ideale microclima).

La cantina aziendale, un esempio straordinariamente conservato e integro di architettura industriale di inizio Novecento, vanta la presenza di botti centenarie, ormai adibite a una funzione essenzialmente museale, e impianti di vinificazione di avanguardia.

Dal punto di vista squisitamente commerciale, l’Azienda Agricola Conte Collalto ha fatturato nel 2006 una cifra d’affari complessiva di 4 milioni di euro, per il 69% realizzati in Italia e per il 31% all’estero. Per quanto riguarda la canalizzazione, il 70% viene commercializzato attraverso il settore Ho.re.ca., mentre la restante parte viene venduta direttamente attraverso lo spaccio aziendale.

Venendo alle vendite nei Paesi esteri, la Germania rappresenta il primo mercato. Al secondo posto si piazza il Nord America; vengono poi nell’ordine la Svizzera, l’Austria, l’Olanda, l’Inghilterra, il Giappone. Molto interessanti e ricettivi, in prospettiva, si stanno rivelando anche i mercati indiano, coreano e cinese.

La Principessa Isabella Collalto de Croÿ, al vertice dell’Azienda dal luglio 2007, in considerazione delle potenzialità produttive sia in vigna sia in cantina, si pone l’obiettivo di raggiungere nel breve termine il traguardo del milione di bottiglie annue.

Per informazioni: Azienda Agricola Conte Collalto, Via 24 Maggio 1, 31058 Susegana (TV),

tel. 0438 738241, fax 0438 73538, www.cantine-collalto.it

RICETTA: CARDI IN  PASTELLA

di Elisabetta Coniglio

Ingredienti per la pastella :

Farina 00

Lievito di birra (50 gr per kg di farina)

Acqua

Latte

Sale (1 cucchiaino da caffè colmo per kg di farina)

Olio di oliva (1 bicchierino)

Procedimento pastella:

in una terrina a sponde molto alte (anche una pentola va bene) fare sciogliere il lievito in un piccolo quantitativo d’acqua, successivamente unirlo alla farina e amalgamare aggiungendo acqua e latte nella stessa quantità, il sale e l’olio d’oliva.

Il composto deve diventare cremoso e denso. Lasciare riposare 1 ora.

Per i cardi:

tagliare i cardi a tocchetti di circa 10 cm di lunghezza, eliminando quanti più filamenti possibili dalla verdura. Mettere i cardi in acqua tiepida e succo di limone; dopo ½ ora scolarli, lavarli e cuocerli in pentola a pressione con acqua  sale e mezzo limone per circa ¾ d’ora.

A questo punto prenderli uno per volta immergerli nella pastella in modo che il vostro bastoncino di verdura ne sia completamente avvolto poi friggerlo in abbondante olio caldo.

Il prodotto finale sarà una nuvola croccante di pasta gustosa con un cuore vegetale di retrogusto dolciastro.

RICETTA:PASTA CON LE SARDE A MARE

di Elisabetta Coniglio

Con questa ricetta vi faccio partecipe di uno dei piatti più rappresentativi della cucina siciliana, di una cucina talmente povera da arricchirsi anche di ingredienti che non ne prendono parte.

Questa pasta le cui sarde sono rimaste in mare vi stupirà per il suo sapore unicamente mediterraneo.

Ingredienti:

Finocchietti di montagna 3 mazzi

Spaghetti 500 gr

Passolina e pinoli

Acciughe sott’olio 90 gr (sgocciolati)

Passata di pomidoro ½ litro

1 grossa cipolla

Procedimento:

Ripulire i finocchietti liberandoli dai gambi duri e spessi e metterli a cuocere in acqua e sale.

Soffriggere la cipolle tagliata a piccoli dadini, aggiungere le acciughe, i passolini, i pinoli e i finocchietti cotti di cui abbiamo conservato il brodo di cottura.

Completare il tutto con l’aggiunta della passata di pomodoro e sale a sufficienza, fare cuocere a fuoco basso in modo da fare restringere e insaporire la nostra salsa.

Cuocere gli spaghetti con il brodo di cottura dei finocchietti facendo attenzione a non completare la loro cottura. Amalgamare gli spaghetti con la salsa, sistemarli in un piatto da portata con relativo coperchio, in modo da mantenere la temperatura (per il completamento della cottura) e lasciare riposare almeno mezz’ora.

FELICES FIESTAS

di Ileana M. Pop

A Natale i bambini della capitale spagnola sono molto più fortunati rispetto a quelli di altre città perché Babbo Natale non avrà alcuna difficoltà a scorgere dall’alto le loro case. Come tutti gli anni, infatti, la capitale spagnola viene illuminata a giorno dagli addobbi natalizi: stelle cadenti, caramelle colorate e alberi giganteschi fanno da sfondo alle frenetiche attività natalizie.

Qui non si scherza mica con queste cose!

Già da luglio la gente inizia a pensare a questo periodo dell’anno facendo la fila nella ricevitoria più gettonata di Madrid (Doña Manolita, nella Gran vía) o andando in pullman a Sort, paesino catalano apparentemente baciato dalla fortuna, nella speranza di mettere le mani sul Gordo, primo premio della lotteria di Natale. È usanza che aziende, bar, parrucchieri e compagnia bella comprino vari biglietti e ne mettano in vendita delle percentuali affinché dipendenti e clienti possano sperare di vincere con uno stesso numero e festeggino tutti insieme; e non mancano di certo gli acquirenti disposti a sganciare venti euro pur di non dover morire dall'invidia nel caso in cui il numero del loro macellaio di fiducia dovesse venire estratto. Il verdetto viene cantato (sì, cantato!) il 22 dicembre da alcuni bambini della scuola San Ildefonso di Madrid, appositamente istruiti e preparati per poter leggere cantando numeri a cinque cifre.

Naturalmente, se sono qui a raccontarvi tutto ciò, è perché il 06381 (seis mil trescientos ochenta y uno, come lo cantano i bambini) non era né il biglietto della Casa Editrice in cui lavoro, né quello della mia palestra.

Tornando alle occupazioni natalizie degli spagnoli in generale e dei madrileni in particolare, questo è anche il periodo dell’anno in cui la gente compra e riceve grandi ceste di Natale contenenti prosciutti e vini e va a festeggiare con i colleghi di lavoro fino all’alba. Per le strade del centro si cammina sgomitando, compressi dai corpi delle persone indaffaratissime che entrano ed escono dai negozi. Il profumo delle caldarroste e la musica degli artisti di strada stimolano l’appetito e la fantasia, rallegrando gli animi.

Il Corte Inglés (catena di centri commerciali che detiene in pratica il monopolio dei portafogli spagnoli) rimane aperto tutti i giorni fino alle 22: quello di Preciados non sarà il più frequentato di tutti, ma è sicuramente il più amato dai bambini. Ogni anno, infatti, sulla facciata posteriore dell’enorme centro commerciale situato in pieno centro, viene montato Cortylandia, un vero e proprio spettacolo per bambini con musica, dialoghi e sfondi a tema che cambiano di anno in anno. Questa è una vecchia tradizione itinerante sponsorizzata dal Corte Inglés che dal 1979 fa il giro del paese cambiando città e tema ogni Natale ed è molto cara a tutti i madrileni, che aspettano le feste invernali per portare i propri figli a questo appuntamento fisso. Lo spettacolo ha luogo a orari precisi e l'affluenza è davvero numerosa; alla fine della rappresentazione un fiume di persone infreddolite scende verso Sol  e la calle Arenal con bambini in spalla e palloncini colorati, cantando l’amato ritornello ¡Cortylandia, Cortylandia vamos todos a cantar, alegría en estas fiestas porque ya es Navidad!

Tra la folla spiccano persone mascherate e grandi parrucconi multicolori: non è un’anticipazione del Carnevale, ma solo l’apoteosi dell’allegria della gente e della voglia compulsiva di spendere nelle bancarelle del mercatino della Plaza Mayor, nella quale, oltre ai tipici addobbi natalizi, si vendono anche parrucche, coriandoli e scherzi di tutti i tipi: il 28 dicembre è il día de los Inocentes e, con grande sorpresa dei tanti turisti di passaggio, è possibile essere vittima di veri e propri pesci d'aprile. Non si sa esattamente come l'episodio biblico del massacro dei bambini in Giudea sotto il re Erode sia arrivato a suscitare risate piuttosto che lacrime, ma la stampa non si risparmia notizie fasulle, le fontane si riempiono "magicamente" di schiuma ed è meglio guardarsi le spalle il più possibile.

Un po’ come in Italia, il Natale si passa in famiglia e spesso anche il Capodanno. Le famiglie si riuniscono intorno alla tavola imbandita e aspettano i rintocchi della campana della puerta del Sol in compagnia di nonni, nonne, zie e cugini, sgranocchiando torrone, frutta secca o mangiando polvorones (dolci a base di farina di mandorle che vanno schiacciati con forza nel pugno della mano prima di essere morsicati). La tradizione vuole che, invece di fare il conto alla rovescia degli ultimi dieci secondi dell’anno che sta per terminare, si contino i primi dodici rintocchi del nuovo e che si mangi, per ogni rintocco, un acino d’uva. Per la cronaca, nonostante l’orologio di Sol venga modificato perché la campana batta un po’ più lentamente rispetto al tempo reale, questo momento propiziatorio per l'anno nuovo è una vera lotta contro il tempo e contro la natura umana che non ci ha dotato di una bocca sufficientemente capiente e di una mascella così veloce da poter rispettare questa tradizione evitando di riempire la bocca fino a non poter più parlare, con conseguenti risate a lacrimoni.

Prima del rientro a scuola e della fine delle ferie invernali è praticamente obbligatorio assistere alla cabalgata de Reyes: evento da non perdere il 5 gennaio, giorno in cui i Re Magi percorrono le vie del centro di Madrid su fastosi carri dall’aria carnevalesca, lanciando caramelle e coriandoli. Per le strade, lottando per non soccombere sotto la folla, bambini e genitori aspettano le parole dei 3 Re venuti dall'oriente.

Fino a pochi anni fa, prima che prendesse piede la moda del nonno barbuto vestito di rosso che distribuisce regali, i bambini spagnoli dovevano aspettare il 6 gennaio per ricevere i doni tanto desiderati: dopo aver messo le scarpe sotto l’albero (o sotto il presepe) e aver lasciato in soggiorno acqua per i cammelli e cibo per i Re Magi, i bambini andavano a letto, aspettando con gioia di scartare i regali la mattina dopo.

E dopo aver scartato i regali, tutti in cucina a mangiare un pezzo di roscón de Reyes! La ciambella decorata con frutti canditi e farcita spesso con panna o crema al cacao, è l’ennesima fonte di allegria per le famiglie: al suo interno, infatti, si nasconde un regalo (un ciondolo, un animaletto di porcellana o un portafortuna): chi lo trova nella sua fetta, secondo la tradizione, dovrà impegnarsi a comprare il Roscón successivo. Come ogni proposito  per il nuovo anno, questo non si rispetta quasi mai, ma è bello crederci!

¡Feliz Navidad y próspero año nuevo!


L’INDUSTRIA DEL RICICLO IN ITALIA   (seconda parte)

di Nedo Biancani

I punti di forza del sistema italiano del riciclo

Un primo elemento che quasi tutte le audizioni hanno evidenziato è il buono stato di salute dell'industria del riciclo nelle sue varie articolazioni. L’industria del riciclo è stata infatti capace di crescere molto più dell'industria italiana nel suo insieme, con un indice del più 5 per cento nel periodo 2000-2004, contro più 3,8 per cento nello stesso periodo per l'industria nel suo complesso. Negli ultimi 10 anni, accanto al tradizionale comparto del recupero e riciclo di rottami metallici, sono comparse opportunità del tutto nuove e importanti in settori come quello delle materie plastiche, del legno, degli oli e delle batterie, mentre hanno preso nuovo e significativo slancio quelli della carta e del vetro. In particolare il riciclo dei rifiuti da imballaggio (insieme ad alcune categorie di materiali come gli oli usati e le batterie esauste) ha conosciuto un significativo sviluppo dopo l'approvazione del decreto legislativo n. 22 del 1997. I dati presentati dai rappresentanti dei diversi consorzi di filiera hanno confermato questo quadro, che può essere sicuramente ancora migliorato incrementando la capacità della nostra industria di riutilizzo dei materiali provenienti dalla raccolta differenziata.

Questi risultati positivi sono stati resi possibili da almeno tre principali fattori: il significativo aumento della raccolta differenziata dei rifiuti da imballaggi [40] , il corretto impianto normativo, che, una volta definiti criteri generali e obiettivi di recupero e riciclo, ha lasciato all'autonomia dei soggetti pubblici e privati coinvolti - ANCI e CONAI in primo luogo - la definizione del concreto quadro operativo per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, coerentemente al principio della responsabilità condivisa; le concrete scelte operate dai soggetti coinvolti.

All'interno di questa generale cornice positiva delineata dall'indagine, alcuni elementi specifici meritano di essere meglio analizzati. Ad esempio,

l'indagine ha posto in rilievo l'indubbia crescita della capacità dell'industria del riciclo italiana nel suo insieme di fornire le cosiddette «materie prime secondarie», ottenute dalle attività di riciclo, ad una porzione importante del sistema industriale del Paese, per la quale tali

materie prime secondarie costituiscono sempre più una indispensabile fonte di approvvigionamento [41] .

Nel corso dell'indagine conoscitiva, inoltre, tutti i soggetti hanno affermato che l'industria del riciclo ha già oggi le potenzialità per assorbire un eventuale aumento di materiali provenienti dal rafforzamento e dalla diffusione su tutto il territorio nazionale di più elevati livelli di raccolta differenziata. L'indagine ha confermato, se ce n’era bisogno, l'importanza del contributo che l'industria del riciclo italiana può apportare, in una prospettiva di sostenibilità, alle politiche ambientali ed energetiche del Paese, anche ai fini del rispetto degli obblighi derivanti dal Protocollo di Kyoto.

Senza entrare nel dettaglio dei singoli settori, vale almeno la pena ricordare i progressi ottenuti, ad esempio, nel settore del riciclo dei rifiuti industriali, nelle attività di recupero e di riutilizzo dei materiali inerti e dei rottami metallici provenienti dagli impianti di «autodemolizione» o, ancora, nelle attività di recupero delle batterie esauste e dell'alluminio secondario.

Vale inoltre la pena di segnalare che - secondo il Rapporto Rifiuti 2006, curato dall'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (APAT) e l'Osservatorio nazionale sui rifiuti (ONR) - la raccolta differenziata dei rifiuti urbani riguardava ormai, alla fine del 2005, 7 milioni e 700 mila

tonnellate di materiali e che la raccolta differenziata, dove è stata avviata,

ha finalmente offerto un’alternativa credibile e positiva allo smaltimento in discarica. Allo stesso tempo, come evidenziato dalla Relazione CONAI sulla gestione 2006, la stabilizzazione degli imballaggi immessi al consumo e la crescita del loro recupero ha consentito una netta riduzione dei rifiuti di imballaggio avviati in discarica, con una diminuzione rispetto al 1998 del 42 per cento. Nonostante lo smaltimento in discarica continui ad essere uno dei punti più critici del sistema italiano, resta il fatto che oggi in discarica finiscono annualmente poco più di 4 milioni di tonnellate di rifiuti di imballaggio, a fronte degli oltre 7 milioni del 1998.

Esiste, quindi, ed è il più visibile e immediato, un primo beneficio ambientale rappresentato dalla concreta riduzione di un'enorme quantità di rifiuti che, se non avviati al riciclo, avrebbero dovuto trovare una localizzazione per il deposito e lo smaltimento in discarica, con annessi problemi ambientali e sociali.

Il riciclo e il reimpiego industriale dei materiali producono, come ulteriori benefici ambientali, una riduzione netta dell'estrazione di risorse non rinnovabili, come l'alluminio, e di risorse rinnovabili, come il legno, nonché una rilevante riduzione dei consumi energetici e delle emissioni atmosferiche, connessi ai processi produttivi sostituiti. L'impiego di materiale riciclato in sostituzione di materia prima vergine consente risparmi energetici che vanno dal 95 per cento, nel caso di utilizzo di alluminio secondario, ad un 50 per cento nel caso di impiego di plastica riciclata.

L'indagine conoscitiva della Commissione Ambiente della Camera ci consegna quindi un fotografia di un settore industriale in buona salute, con prospettive di ulteriore crescita e con punte produttive di eccellenza, parte essenziale di un sistema integrato «pubblico-privato» di gestione del ciclo dei rifiuti al quale si guarda con interesse e attenzione anche in ambito internazionale.

Le criticità del sistema

Dall’indagine emergono le criticità del sistema del recupero dei rifiuti in Italia. In primo luogo, la questione territoriale, ben rappresentata dall'espressione «un'Italia a più velocità», con un Nord che raccoglie (e conseguentemente in proporzione ricicla) quasi il doppio del Centro e quattro volte il Sud, il quale è in clamoroso ritardo rispetto al Nord, che presenta, non senza eccezioni, standard di raccolta differenziata, e quindi un'industria del riciclo a livelli di eccellenza europea. Sotto questo profilo,

l'indagine conoscitiva ha fatto emergere dati inequivoci, ma accanto a questi dati - va detto con chiarezza - ha fornito risposte articolate e qualche volta divaricate sia sulle cause sia sulle soluzioni necessarie per invertire la rotta e colmare progressivamente la distanza, , inaccettabile, fra le diverse aree del Paese. Sul dato negativo di un clamoroso ed inaccettabile ritardo del Mezzogiorno c'è stato consenso unanime. Più articolata risulta invece l'indicazione delle cause di tale ritardo e la prospettazione delle possibili soluzioni.

 Sostanzialmente, l'intero ciclo delle audizioni è stato attraversato da una «linea di faglia» che ha visto su posizioni abbastanza differenziate i due maggiori protagonisti della vicenda, da una parte il sistema consortile e dall'altra il sistema delle autonomie locali. Il sistema consortile, sia pure riconoscendo i margini esistenti per un ampliamento della propria iniziativa nel Mezzogiorno, ha sostanzialmente indicato come causa principale dei gravi squilibri territoriali la mancanza o la debolezza, nel Sud del Paese, di una volontà politica che voglia muoversi chiaramente

Nella direzione della raccolta differenziata, che garantisca un flusso di materiale da riciclare significativo per le quantità e costante nel tempo. Il sistema delle autonomie locali, pur senza negare l'esistenza di tale questione, ha puntato invece l'accento sul progressivo «rilassamento» del sistema consortile, forte anche dei risultati raggiunti in questi ultimi dieci anni, per quanto riguarda la necessità di colmare la distanza fra Mezzogiorno e il resto del Paese e, più in generale, sul suo progressivo presunto distacco rispetto alla tenuta complessiva, anche sul piano finanziario, del sistema di gestione del ciclo dei rifiuti.

La Commissione ha segnalato che in relazione alla capacità complessiva del sistema di riciclare tutti i materiali raccolti, da un lato l'ottimizzazione dei sistemi di raccolta e di riciclo dei rifiuti di imballaggio e l'innovazione tecnologica introdotta nelle aziende di raccolta e riciclo dall’altro, hanno consentito negli ultimi anni la riduzione della quantità di materiale non riciclabile. Persiste tuttavia una percentuale di scarti, da considerare al momento inevitabile, che deriva non solo dal funzionamento di tali sistemi, ma anche dalle caratteristiche intrinseche dei materiali.

Vi sono comunque altri elementi generali di criticità, rispetto ai quali la Commissione non ha distolto lo sguardo. Il buon livello di sviluppo del recupero di rifiuti nelle regioni settentrionali comporta inevitabilmente un afflusso della parte più rilevante del contributo ambientale (proveniente

dalle risorse finanziarie di tutto il Paese). Le potenzialità del contributo ambientale, sia come strumento che favorisce la condivisione delle responsabilità del sistema consortile e di quello delle autonomie, sia come meccanismo in grado di generare un maggior flusso di risorse, è quindi legato a filo doppio al miglioramento dell'attività di raccolta differenziata nel Mezzogiorno.

Un altro ordine di problematicità investe invece l’attuale condizione di perdurante convenienza dello smaltimento in discarica. Stando così le cose, l'avvio di politiche integrate di gestione dei rifiuti efficaci ed efficienti, soprattutto in alcune aree del Paese, rimane fermo al palo.

Le conclusioni della Commissione ruotano intorno all’esigenza di rafforzamento del sistema di gestione del ciclo dei rifiuti, in particolare quello in ambito urbano, e intorno alla valorizzazione del rapporto collaborativo tra Enti Locali e Consorzi.

Rimangono a mio avviso comunque anche criticità e mancanze dovute soprattutto e solamente per il Sud (la Campania ne è un esempio eclatante), alla incapacità di pianificare prima e rendere operativo poi il sistema della Raccolta Differenziata. Il colpo di grazia arriva infine dal perdurare del modus operandi e vivendi di allocare in discarica di tutto e di più, osteggiando e combattendo impianti di qualsivoglia genere che comunque andrebbero a completare il ciclo di recupero e riuso dei rifiuti.

Va inoltre sottolineato che pure in quei settori già avviati e sperimentati del recupero, come ad esempio i rottami ferrosi e non, con ciclicità si ripresenta il problema delle regole e delle loro interpretazioni; una maggiore chiarezza legislativa potrebbe certo meglio aiutare tutte le filiere del riuso e del riciclo dei rifiuti.


TORNANDO A CASA

di Carla Rinaldi

Ogni tanto, non so se capita anche a voi, è piacevole ripescare nella propria videoteca qualche vecchio film, rivederlo e, nel caso di “Tornando a casa” di Al Ashby, restare basiti.

La pellicola del 1978 vinse due golden globe, due Oscar a John Voight e Jane Fonda e soprattutto smascherò il becero mondo che ritrovavano i reduci del Vietnam appunto, tornando a casa. Fino ad allora  l’industria cinematografica americana che notoriamente era ed è nazionalistica e patriottica, aveva prodotto molti film sull’argomento ma spesso si riducevano a sequenze eroiche e a celebrare la propria nazione.

Altri registi in verità avevano raccontato dell’orribile verità che avveniva in Cambogia, basti pensare a Dalton Trombo che nel 1970 aveva scioccato il mondo con la storia di un reduce completamente paralizzato che sperava solo di morire in “E Johnny prese il fucile”, però Asbhy è riuscito ad inserire in un contesto normale storie straordinarie di pentimenti, riflessioni, amori, sesso e rimorso.

La storia ruota intorno a Jane Fonda, moglie di un ufficiale che parte convinto e galvanizzato per uccidere quanti più vietcong gli passavano davanti, lei resta a casa ma decide di fare volontariato in un ospedale per reduci dove incontra un vecchio compagno di college, John Voight, paralizzato e straniato al ritorno in patria. Tra i due nasce un sentimento fino ad arrivare a fare l’amore in una sequenza magistrale che svela come chi non ha più sensibilità dal busto in giù, riesce ancora ad averne nel cuore e nella quotidianità.

Il marito torna in patria, viene decorato con una medaglia per colpi ad una gamba che lo ha reso claudicante, in verità lui è semplicemente scivolato sotto la doccia, lo racconta alla moglie e le dice anche di sapere che lei, nella sua assenza, ha iniziato una relazione con il reduce Voight.

Le cose si complicano, lui impazzisce, e alla fine si ammazza facendosi sommergere dalle onde dell’oceano. La riflessione è potentissima, nessuno alla fine di una guerra è vincitore, anche chi riceve una medaglia, perché spesso le cose non sono mai come sembrano: una moglie di un ufficiale ricco e decorato preferisce l’amore di un derelitto, un derelitto riesce a tornare il senso della vita e ruota la carrozzella come se stesse camminando, un uomo apparentemente potente e soddisfatto si rende conto che non serve a niente una guerra e la vita che ha vissuto era meglio non viverla.

Guardate questo film e tutti gli altri che vedrete dopo vi sembreranno solo banali bozzetti e macchiette di una guerra terribile ed inutile. Nel 1972 anche Micheal Cimino vinse l’Oscar per “Il Cacciatore”, c’era voglia di pace quell’anno a Hollywood.

IL LOMBRICO D’ACCIAIO

di Erika Scotti

Grazie al tipo di attività di mio marito sono venuta a contatto, negli anni , con Paesi, usi e ambienti lavorativi differenti.

La prima vera esperienza e' stata la Malesia, dove vivevamo in un piccolo paesino a un'oretta circa di distanza dalla capitale Kuala Lumpur.

Ricordo che c'erano mattine in cui si scommetteva, aprendo la portafinestra per accompagnare la mia dolce metà alla macchina, se saremmo stati aggrediti dal puzzo delle fogne all'aperto misto all'umidità o se il vento sarebbe stato clemente mandandoci il profumo della collezione di orchidee del nostro dirimpettaio. Non si può certo dire che la cura dell'ambiente fosse una priorità  laggiù

Poi e' venuto il Brasile; città più grande, sul mare. La spiaggia non era pulitissima ma per lo meno si vedeva un certo impegno nel tentativo di mantenerla a un livello di decenza accettabile considerando anche il fatto che era una città di porto. Stranamente la parte di spiaggia più bella e curata era quella tacitamente riservata ai trans, ho sempre avuto il sospetto che le cartoline delle spiagge brasiliane in vendita a ogni angolo vengano scattate proprio in questa parte di spiagge, file e file di ''lati B'' sodissimi coperti solo da minuscoli tanga....non c'e' che dire...nella cura della persona c'e' solo da imparare, non ne ho mai visto uno o una ( non so davvero come dire ) che non fosse perfettamente pettinato e truccato, con unghie come opere d'arte e con un'allegria che avrebbe tirato su il morale a chiunque.

La Cina, qualche anno dopo mi ha lasciata a dir poco interdetta, vivevamo in un lussuosissimo e nuovissimo Sheraton Hotel.

La cosa più impattante era il paradossale divario tra gli hotel dove tutto era dorato e splendente in maniera quasi volgare  e la povera gente che viveva in capanne miserabili ai margini delle grosse vie che vantavano i negozi più esclusivi. Ricordo ancora il fetore nauseabondo dei mercati contadini e i bambini che, senza pannolini, a uno o due anni orinavano in mezzo alla strada guardando incuriositi il piccolo ruscello che si diramava davanti a loro.

Un  grosso capitolo della mia vita e' stato il Venezuela.

Li' si aveva l'impressione di vivere in una telenovela, tutti avevano relazioni extraconiugali con tutti, donne che avevano tre o quattro figli ognuno dei quali con un cognome differente. Paese colorato, allegro, pieno di controsensi ma nel quale ho lasciato il cuore.

Anche qui il rispetto per l'ambiente era pari a zero. Il lunedì mattina raggiungere il supermercato significava fare lo slalom tra resti di cibo e di bottiglie di alcolici, testimoni della consueta bisboccia del venerdì sera, quando gli operai che riuscivano a sfuggire agli appostamenti delle rispettive donne che venivano a batter cassa di fuori del cancello del posto di lavoro, dilapidavano il guadagno della settimana in pochi minuti  a suon di birre e whisky.

Ed ecco che arriviamo alla cara Lasso (Ecuador) e vivendo in una casetta di proprietà dell'acciaieria per la quale lavora mio  marito a circa un 150 metri in linea d'aria dal cantiere non mi aspettavo certo di trovare un ambiente sano e ragionevolmente pulito.

Niente di più sbagliato!! La compagnia e' circondata da prati verdissimi, casa mia compresa. In questo esatto istante sto ascoltando muggire una delle sei mucche pezzate che gli operai si sono comprati con una colletta.

In questi giorni l'ingegner Guillermo, direttore di fabbrica, sta facendo chiudere un area da adibire alla lombrico coltura. Tutto il complesso e' stato abbellito con piante e fiori vari comperati nel vivaio di fiducia (un'acciaieria  che ha un vivaio di fiducia!!!) di cui ovviamente approfitto per  ottenere prezzi di favore sugli ortaggi da piantare nel mio orticello.

Il progetto di espansione della fabbrica e' stato discusso con i rappresentanti del medio ambiente locali in modo che il nuovo capannone, molto più alto e imponente del primo non disturbi più del necessario il panorama. Il giorno della presentazione sembrava Natale, non c'era esponente di fabbrica che non fosse incravattato e profumato e una sfilza di macchina appena lustrate facevano bella mostra nel parcheggio.

Altra preoccupazione della dirigenza e' la spazzatura, ci si sta attrezzando per imporre a tutti, all'interno della recinzione che delimita la proprietà di Novacero , la raccolta differenziata.

Probabilmente a voi sembra qualcosa di normale, se non scontato, ma non dimenticate che qui siamo in Sud America...credetemi quando vi dico che trattasi di evento eccezionale.

Tanto per spiegarvi meglio il livello di sensibilità  di questa gente vi dirò che l'ufficio in cui lavora il direttore e la sua segretaria e' un edificio basso all'ombra di un enorme pino che causa all'interno dell'ambiente di lavoro un freddo e una umidità davvero inclementi. Se all'esterno c'e' una temperatura da maniche corte all'interno di queste stanze si batte i denti dal freddo e si lavora in giacca a vento e stivali . Ora..mio marito ha rischiato il linciaggio quando ha candidamente proposto di abbattere o tentare di spostare l'enorme pino.  Più facile che si demolisca l'edificio e lo si ricostruisca altrove.

A questi livelli siamo!!!

Purtroppo però tutto questo lavoro pro-ecologia non e' comune a tutti. Un'altra grossa acciaieria alle porte di Quito non pare per nulla preoccupata del rispetto dell'ambiente...anzi! Pare che nel paesello in questione si sia scatenata una vera rivoluzione da parte dei poveri cittadini.

I mucchi di rottame da fondere sono così alti che coprono l'orizzonte sovrastando tristemente le casupole circostanti, la polvere di ferro arrugginito si e' ormai depositata sui tetti , sui campi dei contadini e sui sentieri dove i bambini giocano in condizioni davvero malsane.

La situazione sembra arrivata al punto di rottura tanto che i paesani, dopo innumerevoli tentativi di dialogo con le alte dirigenze della Compagnia in questione, stanchi di risposte arroganti e della totale indifferenza ai loro problemi hanno letteralmente messo il veto al passaggio sui loro terreni dei cavi di alta tensione  che dovrebbero alimentare l'acciaieria e così, a lavori ultimati si ritrovano a non poter produrre una sola barra di ferro!

Eh già perché se c'e' una protesta da fare per la salvaguardia dei propri diritti gli ecuadoriani non si fanno troppi problemi a scendere in piazza e protestare ad oltranza....anche adottando metodi da ''Far-West''.

Staremo a vedere chi la spunterà ma... se dovessi scommetterei punterei certamente sulla popolazione che con le buone o con le cattive alla fine otterrà ciò che chiede.

Bravo quindi Guillielmo e brava Novacero che tra raccolta differenziata, lombrico coltura, mucche e quant'altro fa tutti contenti e presto comincerà la produzione alla grande mentre qualcun'altro continuerà a rodersi il fegato barcamenandosi tra un comitato di protesta e l'altro!

Approfitto di questo mio spazio per augurare buone feste a tutti, a chi sarà in Italia e a tutti noi italiani sparsi qua e la nel mondo per i quali le festività natalizie e di fine anno, oltre a essere un momento di scoperta delle tradizioni altrui non possono che essere anche un momento di nostalgia del nostro Paese e dei nostri amici e familiari lontani.

Buone feste e un 2008 ricco di tutto ciò che desiderate!!!


CON I BAMBINI BIELORUSSI IN ITALIA  (parte IV)

di Elena Bebeshina

Insieme con i bimbi abbiamo poi visitato Padova, abbiamo fatto quattro passi per le strade principali, abbiamo visto l’Università di Padova. Ogni persona in Bielorussia sin da piccola conosce quell’Università, perchè lì aveva studiato il nostro famoso compatriota Franzisk Skorina che noi bielorussi consideriamo l’uomo che per primo ha pubblicato un libro in Europa. A dire la verità, non vedevo l’ora a dare un’occhiata a quella famosa Università, di cui avevo sentito parlare così tanto sin dall’infanzia. È stata una bella sorpresa trovare la parte vecchia dell’edificio con le pareti scure e gli ornamenti antichi.

Lì si sentiva il tempo passato.

Avvicinandoci  all’Università, abbiamo osservato una cosa divertente. Una giovane ragazza era sulla sedia in mezzo alla strada in tunica e corona d'alloro sulla testa. Aveva un poster in mano e leggeva a voce alta quello che c’era scritto.

I suoi amici l’annaffiavano con lo spumante. La ragazza era tutta infarinata e poi doveva bere un barile di birra. Da non perdere!

Poi, mi hanno spiegato che faceva parte di una tradizione goliardica, per il festeggiamento della laurea. Per me era strano che festeggiasse solo una persona e non tutto il gruppo. Non sapevo ancora che in Italia il sistema universitario è diverso da nostro, perché da noi si laureano tutti insieme, un gruppo intero che ha studiato assieme per 5 anni.

Era il nostro primo viaggio in città e sono stata molto impressionata nel vedere negozi e vetrine, le strade pavimentate e la gente italiana. Mi sono subito balzati agli occhi i vestiti degli abitanti, le donne italiane con molti ornamenti addosso e i cani molto curati che camminavano accanto ai loro padroni.

Dopo l’Università abbiamo visitato la Basilica di Sant’Antonio, enorme e belissima. Di sera è stata organizzata un’attività per fare pubblicità ai bimbi bielorussi e per attirare l’attenzione della gente sui loro problemi. Nella piazza principale di Padova - Prato della valle – è stata giocata una partita di calcio tra i nostri ragazzini maschi, mentre le bambine sono andate all’Università per distribuire volantini. Dopo il calcio tutti i bimbi hanno ricevuto in omaggio degli zainetti,  capellini e  palloncini.

Il programma della nostra accoglienza includeva anche il soggiorno marino: sei giorni al mare, l’Adriatico, nel camping vicino Venezia. Sono state le vacanze vere per i nostri bimbi, perché non dovevano studiare più di una mezza giornata. Dopo l’arrivo abbiamo occupato sei casette, tre-quattro bimbi con un’adulto in ognuna.

Al mare mangiavamo benissimo.

Al ristorante,  a pranzo e cena gli adulti potevano scegliere tutto quello che volevano, gratuitamente: è stato un regalo di quel ristorante. Lì ho assaggiato per la prima volta i frutti di mare: le cozze, i gamberetti, i polpi.

Il piatto più gradito per me erano le tagliatelle alla boscaiola.

Ho imparato questo nome difficile subito e poi ordinavo quel piatto spesso! E allora ho capito che per la gente italiana il tempo del pranzo oppure della cena è il tempo in cui si comunica, quindi non solo di mangiare, e anche noi trascorrevamo almeno due ore mangiando e chiacchierando.

Per primi tre giorni il tempo era bellissimo, abbiamo fatto tanti bagni al mare, abbiamo preso un po’ di sole. Ricordo bene le mie emozioni e pensieri il primo giorno sulla spiaggia. I nostri bimbi si sono spogliati e noi adulti  spalmavamo la crema protettiva. Ho visto con orrore le lunghe cicatrici sui loro corpi, rimaste dopo gli interventi di estirpazione del tumore, che mi parlavano di quelle sofferenze che ogni bimbo aveva passato.

Poi il tempo è diventato fresco e c’erano le piogge, ma ci divertivamo lo stesso, perché c’era sempre da fare cose interessanti. Infatti, la nostra permanenza al mare è stata ben organizzata. I bambini giocavano al campo speciale, di sera c’erano sempre le danze per i bimbi. Per di più facevamo le prove. Il comitato di accoglienza aveva la tradizione di fare uno spettacolo prima della partenza, con i nostri bimbi che recitavano in italiano. Quella volta stavamo preparando “Shrek”. All’inizio era abbastanza duro per me perché dovevo scrivere tutte le battute in italiano (usando le lettere russe, così i bimbi potevano studiarle), con ogni bimbo che doveva imparare a memoria le proprie battute e poi far fare le prove. Il processo è cominciato quasi subito dopo il nostro arrivo in Italia, durava per tre settimane e al mare i bimbi più o meno sapevano già le loro battute e i ritmi. Le prove piacevano a tutti. Dovevamo mostrare lo spettacolo subito dopo il nostro rientro dal mare. Per questo motivo dedicavamo la parte del tempo al mare alle prove generali. Ricordo le prove addirittura sulla spiaggia con la gente attorno che ci guardava con grande interesse. Alla serata d’addio nella nostra grande casa, lo spettacolo e il concerto che avevamo preparato per parte nostra sono andati benissimo, i bimbi erano molto commoventi e bravi!

Quel mio primo viaggio in Italia mi ha regalato tante impressioni indimenticabili, esperienza di vita e maturità, che ho conquistato

comunicando con le persone adulte e dividendo la responsabilità per i bimbi nel paese straniero. Una parte del mio cuore è rimasta in Italia, e  già sapevo che avrei voluto tantissimo  tornare di nuovo in questo bellissimo, magnifico e accogliente paese.

ACQUA BENE PREZIOSO…

di Francesco Aronne

L’instancabile, se pur bistrattata, trottola che chiamiamo Terra ha completato con la sua ultima rotazione un’altra rivoluzione. Al di sotto delle nubi sembra tutto uguale, il termine rivoluzione (che non mi dispiace), anche se solo per un attimo, scuote dal sopore post S. Silvestro.  Auguri per il nuovo anno ai nostri lettori, all’intero pianeta ed a tutte le creature che lo abitano.

Antichi marinai, superato l’equatore, si abbandonavano a riti di passaggio e l’avvento di un nuovo ciclo di stagioni porta con se consuetudini, anche queste arcaiche (ed in qualche modo alle altre legate),  quali il cambio dell’agenda, e una serie di buoni propositi e intenti di riorganizzazioni della vita che in genere non arrivano neanche a mangiare le deliziose polpette di Carnevale….

Faronotizie salpa verso un nuovo anno. Questo caffé virtuale, reso possibile dallo sviluppo tecnologico e da quanti qui si incontrano, è divenuto luogo di ritrovo trasversale. Un crogiuolo dove si fondono esperienze e storie di diverse latitudini, ma anche un alambicco che distilla parole ed immagini di tempi diversi, sottraendole all’oblio od al ristretto ambito di chi ne detiene il possesso e la memoria. Vera piazza e luogo di incontro (o di scontro), comunque di riflessione, di pungolo, di stimolo, a volte anche di provocazione, dove, mattone su mattone, si ricostruiscono interi frangenti di locali storie andate.

Mi rendo conto che il valore di queste storie, poiché nostre storie, può essere colto appieno solo da noi indigeni che all’ombra del faro abbiamo visto snocciolare il nostro percorso di esistenza. Poco conta il fatto che qui siamo rimasti o che da qui siamo partiti, partiamo e partiremo per altre mete e approdi.

Gli astrologi ben sanno che il destino di ogni uomo è per sempre ed indissolubilmente legato al luogo di nascita ed al suo cielo. Per gli altri lettori rimane il contenuto universale, sia pur marginale, che comunque ogni storia porta con sé. Lo stesso per noi degli scritti altrui.

Sullo scorso numero ho letto, con immenso piacere e notevole e consueto interesse gli articoli di Luigi Paternostro, memoria storica e autorevole trave portante di Faronotizie. Ho così rivissuto l’impatto traumatico con l’acqua di Stoccarda nei primi tempi di emigrazione e quelli successivi di Berlino. E’ proprio vero che il valore di una cosa lo si sa solo quando si è perduta.

Voglio qui raccogliere l’appello finale contenuto in “Una bevuta d’acqua di Mormanno” e fare qualche mia considerazione al riguardo. I temi che riguardano l’ambiente saranno quelli cruciali per lo sviluppo dell’intera umanità. Cosa possiamo fare, nel nostro microcosmo, di immediato? La sensibilizzazione dei molti rimane la strada maestra (anche se va inevitabilmente supportata da adeguate politiche nazionali e planetarie). A Mormanno è partita da poco (e speriamo che perduri) la raccolta differenziata dei rifiuti, è un primo importante passo, che nonostante qualche aggiustamento che necessita, va comunque salutato con favore. Del resto, se mai si comincia!….

Sulla scia di questa strada imboccata si può continuare. Diversi comuni hanno avviato campagne di responsabilizzazione sull’uso dell’acqua potabile registrando già qualche concreto risultato. Le statistiche che arrivano dalle associazioni consumatori denunciano con un coro unanime l’aumento di tutte le tariffe. I costi per le utenze si abbattono sulle famiglia come una mannaia ogni giorno più tagliente.

Partiamo da queste due considerazioni apparentemente distanti. A Mormanno sul costo per l’acqua potabile, permane ancora la quota minima (min. base pari a mc 62). Una somma iniqua che ognuno deve pagare indipendentemente dalla quantità di acqua consumata. Superata questa soglia si calcola il consumo effettivo ed in questo caso per questo si paga. Personalmente trovo questo sistema ingiusto e poco utile ai fini della sensibilizzazione ad un uso più responsabile della preziosa risorsa: non si mette in relazione l’uso della risorsa al suo costo: mi è capitato di sentire dire, facendo rilevare alcuni sprechi “tanto non supero mai la minima!”. Cattive strategie di mercato che purtroppo tendono a straripare in altri ambiti (vedi ad esempio la giungla di tariffe telefoniche) dove dietro il tutto compreso si cela sempre la fregatura: sono in genere proposte che incentivano i consumi: basta guardare l’ammontare delle bollette del prima e dopo l’accettazione delle offerte di risparmio per rendersene conto.

Credo che un primo passo di sensibilizzazione sia di stabilire il pagamento dell’acqua per l’effettivo consumo, senza alcuna franchigia. I comuni, ovunque, si stanno industriando ad affinare i metodi di ruberie e rapine ai danni dei sudditi (vedi autovelox) per impinguare le magre tesorerie, ciò non toglie che l’illegalità di certi criteri vada messa nella giusta evidenza. Nel nostro centro storico le case disabitate probabilmente superano in numero quelle abitate (esiste un censimento in tal senso?). L’emorragia demografica è inarrestabile. E’ legittimo pagare acqua che non si consuma? E’ legittimo pagare spazzatura che non si produce? E’ legittimo stabilire le tariffe della tassa sui rifiuti in relazione alla superficie e non alle persone che abitano in un immobile? Poiché si è sempre fatto potremmo sentirci dire che legittimo lo è, difendendo i criteri adottati in epoche remote. Non esistono alternative?

Voglio comunque lanciare il sasso in questo stagno e creare una seria riflessione tra gli uomini di buona volontà perché si intraprendano azioni in grado di migliorare il futuro secondo principi di civiltà ed equità. Auspico su questi temi confronti con la popolazione e conseguenti determinazioni amministrative che tutelino ed educhino i cittadini, e che dimostrino la necessaria sensibilità e correttezza nei loro confronti.



[1] Officina, laboratorio

[2] Fu prima contabile presso la società SASMA che gestiva un  servizio automobilistico tra Mormanno e Scalea con obbligo di portare la posta da cui postale si disse l’autobus e poi ragioniere presso la locale Banca La Greca. Vedi:Uomini illustri di Mormanno, edizione Phasar Firenze, pag.48

[3] Non era del tutto smaltita la crisi che aveva attanagliato l’Italia negli anni trenta che continuava ad essere povera e sottomessa. Si pensi che un italiano su tre non sapeva leggere e scrivere; che i contadini ancora andavano semi scalzi d’estate e con scarpe a zoccolo d’inverno; che il cappotto rappresentava il risparmio di anni  che passava poi di padre in figlio come un patrimonio; che la carne era un cibo da ricchi e ci si sfamava di fagioli, castagne, patate e, quando c’era, di pane fatto di tutto (farina di mais, d’avena, di segala, di patate); che i piatti si lavavano con la soda e le pentole con la pietra pomice, mentre per il bucato si adoperava la cenere e la tinozza. 

[4] La seconda guerra mondiale, la più cruenta e disastrosa del secolo

[5] La tessera o carta annonaria era un certificato che dava ad ogni suo intestatario il diritto al ritiro, a prezzi controllati e a volte gratuiti, di una certa razione di generi alimentari o di prima necessità. Era divisa in settori che riguardavano il riso, l’olio, la farina, lo zucchero, la pasta e i legumi. Ogni settore conteneva dei bollini su cui era indicata la quantità in grammi che si poteva prelevare giornalmente, settimanalmente o mensilmente. Tale tessera si esibiva al negoziante che tagliava con le forbici il bollino corrispondente al prodotto che consegnava. Ricordo lunghe file di povera gente con la tessera in mano davanti al forno Galizia nell’attesa del pane e la disperazione del signor Domenico che doveva recuperare quei bollini e applicarli poi sul suo registro di scarico!

[6] Circa 1.700 metri quadrati

[7] La vigna in dialetto è il terreno a cultura composita, già descritto

[8] Che si uccideva dopo Natale e non oltre la fine di gennaio anche per avere carne fresca nel periodo di carnevale.

[9] Non vi erano buste di plastica o altri contenitori. Un ampio fazzoletto, detto stiavuccu, serviva a contenere qualsiasi oggetto comprese le derrate alimentari. Solo la pasta comprata in bottega era avvolta in una speciale carta di colore azzurro molto resistente con la quale si facevano anche i còppi, cartocci a  forma di tronco di cono, in cui si metteva la farina, il sale, il riso, il grano e in genere tutti gli aridi

[10] Nel paese si chiamavano compare o comare anche le persone che non avendo alcun vincolo diretto ricercavano nella memoria familiare un comparatico costituito tra lontani antenati che veniva richiamato alla bisogna per sentirsi più vicini e aiutarsi vicendevolmente. Cà nòi ièramu cumpàri sangiuvànni cù zù Biasìnu cugìnu d’ù pàtrìu di marìtu mèiu. (Perché noi eravamo compari con zio Biagio cugino del suocero di mio marito)

[11] Ricordo a Mormanno altri due movimenti popolari. Uno in occasione delle prime elezioni politiche che vide coinvolto in prima persona il sacerdote don Francesco Leone che postosi tra due schieramenti pacificò gli animi dei dimostranti, ed uno in occasione della candidatura alla camera del dottor Albino D’Alessandro, partito repubblicano, che con poté tenere il comizio tanto erano esacerbati gli animi.

[12] La Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, sorta in Italia con lo squadrismo fascista, fu riconosciuta poi legalmente con R. D. del 14 gennaio 1923, n° 31. Il corpo s’ingrossò rapidamente con volontari provenienti dal partito fascista e anche con giovani provenienti da organizzazioni premilitari. Entrò poi a far parte delle Forze armate dello Stato con il compito di “provvedere, in concorso con i corpi armati, della pubblica sicurezza e dell’esercito, di preparare e conservare inquadrati i cittadini per la difesa degli interessi italiani nel mondo”. In pratica espletò compiti esclusivamente politici ed operò quale sostegno armato del regime. Nel suo ordinamento la M.V.S.N. ricalcò gli organici delle antiche legioni romane dalle quali aveva preso i gradi gerarchici (console, seniore, centuriore, capomanipolo. Con la caduta del fascismo fu disciolta dal governo Badoglio il 6 dicembre 1943.

[13] Città della Germania sud-occidentale, nell’Alta Baviera, a nord di Monaco, sede, tra il 1933 e il 1945, di un infame campo di concentramento nazista in cui perirono circa 300.000 deportati.

[14] In auge tra il 1943 e il 1945

[15] Tirare il carro. L’espressione dialettale significa aiutare col suo lavoro i genitori e pensare a sistemare i fratelli e soprattutto le sorelle

[16] .Già nel 1861 il censimento generale attestava la presenza di emigrati in Europa (Francia 77.000, Germania 14.000, Svizzera 14.000), nel bacino del Mediterraneo (Alessandria d’Egitto, 12.000, Tunisi, 6.000) e in America (100.000). Negli anni successivi il fenomeno assunse proporzioni enormi e fu di massa con punte annuali di ben 123.000 emigranti dal 1869 al 1875, di 600.000 dal 1876 al 1915, con punte massime di 788.000 unità nel 1906 e 873.000.nel1913. Negli anni post prima guerra mondiale gli U.S.A. attuarono una politica restrittiva che previde e stabilì i contingenti di 40.000 uomini nel 1922 e di 4.000 nel 1924. Durante il fascismo pochi italiani predilessero i territori dell’Impero, per via della miseria delle popolazioni e della mancanza di aiuti da parte del governo.  L’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 annullò completamente il flusso migratorio transoceanico e incrementò quello verso la Germania, 142.339 uomini. L’emigrazione poi riprese nel 1946. Fino al 1956 lasciarono il Paese ben 1.560.440 italiani. Nel solo 1949 ne partirono 187.419. Negli anni più recenti il flusso migratorio ha oscillato tra le 70 e 80.000 unità all’anno ed è stato rivolto prevalentemente a paesi europei o alla sola America del Nord.

[17]   Col nome di Africa Orientale Italiana si designava, alla fine del 1936, un territorio di 1.725.330 kmq comprendente circa12 milioni di abitanti e formato dall’Eritrea, colonia dal 1896, dalla Somalia, colonia dal 1899 e da ultimo dall’Etiopia dal 9 maggio 1936, a seguito sconfitta in data 5 maggio del Negus Neghesti, (il re dei re), Hailè Selassiè, e caduta di Addis Abeba poi di Harar, 8 maggio, e infine Dire Daua, 9 maggio.

[18] Conobbe pure i generali Emilio De Bono e Rodolfo Graziani

[19] Elementi indigeni delle truppe coloniali. Per entrare a far parte del corpo i giovani dovevano superare una prova di idoneità consistente in una marcia di 60 km. che dovevano essere coperti al massimo  in sei ore consecutive

[20] Dal punto di vista della religione ebbe a che fare con cristiani di tipo copto-monofisita, con ebrei, con pagani e molti maghi e stregoni.

[21] Il carabiniere diceva, deve essere uso a ubbidir tacendo e tacendo tacendo morir!

[22] L’iscritto al Partito Comunista Italiano

[23] Per fortuna incontro ancor oggi i miei compagni. A Mormanno  tutti gli anni quelli della scuola elementare sempre in numero minore. Nel 2003 dopo ben 54 anni a Roma quelli del terzo liceo. Nel 2004, in Sicilia ho riabbracciato Pino Dicevi mio collega ad Assisi nel 1958. Qualche anno prima, Peppino Di Battista e Remo Pellegrini che con Dicevi facevano parte del gruppo.

[24] Mormannese, figlio di Antonio e Patrizia Rinaldi (*22.06.1717+14.04.1792) fu eletto Vescovo di Vico Equense il 10 maggio 1773

[25] Così letteralmentesi espresse in una lettera a me indirizzata

[26] - Stella Pisapia Garzone, Vico Equense e i suoi casali, Arti Grafiche Emilio Di Mauro, Cava dei Tirreni 1985

- Vico Aequensium Episcoporum Ughelliana series iampridem semel iterumque aucta nunc dedum ad ultimum deducta, Vici Aequensis apud Iosephum Stinga MCMXCII

[27] I mormannesi che abitavano nel paese, a differenza dei massàri che si recavano nelle marine con il gregge, ignoravano completamente l’esistenza del mare, la cui prima vista costituiva veramente un forte impatto psicologico.

[28] Così sono chiamati gli abitanti di Vico Equense

[29] Due dipinti di cui uno a mezzo busto sembiante a quello citato e raffigurato sopra, l’altro intero

[30] Le notizie sono state tratte dal libro citato nella nota n°3 – (Vico Aequensium Episcoporum Ughelliana series … ).

[31] Politus ( ossia Ippolito) 02.02.1553 – Alifanus o Alifanius (?) 19.02.1558 filius Magistri Cipriani de Laino. (Arch. Parrocchiale, Libro I dei battesimi)

[32] Da cui discesero tutti i Pace che vissero fino a qualche decennio fa ed estinti nelle famiglie aventi come soprannome rùmmolo, curtupèdi, paparacòtta

[33] Caterina Fazio di Luzio - sorella del sacerdote D. Giovan Ma e del notaio Dr Giuseppe – (Cfr. Testamento di Giovan Ma Fazio senior del 29.7.1624 Libro della Congregazione del S.S. Sacramento pgg. 485 e seguenti)

[34] Al secolo Lucantonio Falcone nato ad Acri (CS) il 19 ottobre 1669, fu un predicatore di straordinaria efficacia e di grande fama divenuto in seguito Beato.

[35] L’ordinale romano sta ad indicare che Monsignor Pace fu il 33° Vescovo da quando la  città di Vico Equense divenne Diocesi.

[36] La citazione originale in lingua latina (che sembrerebbe richiamare quasi inevitabilmente la pennellata manzoniana di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno contenuta nell’Ode Il cinque maggio dedicata a Napoleone Bonaparte) vuole esprimere l’azione repentina conseguente al rapido pensiero.

[37] Con le Rogazioni, secondo la vecchia liturgia, si intendeva lodare e glorificare la potenza creatrice della natura. A Mormanno avevano luogo il giorno dell’Ascensione e nella festa di San Marco (25 Aprile). Dalla chiesa madre si snodava uno stuolo di preti salmodianti vestiti con il pluviale. Si recitavano le Litanie di Tutti i Santi e si benedicevano i quattro punti cardinali in prossimità dei seguenti posti: località Scarnàzzo, fontana del Fòsso, fontana di Sciampagnarìa e zona Santa Caterina.  

[38] Domenico Crea e Francesco Regina Mormanno: la Cattedrale di S. Maria della Colla o del Colle: Fede ed Opere di Popolo e Clero in sette secoli (1183-1883) Ed. Il Coscile Castrovillari – Agosto 2000.

[39] Archivio Parrocchiale, Libro III de’ defunti 1764 – 1799 foglio 176

[40] Che nel 2006 ha superato i 3,3 milioni di tonnellate rispetto al milione del 1998 e che ha dato un contributo decisivo per passare dall'11 per cento del 1998 al 25,2 per cento del 2006.

[41] Nell'industria metallurgica, ad esempio, l'impiego di rottami e la produzione di metalli secondari è cresciuta e si è ben consolidata nell'ultimo decennio, tanto che oggi l'Italia presenta, sia per l'acciaio sia per l'alluminio, una forte produzione secondaria. Significativo il caso delle 200.000 tonnellate di batterie raccolte ogni anno dal Cobat, il cui piombo recuperato rappresenta oltre il 50 per cento della produzione italiana di piombo nonché circa il 40 per cento del fabbisogno nazionale di tale metallo. Per quanto riguarda in particolare il riciclo degli imballaggi è stato ampiamente sottolineato come non si sia trattato solamente di un incremento  quantitativo»: esso ha infatti favorito una forte innovazione tecnologica, di prodotto e di processo, che ha permesso ad alcuni settori di porre il nostro Paese all'avanguardia in Europa. Basti pensare per esempio che oggi l'industria dei pannelli di legno che utilizza legno riciclato è la più importante in Europa o agli indubbi progressi registrati dall'industria di riciclo del vetro o delle stesse materie plastiche, successi che hanno peraltro permesso una marcata riduzione dell'incidenza delle importazioni delle materie prime.

FARONOTIZIE.IT  - Anno III - n° 21, Gennaio 2008

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