FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 19, Novembre 2007

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

CASA, DOLCE CASA

Editoriale del Direttore  Giorgio Rinaldi

Giravo tempo fa per il centro di Roma e su un palazzo notava una scritta che occupava gran parte di un muro esterno: Dulce post laborem domi manere (è dolce dopo il lavoro stare nella propria casa).

L’anonimo architetto aveva, seppur pomposamente, evidenziato uno dei bisogni primari del regno animale: la tana.

Non c’è animale che non abbia un posto dove stare e non assegni a quello non solo le caratteristiche del rifugio propriamente inteso, ma anche luogo in cui la necessità di sicurezza trova espressione.

Anche nelle situazioni più estreme, gli animali rendono il rifugio centrale ad ogni altro interesse.

Si pensi al cuculo (meglio noto ai murmannòli come cucco) che, privo di nido, si impossessa di quello degli altri uccelli, oppure al paguro bernardo, un crostaceo che pur di non abbandonare la “casa” che si porta sul corpo resta soffocato all’interno della conchiglia.

Gli umani, dalle caverne ai grattacieli, hanno avuto nei millenni ugual istinto.

Anche il più incallito amante del nomadismo non ha mai potuto fare a meno di una tana, anche se solo di stoffa, o solo per una notte.

Il problema diventa, quindi, immane e drammatico per chi una casa non ce l’ha.

O, non potrà mai averla.

E, non per scelta.

In Italia, durante la forsennata cementificazione delle città negli anni ’60, l’edilizia pubblica è stata indirizzata alla costruzione di complessi immobiliari che dovevano garantire questa o quella categoria professionale (antiche nostalgie corporative), o le famiglie più indigenti, in genere in quartieri, rioni o zone che poi divenivano dei veri e propri ghetti.

Qualcosa nel passato, comunque, è stato fatto, soprattutto con il sistema delle cooperative edilizie.

Poco o nulla, però, in confronto al moloch della speculazione privata, specialmente nell’ottica di un bilanciamento con l’edilizia pubblica, che avrebbe calmierato, per forza di cose, i prezzi delle case.

Lievitati non solo per l’assenza di concorrenza pubblica, ma anche perchè altri tipi di investimento si sono rivelati fallimentari.

Le Borse mondiali, per esempio, hanno mostrato il loro limite  specialmente con l’internazionalizzazione dei capitali.

Le azioni salgono e scendono non perché  la società che le ha emesse va bene o male, ma perché un manipolo di grandi investitori –soprattutto banche- sposta capitali di qua o di la a soli fini di esasperata speculazione, determinando la immeritata sfortuna o fortuna di questa o quella azienda.

La Borsa italiana, poi, sembra il Regno di Bengodi (per banditi finanziari d’ogni risma, s’intende): basta guardare i tanti episodi di aziende nate dal nulla, iper quotate, e poi sparite nel nulla, lasciando con le classiche “pive nel sacco” migliaia e migliaia di piccoli risparmiatori.

In un Paese dove –si spera per poco, grazie al decreto del Governo Prodi- il falso in bilancio non è reato  (e, quindi, senza rischio alcuno, il proprietario dell’azienda X può dire che vale magari 1000, anziché 10 come la somma dei beni aziendali imporrebbe, e vendere –così- azioni in ragione dell’imposto valore 1000, con un profitto stratosferico) o si può costituire una società con responsabilità limitata dei soci con un capitale di soli 10.000,00 euro, che il giorno dopo possono essere ritirati dalla banca ove erano stati versati, quale garanzia il cittadino può avere ?

Se a ciò aggiungasi l’incapacità di governare i processi di inflazione e deflazione che ciclicamente aggrediscono le economie mondiali, si capisce perché il “mattone” è diventato l’investimento principe per gli italiani.

Alla fame di case, all’assenza di un’edilizia pubblica, la risposta delle centrali speculative è stata un selvaggio, incontrollato, incredibile aumento dei prezzi.

In pochissimi anni, un immobile che valeva, diciamo, 300 milioni delle vecchie lire, oggi vale 500.000/600.000 euro, cioè 3 o 4 volte di più !

All’aumento dei prezzi delle case è seguito, ovviamente, l’aumento dei canoni locativi.

Un canone mensile  che appena pochi anni fa costava 3 o 400.000 lire, oggi costa 800 euro: 4 volte di più.

Gli stipendi, però, sono rimasti quelli di una volta.

La corsa speculativa, capeggiata –come al solito- dalle grandi banche mondiali, da un lato ha alimentato i sogni di ricchezza di chi pensava di accumulare facilmente danaro (e qualcuno c’è anche riuscito, non certo –però- chi di casa ne ha una sola, non potendo certo vendersela per introitare la plus valenza e vivere per strada…), o di chi pensava di realizzare l’aspirazione di una vita e comprare casa.

L’avere lasciato mano libera ed incontrollata a palazzinari e banchieri        (con le commistioni che abbiamo poi anche conosciuto) ha inevitabilmente prodotto una situazione di crisi economica e finanziaria difficilmente controllabile, e con effetti di vera e propria catastrofe se non vi sarà un intervento governativo di grande spessore.

I mutui immobiliari, nella stragrande maggioranza dei casi,  sono stati accesi con un tasso di interesse variabile anziché fisso.

Questi tassi, estremamente bassi negli anni addietro, oggi hanno raggiunto livelli che per molti non sono più sostenibili.

Le Banche, che avevano spinto la clientela a stipulare mutui a tassi variabili (chissà come mai…), ora cercano di lucrare ancora di più concedendo ulteriori mutui che vanno –addirittura- oltre la durata della vita del mutuatario.

Nella latitanza dello Stato, le Banche sono riuscite ad indebitare un paio di generazioni future, restando sempre proprietarie di fatto dell’immobile, per via dell’ipoteca, e che alla prima rata impagata possono far vendere all’asta.

D’altro canto, quegli stessi speculatori hanno cominciato ad abbandonare i fondi immobiliari, per la prevedibile contrazione del mercato immobiliare, facendo pagare, così, all’intera collettività (molti fondi pensione investono in fondi immobiliari) errori e forsennate bramosie di profitti.

E gli affitti?

Il costo pauroso oramai incide per quasi un intero stipendio.

Chi non può mettere su famiglia.

Chi stringe la cinghia, letteralmente.

Chi è costretto ad anacronistiche coabitazioni o a vivere a decine e decine di chilometri di distanza dalla città in cui lavora.

L’aumento sconsiderato dei prezzi delle case, che nelle folli fantasie di qualche politico nostrano doveva rappresentare la ricchezza dell’Italia, è finito con l’essere il detonatore di una nuova e più grave povertà.

Una povertà che può minacciare lo stesso futuro del Paese:

se uno studente deve pagare una camera in un appartamento con altri studenti 250-300 euro e più al mese, non v’è dubbio che le famiglie più modeste non potranno più mantenere i propri figli all’Università, e così tante energie intellettuali, vitali per il nostro sviluppo, verranno a mancare.

L’Università aperta a tutti, fiore all’occhiello dell’Italia, viene azzerata in un sol colpo.

Il diritto costituzionale allo studio svanisce.

E, senza clamori.

Una maggiore riflessione sul nostro domani forse è necessaria, magari iniziando proprio a risolvere il problema casa.


TURISMO. UNA REGIONE SENZA  STRATEGIE

di Nicola Perrelli                   

Poco tempo fa  su queste pagine (vedi Faronotizie n. 15/2007,Niente di rivoluzionario)  abbiamo sostenuto che, per favorire la conoscenza del nostro territorio e per agevolare  la diffusione sul mercato dei nostri prodotti enogastronomici,  sono di  fondamentale importanza  le campagne pubblicitarie mirate, come ogni altra valida forma di comunicazione.

Lo stesso crediamo valga  per il turismo.

Per la promozione del “prodotto Calabria”, veramente poco conosciuto, c’è bisogno di trovare nuove strategie comunicative.

Il marketing che attualmente lo sostiene è ancora basato su modelli superati, a volte scoordinati, se non addirittura  inadeguati ai gusti ed ai tempi.

Basti pensare alle  costosissime  campagne pubblicitarie, volute dalla Regione  per  promuovere a livello nazionale il territorio calabrese, uscite sui  maggiori quotidiani italiani spesso occupandone intere pagine con caratteri cubitali,  che non hanno tuttavia avuto il ritorno sperato. 

Anzi a dire il vero l’impressione più diffusa tra i calabresi è  che  in qualche spot sia passata  nientemeno   un’immagine ancora più equivoca della regione, se mai ce ne fosse stato bisogno.

Il turismo e’ ormai un’attività economica matura. Necessita non solo di organizzazione e coordinamento dei mezzi, di infrastrutture adeguate a far fronte ai movimenti di grandi masse, ma  di precise strategie di marketing capaci di interpretare le aspettative  del moderno viaggiatore.

In questo settore  la comunicazione si muove, alla pari delle persone e dei mezzi, molto rapidamente. Di conseguenza forme e tipologia del messaggio vanno  adattati, con il dovuto tempismo,  a ciò che il mercato richiede.

Il turismo moderno, organizzato e popolare, vede  un individuo deciso, consapevole dei propri desideri, attento alla selezione dei servizi, avveduto nel valutare il rapporto qualità/prezzo. Che si entusiasma quando può condividere con altri a lui simili hobby e piaceri nel posto prescelto.

La comunicazione turistica per essere efficace deve quindi rispondere a queste nuove esigenze. Le parole chiave sulle quali deve agire sono emozioni, cultura, tradizioni, svago, sport e bisogno di socialità.

Ma non solo.  Nello stesso tempo  deve soddisfare anche la richiesta di un’informazione approfondita: calendari degli appuntamenti, degli spettacoli e degli eventi, indirizzi utili, luoghi di ritrovo, suggerimenti su percorsi e itinerari turistici e via dicendo devono essere sempre e ovunque disponibili.

Il marketing si sa, se predisposto da esperti, sviluppa, nel corso della vacanza, una forte interazione con il turista: crea l’interesse per il posto, fornisce le informazioni necessarie  per il viaggio ed per il soggiorno, aiuta a capire la civiltà, il paese e ad accostarsi  alla realtà nuova con maggiore consapevolezza per gustarla fino in fondo.

Fa di tutto insomma per lasciare nel turista  un buon ricordo del luogo: il migliore risultato che  può conseguire.

Il perché è presto spiegato: il passaparola favorevole è senza dubbio il più efficiente canale di comunicazione per la promozione turistica di un territorio.

Strategie di marketing  che la nostra Regione non  riesce  a programmare e ancor meno a realizzare.  Forse  perché il marketing   non è ancora  ritenuto un obiettivo programmatico da raggiungere , uno di quelli per capirci essenziali e concreti che possono davvero far sviluppare  il territorio e la sua gente.

C’è effettivamente una scarsa propensione ad utilizzare in modo professionale le enormi potenzialità del marketing. Dominano piuttosto  strategie comunicative  che non sbagliamo a definire obsolete e manca la collaborazione tra i soggetti interessati,pubblici o privati che siano.

Con il risultato che, il poco  finora  ottenuto in termini di ritorno di immagine, è stato  pagato a caro prezzo dai contribuenti. Lo spreco di risorse impiegate per attività di comunicazione poco proficue è infatti enorme, ma ci sta tutto se consideriamo che il dispendio è insito, per cosi dire, nella natura della nostra amministrazione regionale.

La Calabria non ha ancora un portale del turismo realmente operativo e un marchio di identificazione. Qualcosa c’è, ma rispetto alla concorrenza non regge. Bisogna investire di più su internet, sulla creazione di network e sulle idee innovative dei professionisti del settore.  In breve è necessario  destinare budget alla promozione e cura dell’immagine della Regione.

Ma la sola comunicazione non basta, il prodotto Calabria per attrarre turismo deve, ove necessario, migliorare nel rapporto qualità/prezzo, rendere i servizi migliori e veloci, disinquinare il mare, migliorare la qualità dell’aria, accrescere la sicurezza.

Diversamente  anche quel poco di buono che è stato fatto andrà perso, si vanificherà. Anzi finirà per alimentare, ironia della sorte, il passaparola sfavorevole, ciò che  da tempo purtroppo sta succedendo ai comuni della fascia tirrenica cosentina.

Resta una magra consolazione, ma se la Calabria piange, l’Italia non ride. E’ di questi giorni la brutta  notizia  che  il progetto per realizzare il maxi portale turistico nazionale ITALIA.IT , la moderna icona del nostro Paese,  si è arenato… e con esso anche la speranza di recuperare quelle quote di mercato turistico che l’Italia ha perduto nel corso di questi ultimi anni.


IL TRAMONTO DEL COMUNISMO

Raffaele Miraglia

Di ritorno dal Guatemala sono transitato da Miami.

Il mio piede si posava per la prima volta sul suolo degli States.

Quando mi hanno consegnato la scheda da compilare e consegnare all’Ufficio Immigrazione ero già pronto a mentire.

Quando ho letto che, se rispondevi sì anche a una sola domanda, ti potevano rifiutare l’ingresso (e, dunque, per me addio all’aereo per Madrid) non ho avuto dubbi. Prima ho segnato no ad ogni domanda e poi le ho lette.

Una delusione completa.

Hai una malattia infettiva?

Figurarsi se ti dico che ho contratto l’H.I.V. facendo sesso con un senatore repubblicano nella toilette di un aeroporto.

Hai un disturbo mentale?

Rosella, mia moglie, è psichiatra e mi ha insegnato che nessun matto ammette di essere matto. Ho avuto un attimo di indecisione. Forse dovevo rispondere sì.

Sei un drogato?

Ho estratto il mio cellulare o ho chiesto consiglio al mio pusher. Mi ha detto che avevo fatto bene a rispondere di no e io mi fido di lui.

Tra il 1933 e il 1945 sei stato un nazista o un suo alleato?

Io sono nato nel 1959!

E, adesso che ci penso, mio padre è stato recluso in un campo di lavoro forzato in Germania e ci ha messo quasi un anno a tornare al suo paesello natale.

Fai parte di un’organizzazione terroristica?

Come no? E te lo vengo anche a dire.

Mancavano quelle domande veramente intelligenti che mi furono poste anni fa all’ingresso a Singapore.

Trasporti con te degli esplosivi?

Sei mai entrato in Singapore con un altro nome?

Ma la delusione più grande, certamente l’avete capito, l’ho provata perché mancava una domanda fondamentale.

Nessuno me l’aveva detto che da anni è sparita dal temuto questionario.

Sei o sei stato un comunista?

Non te lo chiedono più.

Mi sono sentito defraudato.

Non potevo dire la bugia fondamentale!

Oggi il governo americano ha le mie impronte digitali e la mia foto digitale, ma non sa che sono stato comunista.

Non gliene frega niente.

Ho invidiato Francesco, il fratello di mio nonno. Quando emigrò negli Stati Uniti a lui sì che chiesero se era un anarchico o un socialista. Correva l’anno 1906. Mi consolo pensando che anche lui barò. Dichiarò che andava a stare a New York da un suo fratello. Peccato che i suoi fratelli stavano tutti in Italia.

Ci ho pensato a lungo alla questione e alla fine sono giunto a un risultato.

Se ancora oggi ti chiedono se sei stato un nazista e non ti chiedono più se sei stato un comunista è perché persino il governo americano ha riconosciuto che il comunismo non è stato quel crimine orrendo.

Il che mi ha rinfrancato, anche se non invidio chi ha vissuto sotto Stalin o Pol Pot.

C’è però, temo, una lettura alternativa.

Il nazismo può ancora risorgere, mentre il comunismo è tramontato per sempre.

E, dunque, nessun pericolo da ex comunisti o da attuali presunti tali.

Caro Bob, è ora di intonare The times are changed.

Lo spettro che si aggira per il mondo è solo quello di Bin Laden!

Sincerely yours

the post comunist Raffaele Miraglia 

P.S.

Dimenticavo.

Ho dovuto fare due volte la fila all’Ufficio Immigrazione.

Nella scheda da compilare c’è uno spazio da riempire: devi indicare il tuo indirizzo negli U.S.A.

Ovviamente, non avendolo ed essendo in transito, ho lasciato in bianco questa parte del modulo.

Il poliziotto è stato inflessibile.

Dovevo scrivere transit to Italy e lui non poteva permettere che io scrivessi queste tre parole davanti a lui.


GLI UOMINI CONTRO GLI UOMINI

di Mirella Santamato

Troppo spesso ancora ci si stupisce di fronte all’ultimo stupro o all’ultimo atto di sevizie perpetrato a danno di una donna, quasi come se fosse qualcosa di nuovo, di inusistato capitato in questi tempi dannati.

Non è così.

Il male perpetrato dai concetti Patriarcali  è antico di ottomila anni. L’ingiustizia che da questi concetti deriva cade a pioggia su tutte le generazioni, e non esclude i maschi.

Anzi, paradossalmente loro ne sono stati e ancora sono, le privilegiate vittime.

Comincio dal 1700, dove venivano castrati (senza anestesia, con il semplice taglio dei testicoli con un coltello affilato, o per schiacciamento degli stessi tramite tenaglie)  ragazzini dall'ugola d’oro, per renderli fino alla morte, voci bianche. Inutile dire che per molti la morte era immediata ed erano spesso i più fortunati.

Questo esempio è solo una piccola parte delle violenze subite dagli uomini per mantenere il loro stesso Potere Patriarcale. Gli uomini contro gli uomini.

Che il Potere Patriarcale, di cui la Chiesa è uno dei massimi esponenti, odiasse le donne e le trattasse da sempre con violenza inaudita ( un esempio per  tutti, i roghi delle streghe) è cosa risaputa.

Non voglio soffermarmi su questo argomento trito e ritrito, anche se, come donna, vorrei che il Papa si scusasse per i più di quattro MILIONI di donne arse vive nei secoli, e non solo per l’errore compiuto nei confronti di Galileo.

Ma lasciamo perdere.

Quello che mi preme far capire e che sfugge alla maggioranza della gente è l'aspetto della stessa violenza e crudeltà rivolto anche ai maschi, di cui l'esempio dei "castrati" è solo un aspetto.

La distorsione del Potere cosiddetto Patriarcale danneggia i maschi più delle femmine quando fa credere loro che "solo una vergine è pura", frase che implica che il loro pene, visto che rende impura una donna, sia apportatore di chissà quale schifoso morbo letale.

Oppure quando indica loro che l'onore, invece di stare nel comportamento retto e responsabile dell'animo, si trovi in un posto talmente strano che mi viene da ridere anche a pensarci: in mezzo alle gambe delle donne!

Un uomo tradito da una donna, diventa, in questa ottica distorta, un uomo tradito nell’onore! Ma di quale mai onore si tratta?

Al limite, se proprio si vuole, si tratterà dell’onore della donna e non dell’uomo!

Da ultimo mi piace soffermarmi sul più grande inganno che il Patriarca ha escogitato a danno dei maschi: il lavoro delle armi.

Fare il soldato, essere addestrati ad uccidere una persona che non si conosce implica un totale annichilimento dei sentimenti, una totale dissociazione tra ciò che si deve fare ( il famoso dovere) e quello che si sente.

Con il lavoro della guerra il Patriarca compie l’ultimo atto efferato nei confronti del povero maschio, obbligandolo ad uccidere o ad essere ucciso.

In altre parole il maschio viene  educato  alla schizofrenia, all’alienazione dal Sé.

Come possa un uomo adulto e capace di intendere e volere mantenere ancora questi capisaldi come “giusti”, mi sfugge completamente.

Questa è follia pura, ma  i maschi, mantenendo in atto il crudele inganno, non si accorgono ancora oggi  di quanto danneggino se stessi e l’intero pianeta con questi concetti distorti.

Spero che i maschi guariscano da simili distorsioni e ritrovino, insieme alle donne, la dolce arte di amare ed essere amati.

La strada  è lunga, ma sta ad entrambi percorrerla con intelligenza ed apertura di cuore.

LA GUERRA A MORMANNO

di Luigi Paternostro

Molti erano i soldati partiti per la guerra. Alcuni erano andati in Russia, altri in Africa Orientale, altri in Libia. Ogni tanto arrivava qualche lettera. Le mogli aspettavano con ansia l’arrivo di Cùmpa Francìscu ‘u portalìttri [1] e sapendo più o meno l’ora in cui passava si affacciavano sull’uscio e spiavano dalla porteddra [2]  la sua venuta che si faceva precedere da colpi di tosse dovuti a quel benedetto sigaro che continuava a tormentare fra le labbra.

Appena infilava la vanèddra [3] cominciavano le domande. C’è posta per me? E per me? Per te niente, cummari Rusì. C’è per Caterina e Minuccia.

Caterina è in campagna, diceva Minuccia, lascia a me la sua lettera! Entra un momento che ti offro da bere [4] .

Lo sai, comare, che non posso, in servizio; ma per la comarella bella, questa volta, faccio eccezione.

Nella primavera del ’43 le lettere non arrivarono più.

Radio Londra parlava di vittorie alleate e di sconfitte dell’Asse e si cominciò a capire qualcosa quando si vide la ritirata dei tedeschi che tra la fine d’agosto e i primi di settembre scarnificarono la strada sollevando un polverone continuo che impediva il respiro e che sembrava, visto dalla Loggetta, come la scia di una cometa. Wollen Ei? Wollen Ei? andavamo ripetendo noi ragazzi avvicinandoci ai carri armati: volete uova? volete uova?  Ma questa volta [5] i tedeschi non rispondevano, ci allontanavano in malo modo al rumore degli aerei a due code che ogni tanto spuntavano dal Velatro sventagliando colpi di mitraglia sulla colonna in fuga.

La più grossa battaglia fu una risposta della contraerea tedesca  da una postazione che si trovava alla Carrosa, presso la proprietà di Rocco La Terza.

La maggior parte dei mormannesi era scappata nelle campagne.

Un bel mattino di settembre, dopo aver lasciato in piazza un carro armato non più funzionante, si avvertì un botto terribile. Era saltato il ponte di Minnarra [6] e con esso il collegamento con Scalea.

Qualche giorno dopo una cicogna [7] si abbatté su casa Sarubbi causando un grosso spavento a Don Ciccio.

Fuggiti i tedeschi suonarono le campane.

Purtroppo anche a morto per alcuni ragazzi che ritrovando dei bossoli e volendoli smontare, perivano per lo scoppio degli ordigni. Tra essi ricordo alcuni miei compagni, vicini di casa. I tedeschi in fuga avevano lasciato montagne di munizioni da cui si estraeva, dopo aver levato le spolette, polvere da sparo, introvabile a quei tempi, utilizzata per usi diversi tra cui anche la ricarica di cartucce per la caccia. I proiettili più grossi avevano invece della polvere dei lunghi bastoncini di balestite che noi denominavamo miccetti che, accesi uno per uno, non scoppiavano, ma diventavano pericolosi se compressi in camere di scoppio. Noi ragazzi allora giocavamo alla guerra, utilizzando per fucili i soffietti del focolare caricati con tali polveri, rischiando grosso, senza volerlo.

Gli sfollati rientrarono in paese disseppellendo provviste e masserizie che avevano murato nei magazzini per paura di razzie.

Verso ottobre cominciò a ritornare qualche soldato. La maggior parte rientrò nella primavera del 1944. Ricordo che arrivavano quasi nudi dopo aver attraversato a piedi tutta l’Italia. Qualcuno veniva dalla Grecia e dai Balcani, Marco Alberti venne dalla Russia.  Molti, periti senza notizie, ingrossarono il numero dei dispersi.

Arrivarono intanto gli sfollati dall’agro Pontino che fuggivano agli orrori delle teste di ponte di Cassino e di Anzio e che Mormanno accolse offrendo dignitosa ospitalità. Mio padre ospitò la famiglia di Antonio Rigoni, contadino veneto trapiantato dal regime nell’agro romano, bravo e padrone di tecniche che i nostri poveri contadini non conoscevano.

La tessera [8] ancora funzionava e andavano prendendo piede alcune cooperative tra cui La Rinascita diretta da Francesco Cersosimo, uno dei fautori del nascente socialismo mormannese.

Quando si tirarono le somme ci si accorse che le ferite erano profonde e che i morti non erano stati pochi.

Nonostante tutto la vita continuò.

Stava nascendo nella coscienza del popolo una nuova era.

Al  rifiuto e rigetto della sciammèrica [9] , sia di quella storica che non disdegnava di dare dei colpi di coda, che di quella riemergente che, camuffata e riciclata voleva  comandare approfittando del cambiamento, seguì, attraverso civili competizioni, l’avvio alla vita democratica proprio per il risorgere, dopo l’immane conflitto, di quella libertà che è l’unica via per l’educazione e la guida dei popoli del mondo.

Alle elezioni del 10 marzo 1946 vinse la lista de I Fucili con 1.039 voti contro una lista di minoranza che ebbe 648 consensi. Fu eletto Sindaco l’avv. Francesco Piragino ma il suo incarico durò poco perché il 13 luglio del 1946 fu sostituito dall’insegnante Mario Sangiovanni (don Marcello).

Il 25 maggio del 1952 vinse lo Scudo Crociato con 1.494 voti contro il Campanile che ne ebbe 792. Fu Sindaco, fino al 10.10.1954 il dottor Domenico Sarno e poi il maresciallo in congedo Giuseppe Palazzo. Questi fu rieletto nel 1956 quando lo Scudo Crociato insieme alla lista Faro fu riconfermato con 1.103 voti contro gli 861 della Tromba.

Alle elezioni del 1960, svoltesi il 6 novembre, parteciparono tre liste: il Faro, indipendente, che ebbe 815 voti; lo Scudo Crociato che ne ebbe 758 e la Tromba con 397. Fino al 6.12.1961 fu Sindaco l’insegnante Marco Alberti poi fu nominato il professor Luigi Maradei.

Nel 1964 la Democrazia Cristiana ebbe 1.163 voti e 11 consiglieri. Fu Sindaco ancora Giuseppe Palazzo, poi sostituito alla sua morte prima dall’avvocato Giuseppe Alberti (fino al 19.8.65) e poi dal ragionier Angelo Donnici. Gli altri partiti, P.S.I., M.S.I. , e P.S.I.U.P. ebbero rispettivamente 527, 301 e 295 voti corrispondenti a 9, 2 e 2 consiglieri.

Le elezioni del  7 giugno 1970 mandarono al comune il P.S.I. con 1.122 e 9 consiglieri. Con 1.103 voti e 9 seggi seguì la D.C. Il P.S.I.U.P. ebbe due seggi. Nessuna rappresentanza il M.S.I. Fu  Sindaco, fino al 14.10.71, l’insegnante Duilio De Rosa; dal 30.10.71 la carica fu assunta dal dottor Domenico Rinaldi e dal 9.12.72, dal geometra Franco Alberti.

Il 1975 il P.S.I. ebbe la maggioranza assoluta, 16 seggi, e la D.C. fu all’opposizione con 4 seggi .Fu sindaco per tutta la legislatura l’insegnante De Rose. Le elezioni dell’8 giugno 1980 videro il prevalere della Lista Unitaria di Sinistra che ebbe 1.221 e la maggioranza assoluta, 16 seggi, contro i 4 della D.C. che raggiunse 1.195 preferenze. La carica di sindaco fu coperta dal professor Luigi Maradei per tutto il periodo.

 
 



IL CONFINE TRA FEDE E FOLLIA

di Ileana M. Pop

Sognare è umano e per di più non costa nulla, si sa.

Tutti noi abbiamo un sogno nel cassetto, ma raramente siamo così tenaci da perseguirlo e quasi mai siamo in grado di farlo avverare: piuttosto, preferiamo nasconderci dietro qualche insormontabile ostacolo apparso sul cammino e chiudiamo il cassetto in attesa di tempi migliori, che forse non arriveranno mai.

C’è un vecchio a Majorada del Campo, paesino all’est di Madrid, che viene chiamato da tutti “el loco” perché da più di quarant'anni, giorno per giorno, lavora per trasformare in realtà il suo sogno: costruire e dedicare una cattedrale alla Madonna del Pilar.

Proprio per l'assurdità di questo proposito, proferito per di più dalla bocca di un ex-monaco figlio di contadini, con nulle nozioni di architettura e ingegneria, risulta difficile credere che Justo Gallego sguazzi ormai da decadi nel mare tra il dire e il fare.

Il primo mattone della sua monumentale opera (eretta per uno scherzo del destino in via Antonio Gaudí) fu posato il 12 ottobre 1961 e da allora, tra torri, cupole, archi e colonne, senza permessi di edificazione e senza il consenso della Chiesa Cattolica, la cattedrale ha iniziato a definirsi e a prendere forma: oggi misura 50 metri di lunghezza, 25 di larghezza, è dotata di un chiostro, una cripta, delle torri che, secondo il piano mentale di questo architetto improvvisato dovrebbero toccare i 60 metri di altezza e una cupola che, a 37 metri da terra, domina sull'intera costruzione.

Al varcare la porta laterale (sempre aperta per i visitatori), se non fosse per il tetto praticamente aperto, la sensazione provata sarebbe la stessa che si sente mettendo piede in un qualunque altro duomo o cattedrale: piccolezza e impotenza.

Sembra davvero impossibile che il lavoro di una sola persona possa raggiungere risultati simili, ma il sudore di Don Justo ha impregnato ogni singolo mattone di questa colossale costruzione: egli ha eseguito la stragrande maggioranza dei lavori e solo raramente si è dovuto rivolgere a professionisti del mestiere, rinunciando al capriccio di usare impalcature o mezzi e materiali dei quali i muratori di oggi non si priverebbero mai. Anche i fondi investiti sono suoi, derivati dalla vendita delle sue terre e dei suoi beni personali, o provenienti dalle donazioni raccolte nell’enorme salvadanaio azzurro posto all’ingresso.

Versando cemento in vecchi secchi di plastica, il signor Gallego ha ottenuto forme cilindriche che poi ha usato per la costruzione e non è da sottovalutare il fatto che i materiali impiegati siano quasi tutti riciclati: lattine, scarti di fabbrica, mattonelle e mattoni rotti, bidoni, ruote di bicicletta e di macchina e ferri raccolti chissà dove.

In questa veste di pazzo eroe del riciclaggio che ha dedicato la sua vita al Signore, il vecchio è riuscito a diffondere il suo ideale e a farsi conoscere anche fuori dal suo paese: la Coca-cola, per esempio, ha creduto in lui e ha scelto la sua opera per pubblicizzare l'Aquarius; il Museo d’arte moderna di New York, il MoMA gli ha dedicato un’esposizione, studenti di architettura vanno ad aiutarlo e migliaia di visitatori di tutto il mondo rimangono a bocca aperta chiedendosi come mai le colonne storte di questo imponente edificio non si sbriciolino sotto il peso di cotanta grandezza.

Grazie al talento naturale del vecchio per le proporzioni, infatti, l'intera struttura si regge benissimo, beffandosi di tutte quelle leggi architettoniche che non sono state seguite.

Certo, ci vorranno molti altri anni perché la cattedrale sia finita, ma il più è fatto.

Visto che il segreto della forza  dell’ormai ottantaduenne Justo risiede nella fede, spero che essa gli permetta di vivere, se non per sempre, almeno fino al giorno in cui arriverà a posare l’ultimo mattone di questa sua personalissima cattedrale.  ¡Mucha suerte, Don Justo!

GLI SCORCI PANORAMICI

di Gianfranco Oliva

Nel fotografare un panorama , si rischia quasi sempre di riprodurre una cartolina , anche se tecnicamente la

foto risulta perfetta.

Il bello della riproduzione di un paesaggio è la capacità di rappresentarlo con dettagli che nella realtà

sfuggono all’osservatore , utilizzando anche quegli espedienti tecnici che , artificialmente , li trasformano a

mezzo sfumature e colorazioni irreali .

Ma più interessanti sono gli scorci panoramici , nei quali i dettagli rappresentano il tema principale.

Le immagini di seguito proposte (si continuerà con ulteriori immagini in fasi successive) sono state riprese durante i miei periodi di permanenza a Mormanno .

Ognuna di esse racchiude, ovviamente per il sottoscritto , una carica affettiva molto intensa, rivolta verso i luoghi che esse rappresentano .

Qualche anno fa incrociai davanti casa mia Gino Paternostro che, insieme ad un conoscente , saliva verso il Faro ; sicuramente lui si ricorderà dell’episodio .

A seguito del classico “favorite” da parte mia, li feci accomodare all’interno .

Fra una parola e l’altra, lui stazionò davanti ad una delle finestre che affacciano verso la vista rappresentata nell’immagine di cui sopra – la vista originale è tutt’altra cosa ! - ; dopo aver spaziato con lo sguardo per

qualche istante , si rigirò verso noi altri dicendo : “non ti stancasi mai…!”

Ecco, questa frase , sintetizza il legame quasi maniacale verso questo benedetto paese di tutta quella bistrattata schiera che rientra ad intervalli regolari, prevalentemente durante le ferie estive , preferendolo a più rinomate località di villeggiatura .

Le immagini che seguono , sono tutte del 1972 e realizzate in parte nel mio “vicinanzu” , al Faro.


GRATIS IL “PIENO” AL PC

di Nicola Perrelli                   

Cadere nella Rete…è un affare. Basta infatti una connessione Adsl e chiunque può facilmente “arricchire” di programmi, a volte anche sofisticati e utili, il proprio pc. E senza spendere un solo euro.

E’ un’altra delle tante opportunità che la Rete offre agli internauti.

Il primo software a circolare, libero e gratuito, è stato Linux. Il sistema operativo realizzato nel ’92 dal finlandese Linus Torvalds. Da allora, continuamente implementato con l’aiuto di migliaia di programmatori di tutto il mondo, Linux è diventato un sistema operativo potente e versatile, che viene utilizzato principalmente per abbattere i costi di gestione dei pc in rete. E i miglioramenti continuano. Grandi società, a cominciare dall’Ibm per finire alla Hp,  ci investono tuttora  ingenti capitali per aiutarne ulteriormente lo sviluppo. Con lo scopo, non dichiarato ma facilmente intuibile, di scalfire il monopolio di sua maestà Windows.

Non è stato da meno  il successo che ha avuto il sistema di navigazione su Web  Firefox, scaricato e utilizzato gratuitamente  ormai da centinaia di milioni di utenti.

Dai sistemi operativi ai pacchetti applicativi il passo è stato breve.

A cominciare  poco più di un anno fa  il “solito” Google che ha proposto il suo pacchetto Office a titolo gratuito. Mentre di recente, nel campo del free-web, è sceso un altro gigante della net-economy, l’Ibm, con il lancio della piattaforma Lotus Symphony. Un pacchetto completo che ogni utente con una connessione Adsl può scaricare in pochi minuti.

Alla diffusione  degli strumenti operativi concorrono in particolare i software a sorgente aperta, i cosiddetti “open suorce”, al cui sviluppo collaborano in genere spontaneamente numerosissimi programmatori, e i programmi distribuiti gratuitamente, denominati “freeware”, che per la duplicazione non prevedono alcun tipo di obbligo.

Naturalmente l’interesse degli utenti per i programmi gratuiti  è in continua crescita. Ogni internauta  ormai sa che con un po’ di dedizione e qualche accorgimento  può costruirsi un pacchetto multimediale completo  senza sostenere alcun costo aggiuntivo oltre a quello di connessione.

Ma in concreto chi naviga con Internet   quali applicativi può scaricare senza pagare?

Molto dipende ovviamente dal livello di conoscenza del webnauta, tuttavia anche l’utente medio, può fare  il “pieno” di software.

Per la navigazione sono disponibili il software, open source, di Firefox, che occupa appena 5MG di spazio  e consente per di più la navigazione a schede (più collegamenti con una finestra), e  il browser  della Apple,

Safari, adoperabile anche per chi utilizza Windows, che a dire di tanti sta guadagnando rapidamente  terreno.   

Molto apprezzato è anche il browser Opera, la cui versione 9.5 è compatibile con altri sistemi operativi.

Per la gestione della posta elettronica va forte il software open source Thunderbird di Mozilla, solo 6Mb di spazio su disco fisso, che rappresenta per il momento l’alternativa gratuita all’Outlook di Microsoft.

Per ascoltare musica e vedere film vanno benissimo  i software audio e video delle piattaforme Real Player e Winamp. Quest’ultima, oltre all’ascolto dei file musicali, consente di visualizzare anche radio on line e canali tv.

Per l’editing, ossia quanto “mettiamo le mani” su un qualunque tipo di testo, ci sono molti programmi gratuiti che hanno funzioni simili a quelli a pagamento, il più apprezzato è Gimp. Mentre per l’organizzazione delle foto digitali è  eccezionale il pacchetto Picasa della Google.

Gli utenti più esperti possono poi installare per la sicurezza del proprio pc efficaci software antivirus. Il più diffuso, nella versione freeware, è Avg, scaricabile in pochi minuti e corredato da manuale in italiano. Contro gli spyware (i c.d. cavalli di Troia) è invece  disponibile, sempre freeware,

Ad-Aware 2007.

A questo punto il “pieno” al pc  è stato fatto? No, ancora no. Manca il meglio.

Per effettuare conversazioni telefoniche, o più propriamente chiamate vocali, che di questi tempi vanno tanto di moda,  è possibile fare il download di un software Voip.  Basta poi un microfono collegato al computer e un’altra persona connessa con lo stesso sistema per dialogare on line, a costo zero.

La piattaforma Voip più conosciuta è Skype, ma ci sono pure quelle di Google, con il software vocale Talk e di Microsoft con il Live messenger.

Tutto ciò è solo una piccola parte di quello che i nuovi strumenti mass-mediali permettono di fare in termini di scambio  di informazioni e conoscenza, di incontri e dialoghi tra persone non più  condizionate dalle distanze e dai costi.

E’ evidente che in un contesto del genere  si propongono alcune riflessioni che riguardano il tipo di socialità che si costruisce con la mediazione delle moderne tecnologie, in particolare con Internet.

Di sicuro però dietro ai software, liberi e gratuiti, e negli open source   c’è  un’idea di uguaglianza nell’accesso alle tecnologie. Che deve andare avanti.


PARTENZE

di Paolo Donati

La luce del mattino faticava a sconfiggere il grigio delle prime ore del giorno. L’unica reale fonte di chiarore era il riverbero lattescente della brina. I campi ne erano completamente ricoperti.

Un sottile, ma tenace strato di ghiaccio si era depositato sul parabrezza dell’auto e resisteva ostinato al moto  ritmico dei tergicristalli.

Il loro gemito quasi umano,  il rumore della ventola che pompava aria calda nell’abitacolo e il borbottio del motore che si riscaldava erano gli unici suoni, mentre me ne stavo sul sedile del passeggero intontito dal freddo e dal sonno.

Uscii dalla trance nel momento in cui mio padre spalancò lo sportello del guidatore e prese posto al volante.

Cantava.

Mi chiesi cosa potesse ispirarlo in quell’ora cupa di quello spaventoso mattino d’inverno, ma non mi venne in mente niente.

Eppure cantava. Uno dei suoi pezzi preferiti: “nemico della patria” dall’Andrea Chenier.

Con la sua bella voce intonata da baritono naturale, gli venne bene perfino la risata beffarda che segue l’attacco della romanza.

Intanto aveva fatto manovra e aveva disceso la rampa che conduceva fuori dalla proprietà.

Quando fu a “la coscienza dei cuor risvegliare nelle genti”, aveva già imboccato la provinciale e io, come tutte le volte che ascoltavo quel brano, mi trovavo ormai completamente precipitato nel dramma di questo proletario idealista traviato dal potere e reso folle dalla passione amorosa.

Per inciso, avevo sempre solidarizzato più con Gérard che con Chenier e la sua languida fidanzata.

La romanza terminò che eravamo già alle porte della città e mio padre, esaurita d’incanto la vena canora, prese a parlarmi con la massima naturalezza, informandosi se avessi ricordato il passaporto e i soldi.

Facemmo colazione nel bar del piazzale della stazione ferroviaria; il nostro Natale cominciò con pane e mortadella e cappuccini bollenti serviti in bicchieri di vetro.

Un quarto d’ora dopo, sulla banchina del primo binario, rinfrancato dal pasto, ascoltai con pazienza rassegnata le rituali raccomandazioni di mio padre, lo baciai sulle guance impattando l’odore famigliare di acqua di lavanda, caffè e sigarette e salii sul convoglio.

Presi posto in uno scompartimento completamente vuoto e mi affacciai per un ultimo saluto.

Alle otto in punto il treno si mise in marcia. Era praticamente deserto. I pochi passeggeri si concedevano il lusso inusuale di occupare da soli interi scompartimenti.

Osservando il panorama invernale dal finestrino, immaginavo le persone chiuse nelle case, in pigiama e pantofole, a far trascorrere, nei consueti riti, le ore che precedevano il momento fatidico del pranzo natalizio.

L’imbarazzante cerimonia dello scambio dei regali. Le telefonate di auguri ai parenti. La televisione accesa sulle riprese di una cerimonia religiosa in qualche basilica romana. I pellegrinaggi in cucina per sorvegliare lo stato di preparazione delle pietanze.

Il crescente senso di nausea, frutto della noia e dell’odore di brodo di carne filtrato in ogni angolo della casa fin dalle prime ore del giorno. 

Io, invece, ero libero. Leggero. Veloce. Senza il fardello di dover assolvere ad alcuna liturgia. Qualunque fosse.

Uno scarno bagaglio sulla reticella e una meta. Estranea. Lontana. Sotto un sole diverso dalla sfera pallida che si intravedeva attraverso lo strato sottile e diafano delle nuvole.

Appena un velo di inquietudine per quei minuti trascorsi al bar: io e mio padre a sorseggiare cauti la nostra bevanda calda, sfogliando i giornali

del giorno precedente, macerati dalle mille dita che ne avevano manipolato le pagine prima di noi.

Un retrogusto amaro di irripetibilità che volli scacciare con la prima marlboro della giornata.

FRANCESCO

di Francesco M. T. Tarantino  

Sei andato via anche tu come meteora in frantumi

Come un’alba che scorre e cede il passo alla sera

Non ti vedrò più finché questo tempo ti consumi

Finché non splenderai ancora in un’altra primavera

Amico d’infanzia sognante e adolescenza lacerata

Giorni di scuola vissuti tra il gioco e la fantasia

Percorsi d’oltre confine disegnati sulla massicciata

Rincorrersi con armi di legno e sfidare la cortesia

Eri piccolo e bello sembravi un angelo piccolino

Eri il vanto di tutta la classe un campione di bontà

Modesto e sorridente indifeso come un passerino

Portavi il nome di un gran santo sinonimo di libertà

È stato un peccato che la vita abbia voluto ferirti

Non so dirti perché e il perché di un oscuro gioco

Questo inizio di secolo strano che ha voluto sfinirti

In silenzio senza neanche aspettare ancora un poco

Per un bacio una carezza per un amore possibile

Bastava una manciata di anni e un altro orizzonte

E invece ti ha preso la morte e sembra incredibile

Guardarti traghettare oltre i giochi al di la del ponte

Comunque non posso darti un addio e scivolare via

Ti rincontrerò nei sogni al mattino giocare coi venti

Lungo il cammino chissà! forse nell’ultimo crocevia

Quando di nuovo i tuoi occhi brilleranno contenti

Aprirai le mani e mi prenderai per portarmi lontano

Andremo in un altro cielo che ogni giorno è diverso

Dove ogni attimo non è fuggente e non passa invano

E col sole e la luna disegneremo un nuovo universo

GRAMMICHELE

di Graziella Gorgone

Grammichele, 520 metri sul livello del mare, 15 mila abitanti, fa parte
del comprensorio Calatino, in provincia di Catania.
Grammichele è una città disegnata. Nasce subito dopo il violento
terremoto della Val di Noto, per evitare la dispersione dei superstiti di Occhiolà, un borgo rurale totalmente distrutto.

La pianta della nuova città, perfettamente esagonale ad orditura
centrica fu ideata dal principe Carlo Maria Carafa Branciforte, signore del
luogo, e disegnata dal frate architetto Michele da Ferla.

Lo sviluppo urbano abbandona, già alla fine dell'Ottocento, la
struttura disegnata, con un progressivo decadimento delle linee. Nella centrale piazza esagonale sorgono il palazzo Comunale, progettato dall'architetto Carlo Sada nel 1896, il Municipio e la chiesa Madre, dedicata a S. Michele, dalle linee barocche di rara sobrietà.

E ' una città con molte piazze, precisamente sei,quadrate perimetrali, da cui si può continuare in senso orario, in omaggio all'antica meridiana, percorrendo via Cavour, che attraversa tutte le piazze dei borghi periferici.

Oggi la piazza principale e le sei piazzette sono in fase di ristrutturazione.

I Grammichelesi attendono con ansia che le loro piazze tornino viabili come un tempo, perchè sono sempre stati meravigliosi luoghi d' incontro per lunghe chiacchierate o meeting di lavoro.

La cucina di Grammichele e dell'intera provincia, è una delle più ricche  e gustose della Sicilia. Ecco alcune delle pietanze più significative e tradizionali, apprezzate e note persino all'estero.Famosissima è l'insalata di mare con polpi, gamberi bolliti;

altrettanto diffusi sono i masculini marinati (alici del mare Ionio fatte  marinare in olio e limone), acciughe salate - in dialetto anciovi – pepata di cozze (soffritte, con pepe abbondante, limone e prezzemolo tritato).

Un posto importante occupa la popolarissima pasta alla Norma con salsa di pomodoro, melanzane fritte, basilico e abbondante ricotta salata grattugiata.

Altre pietanze rinomate sono la pasta con il nero delle seppie, condita con una salsa preparata con l'estratto di pomodoro, seppie e il nero di questi gustosi molluschi; la pasta con i masculini (alici fresche in un
soffritto di cipolla, piselli e finocchietto rizzu);
Molto diffusi sono la frittura di pesce (pesci tipici della costa) il pesce arrostito sulla carbonella. Le salsicce di maiale arrostite sulla carbonella (rinomate quelle di Grammichele e Linguaglossa) servite con
contorni di verdure, amareddi e cicoria.
A Grammichele potrete gustare anche la caponata con melanzane e pomodori, l'insalata di finocchi, l'insalata d'arance (affettate e conditecon olio, sale e pepe), i piatti di verdura cotta accompagnati da un buon
vino dell' Etna.

La rosticceria catanese è tra le più rinomate d'Italia. I principali pezzi sono gli arancini (arancine), croccanti palle di riso farcite di vario ripieno.
Primeggiano i cannoli di ricotta, confezionati con una speciale pasta  friabile farcita con una crema a base di ricotta e decorati con gocce di cioccolato fondente o frutta candita a pezzetti o pistacchio finemente tritato e la granita,finissimo ghiaccio tritato con frutta fresca.

DUE GIORNI A PARIGI

di Carla Rinaldi

L’amore, Parigi, il ponte sulla riva sinistra, la musica, il caos, la pioggia e la libertà estrema sessuale.

Questa è Parigi vista attraverso gli occhi del fidanzato americano della francese  Marionne. A causa delle troppe differenze e dei diversi modi di pensare non solo di lei, ma di tutti i suoi amici gaudenti, della sua famiglia sessantottina, ecco che iniziano gli scontri e i pochi confronti.

Da un lato, un newyorkese salutista, nevrotico, ipocondriaco, rigido e infinitamente protestante; da un altro, una parigina rilassata, svampita, allegra e fatalista al limite della stupidaggine. Il primo film diretto e interpretato da Julie Delphi, “Due giorni a Parigi”, racconta di una coppia che vive negli Stati Uniti e, tornando da un viaggio, si ferma, per due giorni appunto, a Parigi, patria di lei. Ma proprio in quella che dovrebbe essere una coda di luna di miele, succede l’inevitabile.

Troppe differenze, causa anche una lingua sconosciuta a lui, li porteranno nel giro di sole ventiquattr’ore, a una rottura caratteriale, a diverbi e esplosioni inimmaginabili. Per fortuna Parigi aiuta anche gli innamorati più distratti e alla fine tutto, più o meno, si risolverà. La pellicola in alcuni punti cade nell’imitazione alleniana, si perde nel nonsense  cerebrale tipico dei film del regista di Zelig. Ma  dopo due ore, anche se la storia sembra banale e furbetta, qualcosa lascia. Insomma, l’amore è l’argomento più adoperato in qualsiasi campo delle arti, ma è come lo si racconta e come lo si mostra che fa la differenza.

“Due giorni a Parigi” per fortuna si salva dai clichè  delle moderne commedia americane in cui dal riso si passa al pianto usando le solite strategie, qui almeno non ci sono limiti esistenziali tragici, ci sono solo due mondi a confronto e l’impossibilità reale a volte, di farli dialogare. Sono ben tracciati tutti i personaggi, il padre e la madre di lei vetero hippy che urlano, bisticciano, ma si amano e si confessano tra una baguette e una coscia di coniglio, a tavola, di gradire il sesso libero non solo per loro ma per tutta l’umanità; c’è un crogiolo di amici di lei che alla fine, per un verso o per un altro, sono tutti stati suoi ex, amanti, fidanzati, amici particolari, tutti segnati dal rapporto carnale con il corpo libero della bella Marionne. Il fidanzato va in tilt, perde fiducia, diventa morboso, geloso, la vorrebbe annientare senza pensare che lei ha lasciato il suo mondo intero per andare a vivere con lui.

No, lui è troppo accecato dal senso di possesso e non importa se tutto quello che lei ha fatto è collocabile in un passato remoto. Quando il film sta per finire, ormai sono divisi da qualcosa e anche se non avranno il coraggio di dirsi addio, in un certo senso è l’addio che ha provveduto per loro.

Saranno felici insieme a New York? Lui continuerà  crederle? Julie Delphi sembra porre anche quest’ultima domanda allo spettatore prima di congedarsi: può una città far prendere coscienza?

AMORI SCONNESSI

di Paola Cerana

Questa volta avevo intenzione di parlare d’amore.

Avrei voluto raccontarvi di un incontro tra due intimi sconosciuti, di un’esplosiva passione nata casualmente in rete. Del marasma di sensazioni che anche a distanza può scuotere il corpo, quel turbine di emozioni che pur attraverso il monitor riesce a pervadere il cuore. Di come due menti possono entrare in contatto tra loro anche senza sfiorarsi, perché il pensiero viene prima del corpo.

Sono le parole ad unire i due sconosciuti. Parole scritte, talvolta pronunciate, ma il loro potere è sempre enorme, specialmente quando non si ha la possibilità di scambiarsi altro. Tutti i nostri desideri e i nostri timori stanno chiusi lì, in brevi frasi alternate, con la voglia di essere capiti e di essere creduti.

“Ti amo” in rete è forse la frase più inflazionata, è vero, ma capita talvolta che venga pronunciata dal cuore.

Amore virtuale. Di questo avrei voluto tanto parlare. Di come è possibile innamorarsi di chi non si conosce, di un’idea senza volto, di un’ombra senza voce. Di qualcuno che non c’è ma che condivide con noi emozioni, angosce, desideri. La delusione quanto lui o lei è off line, l’eccitazione quando invece lo schermo si illumina e i pixel impazziscono perché il suo nick è lì che ci aspetta.

Complice il monitor, che filtra il nostro sguardo avido e languido, sguardo che lotta per carpire qualche dettaglio in più del nostro amore che sta di là, qualche suo segreto, chissà una lacrima, un sorriso…

Complice la tastiera, amati e odiati tasti, inevitabile intralcio che assorbe il nostro umore, la rabbia della gelosia, lo sconforto della rassegnazione, il fervore della passione. Lo stesso modo di ticchettare sui tasti, a volte carezzevole, altre impetuoso, traduce il nostro stato d’animo e gli errori di battitura tradiscono la nostra eccitazione, nella frenesia di comunicare.

Se la tastiera potesse parlare urlerebbe un fiume di emozioni, ci rivelerebbe senza ritegno, metterebbe finalmente a nudo la nostra anima. E’ il nostro diario segreto.

Di tutto questo avrei voluto parlare oggi. Di sentimenti nati davanti a un computer, che mi rifiuto di definire “virtuali”. Nulla cambia rispetto all’innamoramento “reale”. Forse in rete si osa di più, perché  l’anonimato aiuta, è vero. E’ più facile voltare le spalle alla timidezza e se poi il contatto si rivelasse una delusione, poco male, si chiude la chat, si cancella il link e si rilancia il dado.

Ma quando il feeling esiste e resiste, quando si accende non solo una fiamma ma si mette in moto un vulcano, allora non c’è più distinzione tra reale e virtuale. Le due dimensioni si mescolano nella complicità.

Non mi riferisco affatto a banali piaceri da macellaio, consumati maldestramente al semibuio di una web cam. No, non è di questo che voglio parlare.

Esiste una virtualità reale molto più profonda, che forse solo anime profonde sanno cogliere. Un’ arte erotica che sconvolge  il corpo e che s’impossessa dell’anima. Uno scambio magico di piacere inatteso, ca.

rezze sussurrate, sguardi immaginati e sospiri intrecciati.

Avrei voluto raccontarvi una storia come tante altre forse, eppure una storia speciale. Unica.

E’ la storia di Paulette, di lei avrei voluto parlare. Proprio oggi avrebbe dovuto finalmente coronare il suo sogno d’amore. Paulette abita in Second Life e Monsieur T l’avrebbe sposata, dopo un mese di frequentazioni intense. Si sono conosciuti per caso quando lei era ancora una newbee, una nuova arrivata, appena nata nella sua seconda vita, mentre lui era un navigato, esperto seduttore e amante conteso. Si sa, il tempo in rete brucia, accelera la conoscenza e l’interesse fa da detonatore al desiderio. E così in pochi giorni la comunicazione tra i due li ha fatti scoprire vicini, a dispetto della distanza fisica e sempre più intimi. Evidentemente si sono scambiati il codice d’accesso giusto al momento giusto, usando le parole perfette che reciprocamente aspettavano di sentirsi dire. E’ maturata così quella fiducia che ha consentito ai due di calare le maschere, di abbattere le difese e di osare sempre più essere se stessi.

Peccato che il loro sogno sia rimasto in stand-by, tuttora sospeso nell’etere.

L’empatia mi ha sempre aiutato a capire meglio le persone e in questo momento partecipo dei moti d’animo di Paulette e condivido le sue ansie.  Io sono lei … o lei è me? 

Enorme la sua pena, impotente di fronte all’inefficienza della tecnologia. Giorni di silenzio, connessione impossibile, adsl misteriosamente assente, computer muto, inutile. Isolata dal suo mondo, si agita la notte pensando al suo amato perso in qualche land desolata. Chissà a quanti angeli tentatori dovrà resistere … saprà poi resistere?  Si sveglia la mattina piena di speranza, corre al computer prima ancora che al caffè, accende, dita incrociate, scruta lo schermo. Niente da fare, “impossibile stabilire la connessione”. Che sconforto. E che rabbia!

187….il numero telefonico più digitato ultimamente. Ormai conosciamo a memoria la trafila. Sappiamo che per almeno cinque minuti saremo costrette a sorbirci quella odiosa voce metallica e un’ insopportabile musichetta registrata, prima di riuscire ad avere a che fare con qualcuno di umano. Se poi saremo fortunate ci imbatteremo in un operatore gentile

e di buon umore, cosa non frequente purtroppo e comunque di certo impotente di fronte alle nostre angosce.

Da giorni ci sentiamo ripetere “ il guasto sarà riparato entro quarantotto ore” ma quante ore sono passate ormai? E intanto l’amore è là, lontano, che aspetta…

Tutta colpa della Telecom!!! Ma perché, mi domando, anziché investire capitali in Second Life non si impegna piuttosto a rendere efficienti i servizi nella First Life, nella vita quotidiana, fatta di telefoni, computer, cavi e connessioni?

Telecom ha pensato bene di aprire cinque land in Second Life, di cui quattro di intrattenimento. Recentemente ha persino innalzato un grattacielo di trenta piani, l’Ecosystem Tower, che ospita al suo interno due auditorium, un centinaio di uffici e diverse aree dedicate ai servizi di telefonia. Non solo! Grazie a Telecom gli avatar hanno la possibilità di effettuare telefonate tra loro, inviare sms, instant messeges e email, collegandosi al modo reale mantenendo l’identità virtuale. Iscrivendosi al servizio, è addirittura è possibile ricevere in regalo un telefonino virtuale TIM e un pacchetto gratuito di dieci telefonate di tre minuti ciascuna  e quaranta sms verso numeri nazionali!

Ma non è paradossale tutto questo? Innanzitutto gli abitanti di Second Life non hanno bisogno di telefonini, essendo attivo il servizio di voice in streaming. Secondariamente, a quanto pare,  la comunicazione telefonica sarebbe circoscritta all’interno di una stessa land e non tra due land diverse, quindi l’utilità sarebbe minima. Ma soprattutto, se è così spesso impossibile accedere a internet, per chissà quali misteriosi errori di Telecom, a che vale tutto questo prodigarsi nel virtuale? Non è vergognoso che tanto capitale venga impiegato per raffinare la comunicazione in un mondo simulato quando è quello reale ad essere pieno di falle?

Non posso, quindi,  raccontare della storia d’amore di Paulette, perché è rimasta un sogno, un bellissimo sogno boicottato dall’inefficienza della tecnologia. Sono certa che appena resusciterà nella sua seconda vita, Paulette farà visita all’isola di Alice Home cliccando un reclamo che sicuramente non renderà giustizia alle sue pene d’amore ma che almeno le darà la soddisfazione di far sentire la sua voce tra il coro delle già folte lamentele.

Dopo di che spero possa proseguire senza più intoppi il suo cammino interrotto.

Forse è vero che l’amore in rete è solo un incontro illusorio per eterni adolescenti, che preferiscono sognare anziché vivere. Ma tutti hanno diritto a coltivare i propri sogni …

Telecom permettendo, ovviamente!


BREVE CONFRONTO TRA IL RITO MATRIMONIALE  DELL’ANTICA ROMA E QUELLO ODIERNO

di Luigi Paternostro

Uno degli elementi fondamentali del matrimonio romano è il consenso della sposa che questa era tenuta ad esprimere dando così all’atto un contenuto più umano.

Oggi il consenso è richiesto ad entrambi i contraenti. Nel rito religioso poi viene espresso con una formula precisa. Io...prendo te come  sposo/a e ti prometto di esserti fedele nella buona e nella cattiva sorte..

Altro momento importante è la negoziazione della dote della donna.

Oggi la dote non è più obbligatoria. Se attribuita, conferisce alla donna una personale proprietà che ne aumenta l’autonomia.

Il matrimonio fu una vera e  propria coniunctio maris et feminae. Eccezionali furono il   divorzio o le seconde nozze della vedova che restando univira, cioè di un solo uomo, acquistava titoli di alta lode.

L’unione è indissolubile.

Il divorzio è più possibile ed è regolato da apposita normativa.

Il matrimonio è  preceduto da un fidanzamento che ha luogo mesi ed anni prima delle nozze e che si svolge con un cerimoniale tutto particolare. A volte, come avveniva tra i greci, la promessa, la sponsio, era un patto fra i solo genitori degli sposi, senza però costituire un preciso obbligo di matrimonio. Non era raro che il fidanzamento fosse sancito con una caparra, arra, data dal futuro sposo, consistente in un anello  di ferro oppure di oro.

Il fidanzamento, anche di breve durata, è di prassi.

Gli sponsalia, cioè le promesse e gli impegni, sono stati praticati per tutto il medioevo fino alle soglie dell’era moderna a volte con mire occulte riguardanti interessi o alleanze ignorate dai giovani e fatte contro la loro libera volontà.

Dell’istituto della caparra invece è rimasto in vigore lo scambio degli anelli di fidanzamento o di altri monili e gioielli. Di prassi tali oggetti vanno restituiti se non si celebrano le nozze.

La data della cerimonia nuziale richiedeva cure particolari.

La religione designava come favorevoli solo alcune epoche. Erano sconsigliati i mesi di maggio, la prima quindicina di giugno, la prima di marzo, i giorni coincidenti con le feste in onore dei defunti che si svolgevano dal 13 al 17 febbraio, i giorni delle calende (primo del mese), delle none (il 5 o il 7 del mese), e degli idi di marzo, maggio, luglio ed ottobre che in questi  mesi cadevano il 15 mentre negli altri  il 13.

La vedova era esentata da qualcuno di questi obblighi e poteva abbreviare anche altre consuetudini.

Anche oggi è laborioso fissare la data del matrimonio. Esistono alcuni periodi non consigliabili ed altri del tutto proibiti.

Sono sconsigliabili i mesi di novembre dedicato  ai defunti e i mesi di luglio ed agosto  sia per l’eccessivo caldo, agosto, moglie mia non ti conosco!, sia perché ci si trova in periodo di ferie. Sono poi proibiti, per i matrimoni religiosi, il periodo dell’Avvento compreso tra la prima domenica di dicembre e il Natale, tutta la quaresima, che coincide con gli ultimi giorni di febbraio e tutto marzo. Nel secondo capitolo dei Promessi Sposi il Manzoni mette in bocca a Don Abbondio questa serie di impedimenti dirimenti: error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, si sis affinis... alcuni dei quali tuttora vigenti nel canone romano ed altri, come la disparità del culto,  superati con il matrimonio misto tra credenti e non o tra credenti di religioni diverse.

Com’era il vestito di nozze. La fanciulla indossava una tunica recta cioè un abito tessuto con fili disposti verticalmente tenuta in vita con una cintura di lana, il cingulum, allacciata con un nodo particolare, herculeus, che la proteggeva dal malocchio. Sopra detta tunica  portava una palla, cioè un mantello color zafferano. In testa metteva un velo rosso, flammeum, su di un’acconciatura a sei trecce posticce, crine, tenute insieme da uno spillone che si chiamava hasta caelibaris. Sotto il velo era posta una corona di fiori di campo da essa stessa raccolti, fiori e drappi che ornavano la casa particolarmente ordinata e ripulita.

Oggi il vestito della sposa, pur nella varietà dei modelli, è un pezzo unico a volte anche arricchito da trine o ricami vari.

In testa si mette un velo bianco e fiori, finti o naturali.

L’abito può avere una lunga coda sorretta da uno o due paggetti che sostituiscono il camillus (vedi più avanti).

La chiesa è ornata di fiori sistemati in loco da un fioraio.

La cerimonia comprendeva tre parti:

1. la consegna della sposa allo sposo;

2. l’accompagnamento della sposa alla nuova casa;

3. il ricevimento nella nuova casa.

Voglio ricordare che la casa romana era caratterizzata da una grande penuria di mobilio e di suppellettili.

Vi erano semplici casse, capsae, tavolini con tre o quattro gambe, tabulae, sedie con spalliera, cathedrae.

Nei cubicola, vi era il lectus cubicularius.

Nelle case dei ricchi si trovavano candelabri, specchi di bronzo e di argento, tripodi, bracieri, orologi ad acqua e meridiane ed altri oggetti artistici che oggi ammiriamo nei musei.

Oggi, il padre della sposa, nel rito cattolico, la consegna allo sposo, ai piedi dell’altare. Non è praticato più il secondo momento. Il terzo è ancora in uso e consiste nel ricevimento o pranzo di nozze fatto fuori casa.

La casa è un bene comune al quale provvedono entrambi gli sposi o i loro genitori.

E’  riccamente e variamente mobiliata e soprattutto dotata di elettrodomestici ed altri robot alla cui dotazione provvedono anche parenti ed amici finanziando liste di nozze.

A proposito del cubiculum, camera o stanza da letto, fino agli anni cinquanta dello scorso secolo, questa era sistemata, soprattutto nelle casa dei poveri dei paesi del sud composta da una sola stanza plurifunzionale,  in uno stretto spazio della stessa detto arcòmu (dall’arabo al qùba), ove era posto il letto nascosto da una tenda che restava aperta solo di notte

Il rito si svolgeva consultando gli aruspici. Veniva sacrificato una agnello,  e si stendeva il contratto nuziale, tabulae nuptiales,  fatto alla presenza di dieci testimoni, davanti ai quali veniva riconfermato il consenso della sposa e dichiarato quello dello sposo.  La sposa lo esprimeva con una formula tradizionale tratta dal rituale greco che suona pressappoco così: ubi tu Gaius, ego Gaia. A questo punto interveniva una specie di madrina la pronuba, che doveva essere una donna maritata,  che univa tra loro le destre degli sposi iniunctium dextrarum. In questo preciso momento si presentava a Giove l’offerta di frutta e di pane, panis farreus. Gli sposi che intanto erano stati     seduti su due sedie accostate, si alzavano pregando e facendo, da destra a sinistra, il giro dell’altare preceduti da un   camillus, un fanciullo, che portava un vaso contenente la mola salsa, un cruschello o focaccina salata, l’offrivano al Dio insieme ad altri doni.  Davanti ad un sacerdote pubblico o haruspex nuntiarum, aruspice delle nozze, venivano poi signatae, vergate, alcune tabulae, tavole su cui si scriveva, con un dictum feliciter, frase augurale, che concludeva con  la firma il contratto nuziale. Seguiva poi da una ingens cena.

Dopo il banchetto la sposa in corteo veniva accompagnata a casa del marito preceduta da tre fanciulli i cui genitori devono essere tutti viventi, di cui due ai suoi fianchi ed uno con una torcia, un fuso ed una conocchia avanti. Arrivata presso l’uscio la sposa lo ungeva con olio e grasso asciugandolo poi con un panno di lana.   Dopo essere stata sollevata a braccia per evitare che facesse un passo falso veniva depositata in casa.. Il marito attendeva nell’atrio e le presentava l’acqua e il fuoco, simboli di culto e di vita in comune. La sposa poi veniva collocata dalla pronuba (lett. colei che è addetta alle nozze) nel lectus genialis su cui pregherà per la prima volta gli dei della sua nuova casa.

Così ha termine la cerimonia.

Rarissimi un tempo, i divorzi si fecero più frequenti e giustificati da fatti sempre meno gravi. La sterilità della sposa fu causa di divorzio che veniva ripudiata con la formula tua res tibi habeto. (prendi le tue cose e vattene). Per non ricorrere al divorzio, non presente nello spirito delle originarie leggi, fu praticato l’uso dell’adozione per cui l’adottato entrava a fare parte della famiglia accettandone la patria potestas, e rinunciando al proprio, ne assumeva anche il nome.

Il rito può assumere due volti. O è solo rito civile o rito religioso con effetto civile. In entrambi è richiesto il consenso degli sposi. Il rito civile è presenziato da un ufficiale di stato civile che legge ai nubendi le norme del codice facendo sottoscrivere un atto.

Quello religioso da un ministro del culto. Entrambi prevedono la presenza di testimoni sottoscrittori.

Nel rito civile e in quello religioso anche oggi la donna dichiarando di seguire il marito ovunque egli intenda fissare la propria dimora, di fatto ripete l’ubi Gaius. Nel rito religioso cattolico il sacerdote fa unire le destre e benedice l’unione suggellata dallo scambio degli anelli. Gli sposi pure siedono su sedie accostate. Ricevono dalle mani del ministro il corpo di Cristo sotto le sembianze del pane e del vino, e alla fine, dopo aver dichiarato e promesso reciproco amore e fedeltà per tutta la vita, firmano, insieme ai testimoni, l’atto che sancisce la loro unione. Nei tempi antichi seguiva un pranzo nuziale preparato in casa al quale partecipavano i parenti più stretti, i testimoni e pochi invitati. Oggi il pranzo è consumato al ristorante e più numerosi sono i parenti e gli amici. In questa occasione gli sposi ricevono doni, sostituiti via via da danaro contante.

Non si usa più accompagnare la sposa nella nuova casa. La coppia vi torna dopo un viaggio di nozze. Fino agli anni cinquanta dello scorso secolo la luna di miele, consisteva nel trascorrere una settimana in campagna in appositi casolari usati allo scopo. I più poveri restavano nella loro casetta.

Era tradizione che il letto nuziale fosse preparato da nubendi, soprattutto sorelle o cognate, sotto l’attenta guida di entrambe le madri degli sposi.

In alcune zone del meridione, rimase lungamente in uso,   che la madre della sposa ed una comare, ispezionando il letto coniugale il giorno dopo, accertassero l’avvenuta consumazione delle nozze dandone poi comunicazione a parenti, amici e conoscenti.

I divorzi, tutti regolati da precise norme di legge, non sono più rari.

Prima non si divorziava per vergogna e si continuava a vivere sotto lo stesso tetto fino alla morte con enorme sacrificio pur di salvare le apparenze.


Pure per legge è disposta l’adozione.

Anche oggi l’adottato assume il cognome dell’adottante.

DIMMI COME APPARECCHI…

di Raffaella Santulli

La tavola è il punto di ritrovo della famiglia, degli amici, delle persone che si amano: grande o simbolica, formale o disinvolta, scandisce i momenti della giornata dalla prima colazione all'aperitivo, dal rito del tè al pranzo importante.

La cura dei dettagli parla del saper vivere, soprattutto in presenza di ospiti, come già indicava nel suo eccezionale e celeberrimo vademecum Monsignor Giovanni Della Casa, uomo accostumato ed illustre del sedicesimo secolo.

Questa grande invenzione collettiva, scaturita dalla necessità, seppur termometro del progresso e delle oscillazioni del gusto estetico e sensoriale, conserva il suo spirito. Per fortuna.

A tavola non si invecchia, recita un abusato adagio popolare, ma è la tavola a non invecchiare, ad essere sempre di moda, ad evocare uno stile di vita meditato che sopravvive al futuro.

Non perde il legame con il suo miglior passato, con lo sfarzo dei grandi pranzi del Re Sole o di Napoleone, delle corti ottocentesche, dei magnati illuminati del primo novecento, con certe inossidabili convenzioni come la disposizione dei commensali e l'orchestrazione di piatti, posate, bicchieri, tovaglioli e complementi ornamentali.

L'imbandigione: una seduzione.

Materiali e forme, da quelli della tradizione a quelli tecnologici- in apparenza effimeri- sono i mezzi per esaltare questa immortalità che nutre l'idea stessa della tavola.

Titoli alternativi: Imbandita emozione/ intramontabile seduzione/ una passione quotidiana/ emozione forever.

LA MORTADELLA

di Antonio Penzo

Per attribuzioni ben diverse da quelle gastronomiche,

molti ritengono di conoscerla pienamente, ma la mortadella di Bologna è un prodotto di puro suino, insaccato e cotto, dalla caratteristica forma cilindrica e da un delizioso profumo intenso.

La preparazione è costituita dalla scelta di carne magra di suino, proveniente da tagli nobili, per la maggior parte dai muscoli della spalla e dello stomaco del suino, detto “trippino”, che determina il gusto e la consistenza, carni che devono essere di elevata qualità. Il tutto va triturato finemente in tre stadi, per ottenere una pasta fine, che osservata attentamente ha l’aspetto di minuscole treccioline.

L’altro componente è il “lardello” ossia pezzetti del grasso della gola, tagliati a piccoli cubetti, che vengono lavati con acqua calda per eliminare la patina superficiale di grasso, così da permettere una amalgama completa del prodotto, conferendo allo stesso maggiore dolcezza.

L’impasto fine e i lardelli vengono immessi in una impastatrice unitamente agli ingredienti sale, pepe e spezie ed i conservanti. 

Infine si procede all’insaccatura, che deve essere effettuata eliminando dall’impasto tutte le bolle d’aria, in involucri naturali o sintetici. 

Il formato classico è quello di Kg 12 circa, ma le pezzature variano da Kg 1 a Kg 14 e spesso vengono preparate mortadelle di peso notevolmente superiore, che superano il quintale.

La mortadella va legata per evitare che l’involucro si rompa nella fase di cottura, posta in un ambiente chiuso dove l’aria è riscaldata indirettamente tramite vapore o elettricamente.

Ogni salumificio ha, per questa fase, un segreto gelosamente custodito. Comunque la temperatura non deve essere inferiore ai 70° nel cuore del prodotto e dura normalmente per 24 ore per la pezzatura da Kg 10-12. L’esperienza del produttore è tale da consentire un controllo tattile della cottura, anche se ora si utilizzano termometri a sonda.

Da ultimo, una doccia con acqua fredda ed una sosta in cella di raffreddamento permettono al prodotto di stabilizzarsi.

Al taglio, la superficie è vellutata e di colore rosa uniforme; il prodotto emana un profumo particolare ed aromatico e tipico e delicato è il suo gusto.

Grazie agli ingredienti utilizzati, la mortadella si presenta perfettamente in linea con l’attuale scienza nutrizionale. L’apporto di colesterolo è bassa e la presenza di sale limitata.

E’ consigliata come alimento ideale per colui che svolge attività fisica, data l’elevata presenza di proteine nobili e il mantenimento delle vitamine, che non è alterato nella fase di cottura.

I valori nutrizionali medi, desunti dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, sono: parte edibile 100%; energia Kcal 317; proteine 14,7%; lipidi 28,1%; acidi grassi saturi 9,25%; acidi grassi mono insaturi 12,8%; acidi grassi polinsaturi 3,94%.

Il miglior modo per gustarla è tagliarla a fette di non grosso spessore, oppure in pezzetti a forma di losanga o “dadini”, con pane o piadina o grissino o crescenta da tigella.

Varie sono le ricette che hanno a base la mortadella, come il ripieno dei tortellini,  ma la più sfiziosa la “spuma di mortadella”.

Spuma di Mortadella Bologna
Ricetta dello chef Eros Palmirani

Dosi per 4/6 persone

Ingredienti:
gr. 300 Mortadella Bologna IGP; gr. 100 ricotta fresca; 1 cucchiaio di panna liquida

Procedimento


Tritare molto finemente la mortadella in un cutter o tritatutto. Aggiungere poi la ricotta ed amalgamare il tutto fino a formare un composto omogeneo. Accorpare in ultimo la panna e fare frullare il composto così ottenuto. Servire in tavola con crostini caldi e burro.

LE GOURMAND BRIGNÉ

Francesco Rinaldi

Pochi ricordano, quasi nessuno è più in grado di prepararla, la “povera” pasta “brigné”.

Povera ? Nel senso di umili origini e nel senso di un piatto ricco per i poveri e per i semplici.

Piatto di appartenenza ad una Old Calabria, già dimenticato ai tempi in cui l’aristocratico viaggiatore inglese, Normann Douglas, percorreva, a piedi, questa landa selvaggia e desolata, prima di fermarsi nella più dolce e mondana Capri e cominciare a cibarsi di insalata e torta caprese.

Farina, burro, uova, polpettine, brodo di pollo “nostrano”, verdure, lunghissimi tempi di cottura e di frittura per prodotti più che biologici, semplicemente naturali, preferibilmente delle proprie terre. Naturali come la Regione che li produce.

Ma non basta !

Il tutto deve essere scientificamente mescolato, secondo antiche leges artis, da mani esperte e capaci, stoicamente avvezze all’uso di altrettanto complessi e datati strumenti di cucina.

L’odore ed il sapore inebriano le menti, rallentano i battiti cardiaci, si allargano le pupille e le narici.

Vi illudevate che avremmo divulgato la ricetta ? Purtroppo non è possibile !

E’ meglio di una “droga” moderna, per di più non sintetica, rende tutti più belli e più intelligenti.

Prodotto, allora, da discoteca ?

Purtroppo no !

Consigliabile per cene d’affari ?

Non direi ! A meno di non voler compromettere irrimediabilmente l’affare.

Un piatto sublime, per chi può permetterselo, non secondo parametri di valutazione economica – quali ricchezza e povertà –, bensì secondo rigidi obblighi spirituali.

Primo fra tutti, quello di sedersi per almeno più di un quarto d’ora a tavola in buona compagnia, esercitando quell’arte che dovrebbe, almeno, distinguere la specie o genere umano da altre specie o generi: l’arte di comunicare.

Privilegio, questo, forse dell’un per cento della popolazione italiana – e non solo –, che prescinde dallo status di coloro che vi appartengono.

Ah ! Dimenticavo il vino !

Perché non abbinare un Puligny-Montrachet, il nobile vino di Dumas padre; o, se si preferisce, un buon “diavolo biondo”, Champagne o Blanc des balncs, possibilmente di Saumur.

Va bene ! Se vi va, siete tutti invitati a cena … Prezzo a parte !

PRIVACY: IMPARIAMO A CONOSCERLA

di Nicola Perrelli                     

A parlare di privacy nel nostro Paese si è cominciato soltanto nel 1980 e principalmente con lo scopo di  tutelare le informazioni di carattere “riservato” attinenti a ogni individuo.

E’ stato poi necessario aspettare fino al 1996 per avere la  Legge n. 675.  Quella, per intenderci, che per la prima volta in Italia, ha dato  una veste normativa alla privacy, o meglio alla sfera privata.

Da allora, volente o nolente, il termine privacy  è entrato  a far parte del lessico quotidiano.

In ogni ambito del vivere civile, nei rapporti con il prossimo, sia esso un’altra persona,un’istituzione pubblica o ancora una società privata, bisogna ormai fare i conti con le rigide regole poste a tutela della privacy, vale a dire dei diritti fondamentali della persona.

La legge sulla privacy , letteralmente “privato”, regolamenta quindi il proprio e altrui modo di comportarsi nella società e ancor di più il proprio io per ciò che riguarda i dati sensibili, cioè le inclinazioni sessuali, il credo politico e religioso, lo stato di salute e via di questo passo.

La tutela della sfera privata è senza dubbio un argomento delicato che interessa tutti. Gli ambiti applicativi sono innumerevoli e spesso di forte impatto sociale. Al punto che il legislatore a distanza di pochi anni, precisamente nel 2003,  ha ritenuto indispensabile riunire nel Codice Privacy  tutta la normativa vigente  in materia per semplificare l’applicabilità della Legge,  aumentare concretamente l’attuazione delle tutele al vivere di tutti i giorni e ancor più  far comprendere  ai cittadini che il riconoscimento del diritto alla privacy nei rapporti sociali è un evidente strumento per la  salvaguardia dell’individuo.

Nome, cognome, codice fiscale, indirizzo, numero di c/corrente, partita Iva, numeri di telefono,ecc., non possono essere protetti solo da generiche clausole contrattuali inserite qua e là da parte della pubblica amministrazione o da qualche grande azienda di servizi (banche, assicurazioni, telecomunicazioni, energia), ma anche da reali garanzie di sicurezza. Il trattamento dei dati identificativi, quali le modalità di raccolta e di conservazione, i possibili monitoraggi e  l’uso che se ne fa, deve realmente proteggere la sfera privata dell’individuo e il suo diritto alla riservatezza.

Una maggiore tutela  è stata naturalmente riservata a quei dati che la legge stessa definisce sensibili che individuano idee politiche, convinzioni religiose, vita sessuale, stato di salute, oppure giudiziari come le condanne definitive, le misure di sicurezza, la condizione di indagato o di imputato e via dicendo.

Il Codice della Privacy stabilisce  che la raccolta dei dati e il loro trattamento può avvenire esclusivamente previo consenso dell’interessato.

Ciò significa che una volta concluso un contratto, ad esempio con un’azienda di servizi telefonici, al cliente (il proprietario dei dati forniti) viene data l’assoluta libertà di decidere entro quali limiti l’azienda stessa può  agire nei suoi confronti  per effettuare contatti, comunicare promozioni e proposte commerciali, ecc..

Il cliente ha in altre parole la facoltà di poter limitare o addirittura negare, non dando il consenso,  l’uso dei propri dati per tutte quelle finalità che non reputa utili. E il gestore è obbligato a non andare oltre i limiti del consenso ricevuto.

A garantire il rispetto delle norme previste dal Codice della Privacy è  il “Garante della protezione dei dati personali”.

Tale organismo, con sede a Roma, è a completa disposizione di tutti coloro che ritengano violata la propria privacy.

Un recente importante provvedimento emesso dal “Garante”, a tutela della privacy e delle tasche dei cittadini,  è quello che ha disciplinato il mondo dei call center e dei contratti con questi conclusi a distanza.

Ciò significa che d’ora in poi non solo si eviteranno spese per servizi mai richiesti, quanto esprimendo la volontà di non essere più contattati in futuro, il call center  dovrà obbligatoriamente provvedere alla cancellazione dei dati dagli archivi, elettronici o cartacei che siano.

E non è poco!!!

UNA CURIOSA ED INTERESSANTE TRIADE

di Francesco Regina

Mormanno ha tre cappelle che onorano i tre arcangeli: Gabriele, Raffaele, Michele. Esse possono costituire una caratteristica particolare, se non unica, per il nostro borgo.

Gabriele è implicitamente venerato nella cappella della Annunziata, Raffaele e Michele esplicitamente nelle omonime cappelle.

Ragioni storiche, cioè di avvenimenti o di decisioni che abbiano determinato il culto e la costruzione delle cappelle non ne conosciamo.

Ragioni devozionali e culturali relative ai tre arcangeli, sia sul piano biblico, sia su quello del sentimento e della immaginazione, hanno sempre avuto una loro importanza e una loro straordinaria presa emotiva e celebrativa.

Gabriele, che annuncia a Maria la sua maternità è dentro il più grande avvenimento della storia – l’Incarnazione – e accanto a una figura – la Madonna – che è la più grande e affascinante creatura umana che si possa immaginare. Il suo nome significa “forza di Dio, Dio che salva”. E’ l’arcangelo della Annunciazione (25 marzo).

Raffaele, che accompagna il giovane Tobia in un viaggio lungo e difficile, sotto l’apparenza di un giovane, è l’arcangelo che guarirà dalla cecità il vecchio Tobia (padre) e libererà Sara (sposa di Tobia) dal demonio.

Esso costituisce una presenza rassicurante e benefica. Il suo nome significa “Dio guarisce”. Si parla di lui nel libro intitolato appunto Tobia, che

è un libro del Vecchio Testamento. La sua festa era celebrata il 24 ottobre.

Nel dipinto qui a fianco si vede l’Arcangelo che guida proprio il giovane Tobia.

Si tratta di una tela proveniente da una ormai diruta chiesa campestre sita in contrada  Malinieri denominata Chiesa dell’Angelo, un tempo proprietà Minervini [10] .

La tela, di discreto valore storico-artistico, reca sul lato sinistro una dicitura autografa che ne ricordava il restauro: Restaurata da Francesco La Greca, 1898.

Dopo una lunghissima permanenza nella matrice, qualche anno fa fu collocata nella chiesetta omonima.

Michele viene presentato nel Vecchio Testamento come il capo delle milizie celesti e il difensore del popolo eletto, poi nel Nuovo Testamento (Apocalisse) come il capo degli angeli buoni che combattono contro Lucifero e gli altri angeli cattivi, ribelli.

Rappresenta il vincitore, il fedele di Dio, il difensore contro le potenze del male. Il suo culto è legato in modo particolare alla sua apparizione  sul Monte Gargano, apparizione della quale però non si hanno prove storiche.

Viene festeggiato due volte nell’anno: l’8 maggio per ricordare l’apparizione e il 29 settembre per ricordare la dedicazione della chiesa sul luogo della apparizione. Il suo nome significa “chi come Dio”.

Il breve approfondimento personale è nato da una serie di  constatazioni e valutazioni  scaturite a loro volta a seguito di sgradevoli episodi recentemente accaduti.

Ci duole dover registrare come di notte tempo degli ignoti siano penetrati una prima volta in San Michele, portando via qualche candeliere ed un crocifisso.

A distanza di due giorni viene asportata da mano ignota la tela sopra riportata raffigurante San Raffaele lasciando evidenti segni di scasso sul portone d’ingresso.

Ancora, si verifica la seconda visita in San Michele,con il preciso proposito di rubare la statua dell’Arcangelo, la quale è stata ritrovata l’indomani distesa sull’Altare Maggiore priva fortunatamente di lesioni o scheggiature, quasi vilipesa.  Evidentemente gli impavidi e temerari autori, trovandosi impreparati per il peso eccessivo della statua, avranno pensato bene di lasciarla pronta a posto di carico per una terza visita più organizzata.

Il nostro auspicio è comunque quello che si tratti di casi isolati e non correlati, diversamente, pensando per esempio ad ipotetici seriali animati da insani fini, la situazione risulterebbe certamente allarmante.


LONTANO…

di Marilena Rodica Chiretu

Nessuno c’è cosi lontano

da non superare

l’orizzonte dipinto dalle fiamme

dei desideri nascosti nella mente

che chiude la memoria

per far aprire le parole

nell’arco delle voci che arrivino

fino da te, sulla sponda del sole,

sulle onde del dolore

Nessuno c’è cosi lontano

da non accogliere

una sillaba, un suono, un colore

nella sinfonia delle nuvole

regalando un barlume di luce a ciascuno;

uno a te, che disegni sul biano della pelle

una casa,

a te, che assaggi con gli sguardi i sapori

degli alberi,

anche a te, che accendi il filo rosso

della passione sulle mie guance,

a te, che viaggi in Universo

per portare in Terra

lo splendore degli astri,

e soprattutto a te,

che sei il soffio dell’amore

e della mia poesia…

Departe...

Nimeni nu este atat de diparte

incat sa nu depaseasca

orizontul pictat de flacarile

dorintelor assunse in mintea

ce inchide memoria

pentru a deschide cuvintele

in arcul glasurilor care sa ajunga

pana la tine, pe tarmul soarelui,

pe valurile durerii

Nimeni nu este atat de diparte,

incat sa nu intampine

o silaba, un sunet, o culoare, 

in simfonia norilor,

daruind o sclipire a luminii fiecaruia;

una tie, cel care desenezi pe albul pielii

o casa,

tie, cel care gusti cu privirile

aromele copacilor,

si tie, cel care aprinzi firul rosu al pasiunii

pe obrajii mei,

tie, care calatoresti in Univers

pentru a aduce pe Pamant

stralucirea astrilor,

si mai ales tie

care esti suflul iubirii

si al poeziei mele…

BATTAJA DEL PORCU

di Paola Guasco

Avvicinandosi l’inverno si torna a gradire cibi gustosi e saporiti che oltre a regalarci tante sensazioni danno anche tanta energia e ci fanno ritrovare il gusto dello stare insieme magari davanti ad un caminetto acceso.

Tutto questo per elogiare un animale che, seppur bistrattato e spesso indicato come simbolo della sporcizia, è in realtà un fonte di ricchezza.

Lo sanno bene i miei concittadini che, se storicamente si sono liberati dalle angherie degli anconetani (città da sempre in lotta con Osimo per questioni di confini e supremazia) è stato anche per merito di questo animale e io, con campanilismo manifesto, intendo far conoscere questa storia che è stata tramandata  nella forma di un  gustoso ed ironico poemetto in vernacolo da uno scrittore Osimano, tal Benedetto Barbalarga.

Nel corso della bimillenaria storia della “Antichissima et Nobilissima” Città di Osimo – Vetus Auximon per i romani accadde un curioso fatto (tra leggenda popolare e fatto storico acclarato).

Si tratta   della guerra scoppiata sul finire del XV secolo per questioni di confini oltre che per il controllo della roccaforte di Offagna tra la città d’Ancona, oggi capoluogo delle Marche, e la sua rivale di sempre: Osimo per l’appunto.

La guerra si risolse a favore degli osimani, che pure erano in inferiorità di uomini e di armi ma guidati dall’intrepido capitano di ventura Boccolino di Guzzone, poi dittatore della città di Osimo, quindi mercenario al soldo del fiorentino Lorenzo il Magnifico e del milanese Ludovico il Moro.

Questa battaglia, che può essere ritenuto un comunissimo fatto di lotta come tante che vi furono tra le città dell’Italia rinascimentale, assume particolare valore se si pensa che passa alla storia col nome della “Battaja del porcu” (Battaglia del maiale) in quanto la scintilla che la innescò fu la razzia, fatta dai soldati anconetani, di alcuni maiali che, loro malgrado, si erano trovati a sconfinare, gli osimani, non potendo e non volendo restare a guardare, anzi,  reclamando il maltolto, dichiararono guerra ed ebbero la meglio, infatti, benedetti quei maiali che fecero sì che Osimo mantenesse il possesso della Rocca di Offagna.

SCUSATE SE…

di Ferdinando Paternostro

Scusate se approfitto di Faronotizie per questioni personali.

Vorrei rivolgermi…

…a quel gentile giovine che uscendo dal parcheggio a spina e  non rammentandosi di rigirarsi su strada a doppio senso, mi ha costretto stamane  ad una strambata degna di Luna Rossa..

.. a quella rigogliosa signora con cane al seguito, messa alla guida di un monumentale SUV  da un marito troppo generoso e sicuramente ignaro di varie e ripetute cornificazioni,  la quale ieri mi ha inopinatamente tagliato la strada per seguire una sua fantasiosa traiettoria su un viale perfettamente rettilineo. 

Le ho fatto cenno come dire “che  c..avolo  fai !”,   mi ha risposto “ non hai visto, ho la freccia ?” ...

…a quanti hanno preso per certo la patente nel Tavoliere delle Puglie e ad ogni curva dei viali, sorpresi, saltano di corsia, quasi sempre a stringere…  

… a quanti per “parcheggiare comodo” si lasciano mezzo posto davanti e mezzo dietro, cosicché per trovarne un altro occorre ripassare l’isolato una decina di volte,  ogni giro un premio…

… a quel premuroso tassista  che ha fatto scendere letteralmente  in mezzo alla strada, in piena corsia di marcia, una attempata e traballante vecchietta.

Gli ho fatto un cenno come dire “ma sei scemo ?” , mi ha risposto irritato “sul marciapiede c’erano lavori”…

… al distinto signore che accosta ripetutamente,  come per fermarsi, poi non si ferma, riparte, a singhiozzo  si riferma, senza freccia… poi con quattro .. esageriamo…e  spalanca la portiera a 2 micron dalla mia fiancata…

… al pedone che deve per forza attraversare lì, ci sono le strisce 3 metri più avanti ma lui deve irrefrenabilmente attraversare lì, dietro di te non ci sono altre macchine ma lui deve passare prima.

A  tutti quanti loro il mio più sentito…

… e caloroso saluto !

A VOLTE RITORNANO…

di Francesco Aronne

Novembre, da sempre e per tutti, o forse solo per molti, il mese dei morti. Mese dei morti, mese dei cimiteri, Ovunque fiori freschi o finti, ceri e lumini suggellano una ricongiunzione fittizia del mondo dei vivi con quello dei morti.

Rispolverando “AL MURO!”, un vecchio album di francobolli di altri tempi (ma forse di medesimi e attuali climi) rileggo in una vecchia emissione del 14 maggio 1989il grado di civiltà di un popolo si vede anche dal rispetto dei propri morti!”. Si lamentava, in quel tempo, il vergognoso stato di abbandono e degrado in cui versava il nostrano cimitero. L’inedia e accidia della sonnolenta amministrazione di allora, seppur vitale (e anche troppo) su altri fronti, faceva registrare la imbarazzata latitanza sul problema denunciato,

Un vortice di polvere 18 anni dopo ci riporta indietro, con la differenza che allora il custode era andato in pensione e continuava a prestare opera di volontariato, mentre adesso il custode è stato rimosso dal nuovo corso amministrativo mormannese (e da chi sostituito?). Le risibili e miserabili motivazioni sussurrate sottovoce sono (come spesso accade di questi tempi nel contado) anacronistiche e offensive per la intelligenza di chi le ascolta. Qualche consigliere comunale a cui è stata chiesta a caldo la motivazione dell’accaduto si è dichiarato addirittura ignaro non solo dei motivi del trasferimento, ma del trasferimento stesso.

E’ legittima la domanda di quale sia la sede in cui le decisioni importanti per la comunità vengono prese. E’ opinione diffusa che, per l’allontanamento del custode, trattasi di rimozione (Ahinoi!) punitiva post-voto. Dal noto quadernetto di quelli che passano il loro tempo pensando di poter contare i propri votanti il nome dell’ex custode del cimitero evidentemente risultava (presumibilmente) assente.

Poco importa se, come da pressoché unanime riconoscimento popolare, lo stesso, benché precario (socialmente utile) faceva puntualmente il suo lavoro ed il cimitero era mantenuto in uno stato di decente decoro. Svolgimento di un incarico di responsabilità con reperibilità permanente, orario di lavoro noto a tutti e trattamento economico del tutto inadeguato soprattutto se rapportato a quello di noti fannulloni annidati nel palazzo (sarebbe interessante al riguardo sentire il parere di un giudice del lavoro). Poco importa lo stato di abbandono in cui il cimitero adesso si trova. Il lavoro svolto dall’allontanato addetto e la sua utilità (socialmente rilevante e non solo “utile”) non sono stati i criteri con cui valutare il suo operato e la sua adeguatezza, ignorando persino la difficoltà incontrata da precedenti amministratori nell’indurre altri dipendenti comunali ad accettare la mansione di custode cimiteriale. Recitava efficacemente una canzone:“Come è misera la vita negli abusi di potere!”.

Il mondo del lavoro è distante dal palazzo. Gli astronomi visto il quadro astrale si astengono da oroscopi inopportuni. Gli psicologi, costretti, cercano le consuete motivazioni di un certo modo di operare in frustrazioni magari familiari e/o professionali, ma entrambe le discipline di riferimento sono campi minati che espongono chi le segue a perdersi in futili questioni e oziosi arabeschi della mente… Come sempre il nostro punto di vista vuole riferirsi ai fatti ed a questi limitarsi.

La legione dei delusi del nuovo corso amministrativo del contado segue pari passo quello nazionale, ogni giorno pare arruolare nuove leve, ma anche questo risponde alle calcificate regole del gioco. Per quanto ci riguarda questo lo prevedevamo in tempi non sospetti e molto prima dello scontro elettorale. Il nostro giudizio sull’amministrazione non può che migliorare! Confidiamo nelle teste pensanti che pur ci sono e che fanno capolino nell’arena. A loro va tributata fiducia. Abbiano il coraggio di onorare il loro mandato con autonomia e dignità e troveranno il sostegno ed il supporto di cui hanno bisogno, anche in eventuale assenza dei partiti che li hanno proposti.

I candidati eletti hanno l’obbligo di governare e governare è e deve essere un’opportunità non solo per i vincitori. Ma solo il buon governo è il seme che da frutti. Arroganza, acredine, rancori, vecchie ruggini e vendette non sono medaglie di cui andar fieri, né portano lontano.

L’augurio è che si torni presto a quote più normali, che al cimitero ritorni celermente il suo custode, che il buonsenso, la lealtà e la legalità (seppur distanti dall’avariato e putrescente attuale mondo della politica) prendano il sopravvento. Per quanto lungo nessun mandato elettorale è eterno e per quanto lontano (o vicino) arriverà un giorno che chi è sul trono dovrà lasciare il posto ad altri. Le azioni ed i pensieri di oggi, sono per ognuno i mattoni con cui sarà costruito il proprio futuro.

Più che mai opportuno in questo contesto ed in questo mese ricordare due pensieri attribuiti a Budda: “Non sapendo che avrei dovuto lasciare tutto e partire, commisi varie azioni sbagliate nei confronti di amici e nemici” ed ancora “Indipendentemente dalla fortuna che hai messo insieme, quando parti per un’altra vita sei solo, senza coniuge o bambini, senza abiti, senza amici, come qualcuno vinto dal nemico nel deserto. Se non hai neppure il tuo nome che bisogno c’è di prendere in considerazione qualsiasi altra cosa?”.



[1]   Francesco Rotondaro, il portalettere

[2]   La maggior parte dei portoni dei contadini aveva  una specie di piccola porta, detta appunto portèddra, porticella, che consentiva di tenerlo aperto e contemporaneamente di impedire l’accesso anche ad animali vaganti

[3] Via tra una casa e l’altra, lastricata allora da pietre di piperno

[4]   Era  questa una scusa per farsi leggere la lettera.

[5] La prima volta, cioè quando andavano in Sicilia per formare la testa di ponte, non solo gradivano uova, ma ci regalavano anche del pane di segala

[6]   Una località che rappresenta anche oggi un passo obbligato tra le giogaie che scendono da Mormanno e quelle che risalgono verso Trodo.  

[7]   Era un ricognitore monoposto tedesco. “Ma don Ciccio disse, olà, chi mi paga i gravi danni? L’apparecchio resta qua” così Vincenzo Minervini in una sua poesia dedicata all’avvenimento,

[8]   La carta annonaria per il razionamento dei viveri

[9]    Vecchia classe dirigente

[10] Notizia pervenutami oralmente. L’opera non è inventariata presso le Belle Arti.

FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 19, Novembre 2007

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