FARONOTIZIE.IT - Anno II - n° 18, Ottobre 2007
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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi
LAVAVETRI E ANIMALI ASSORTITI
Editoriale del Direttore Giorgio Rinaldi
Dite la verità, non lo avreste mai immaginato: il più grave problema italiano è rappresentato dai lavavetri che bivaccano agli incroci delle grandi città !!!
Nessuno lo sospettava o lo avrebbe mai sospettato.
E, invece, è proprio così.
Non avendo altro a cui pensare in Italia, tutti si sono scatenati nella caccia ai lavavetri, o nella loro difesa.
Come in Inghilterra per la caccia alla volpe.
Un problema che non è un problema, che non dovrebbe occupare neanche un milionesimo di nanosecondo del tempo di una persona di ordinaria intelligenza e mediamente indaffarata, è diventato la questione del secolo !
In genere, se c’è qualcuno che pratica l’accattonaggio con l’ausilio –magari- di una scimmia, come purtroppo tanti nostri connazionali erano costretti a fare nelle Americhe fino a 50 anni fa, o con le pianole a corda, o con i cani ammaestrati, o con un bicchiere vuoto, o con la mano tesa, o lavandoti il parabrezza dell’auto, un vigile urbano particolarmente zelante può intervenire, con il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza alla mano.
Spesso, però, il residuo delle disposizioni legislative fasciste non viene granché utilizzato, anche perché il problema è quasi sempre sociale o non ne viene avvertita alcuna particolare valenza criminogena.
Capita, poi, che certi incroci, come certi marciapiedi per le prostitute, vengono adocchiati da criminali di più o meno tacca e, allora, il problema diventa di competenza della Polizia o dei Carabinieri, come per il resto delle attività criminali.
L’automobilista, generalmente, ha solo il gravissimo fastidio, quando non è felice di avere, invece, un cristallo ben pulito, di fare –dall’interno dell’ovattata auto- un cenno di diniego con la testa o ingaggiare una micro discussione con qualche poveraccio particolarmente intraprendente, di solito così per la fame.
Nell’assistere allo scatenato dibattito politico e mediatico in cui tanti si sono peritati, la sensazione che se ne ritrae è che la stragrande maggioranza dei paladini dei vetri sporchi non sa
neanche di ciò di cui sta parlando: richiesta di leggi speciali, carcere, confisca dei beni ed altre idiozie simili.
Ora, immaginate che qualche buon tampone di parlamentare trovi altri amici della sua stessa tempra e faccia approvare una
legge che punisca con una ammenda (l’ergastolo forse è eccessivo…) chi “esercita abusivamente l’attività di lavavetri e/o simuli quella di accattonaggio e/o provochi molestie agli automobilisti”.
Ecco la inevitabile procedura (i costi ve li lascio solo immaginare per evitarvi il caffè di traverso): pattuglia dei vigili che si reca all’incrocio semaforico per contestare il reato; prevedibile fuggi-fuggi dei criminali-lavavetri; richiesta di rinforzi al 112 e 113; criminale-lavavetri bloccato da agenti di polizia (quasi sempre più veloci dei carabinieri per via della bandoliera che intralcia questi ultimi); accompagnamento in questura e rilascio dopo la identificazione; trasmissione dei verbali di polizia, carabinieri e vigili alla Procura (altre copie ai comandi e uffici vari); decine di impiegati che registrano, trascrivono, fotocopiano etc.; magistrato che esamina, richiede provvedimenti e altri giudici che dispongono; cancellieri che preparano atti necessari; personale che si reca al semaforo per notificare i provvedimenti giudiziali, stante la mancanza di fissa dimora del criminale; procedimento in contumacia, con giudici , cancellieri, ufficiali giudiziari e avvocati (la cui parcella è pagata dallo Stato, dopo apposita e costosa istruttoria sull’indigenza del criminale-lavavetri) al gran completo e completi di toga; condanna con pena sospesa e non menzione; comunicazione al casellario giudiziario; comunicazione all’ufficio corpi di reato per la confisca dello straccio sequestrato e la restituzione della spugna agli aventi diritto, perché il criminale-lavavetri aveva dichiarato che non era sua ma gli era stata prestata da un amico svizzero; comunicazione del provvedimento a mezzo ufficiale giudiziario al criminale-lavavetri; assenza al semaforo del criminale-lavavetri e quindi notifica nel comune di ultima residenza del criminale-lavavetri… che, intanto, vende fazzoletti di carta in una strada di Barcellona.
Migliaia e migliaia di euro per un risultato pari a zero!
Possibile che si debba faticare tanto a considerare la cosa sotto un profilo diverso?
Nessuno si è mai chiesto quante persone sono costrette ad elemosinare per mangiare?
Quante persone dormono per strada?
Quante persone mangiano, per esempio, alla Caritas?
Nessuno ha pensato che se si è in presenza di “racket” le leggi ci sono e la polizia pure, mentre se si elemosina il problema forse non è da codice penale ma è….sociale?
In questa rintronata ripresa autunnale, ecco inserirsi nello sciatto panorama politico colui che ha consacrato la bontà dell’antico
brocardo giustinianeo: nomina sunt consequentia rerum (i nomi sono corrispondenti alle cose).
Infatti, mai nome fu più azzeccato di quello di Grillo, di vocazione Grillo Parlante.
Nel Parlamento Italiano albergano una ventina di eletti dal popolo (purtroppo!) che dopo aver fatto le leggi, anziché essere i primi a rispettarle, le hanno bellamente violate, pretendendo, però, che i comuni cittadini le rispettassero sino all’ultima virgola.
Invece di essere cacciati a pedate nel fondoschiena, molti di questi pregiudicati sono stati addirittura promossi a ministro o vice-ministro.
Grillo da anni nel suo “blog” su internet ha chiesto, ancorché in un paese civile non ce ne sarebbe dovuto essere bisogno, le dimissioni di queste facce di bronzo, ed ai partiti di non ricandidarli, né candidarne altri che avessero avuto guai con la giustizia.
Come risposta un muro di gomma!
Oggi Grillo porta nelle piazze 300.000 persone (e un numero straordinariamente superiore di simpatizzanti è rimasto a casa) che chiedono semplicemente che i delinquenti non seggano in Parlamento, che i parlamentari li scelgano gli elettori e non le segreterie dei partiti, che il mandato parlamentare non sia superiore a due volte.
Qual è stata la risposta del “Palazzo”, o di quella che i giornalisti-scrittori Stella e Rizzo hanno definito “Casta” ?
- Grillo è un qualunquista;
- Ha ragione, non si fa così;
- È il nuovo Colouche italiano, il comico francese che fece disperare l’ex presidente Giscard D’Estaing con la storia dei diamanti avuti in dono dal dittatore sanguinario centrafricano Bokassa;
Grillo, certamente, non è un politico, né produce proposte politiche.
Ha posto solo un problema, sentito la milioni di persone.
I responsabili politici, anziché prendere atto della frattura sempre più crescente tra il popolo e i suoi rappresentanti, e correre subito ai ripari, fanno sapere che necessitano dei distinguo, che si sta discutendo la nuova legge elettorale, che se ci fossero state delle limitazioni di durata al mandato elettorale non avremmo avuto nel Parlamento personaggi del calibro di Nenni, Berlinguer, Pertini, De Gasperi, Togliatti, Zaccagnini, Moro ecc.
Già con il caso del pregiudicato Previti si è rischiato un grave conflitto istituzionale, visto che uno dei tre Poteri dello Stato, quello Legislativo, ha ignorato per più di un anno un provvedimento di un altro Potere, quello Giudiziario.
Oggi potrebbe crearsi una rottura insanabile con i cittadini, che potrebbe provocare derive politiche difficilmente controllabili, soprattutto quando si oppongono argomentazioni puerili e obiezioni inconsistenti.
Perché, per esempio, i limiti temporali di mandato, che valgono per i sindaci come per la più Alta Carica dello Stato, non dovrebbero valere, per esempio, per l’on. Mele, quel deputato che mentre predicava l’integrità della famiglia e sosteneva strenuamente il “family day” è stato beccato in un albergo romano a fare le orge con due prostitute?
E per un Berlinguer o un Moro, quanti oscuri e inutili parlamentari, buoni solo a coltivare clientele elettorali, non avrebbero meritato e non meritano neanche di occupare lo scranno per mezza legislatura?
A parte il fatto che i grandi personaggi politici hanno sempre fatto vita di partito e l’elezione in Parlamento serviva solo per assicurarsi pensione e stipendio: basta controllare il “registro delle presenze” in Parlamento per rendersi conto che i Big hanno sempre avuto ed hanno, giustamente, altro di cui occuparsi.
E, poi, se non potranno candidarsi per una terza volta, potranno sempre dare il loro contributo al Paese lavorando nei loro partiti, strumento essenziale per l’esercizio della democrazia.
Bisogna tenere sempre bene a mente che tutti siamo necessari, ma nessuno è insostituibile.
Una cosa, comunque, deve essere certa e senza equivoci: in Parlamento devono andarci persone con la fedina penale immacolata.
Ovviamente.
Anche se questo spesso è il Paese in cui l’ovvio non è per nulla ovvio.
Si pensi, ad esempio, al volo di Stato del ministro Mastella per partecipare al Gran Premio automobilistico di formula 1 a Monza, con figlio ospite a bordo dell’aereo.
Un grosso e costoso aereo a disposizione dei soli ministri Mastella e Rutelli, a cagione delle ragioni di sicurezza che le due Alte Personalità imponevano.
Se così era, allora, certo sarebbe stato più sicuro mandare per questa importante missione istituzionale (premiare i piloti vincente e piazzati) un’altra Alta Autorità, meno esposta ad attacchi di terrorismo, magari che abitasse nei dintorni di Milano (potevano forse chiederlo a Berlusconi, che abita proprio lì, a due passi dall’autodromo, il quale certamente sarebbe stato ben felice della inaspettata passerella, mentre di sicuro le genti dell’intero pianeta non avrebbero neanche notato chi era il messo che si affannava a consegnare la coppa e stretto le mani delle vallette!), così i cittadini italiani avrebbero affrontato la sola spesa della metropolitana o del taxi per consentire l’espletamento di un così gravoso incarico, certamente invidiato in tutti i paesi più sottosviluppati del mondo.
Per restare in tema di antichi brocardi, non sarebbe male se si scrivesse dietro i banchi del Presidente della Camera e del
Senato, a caratteri giganteschi un famoso detto che circolava nel Foro Romano : “LA MOGLIE DI CESARE DEVE ESSERE AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO”.
Per gli antichi romani non solo Cesare, ma anche la moglie (come dire parenti, amici, soci in affari etc.) non avrebbe dovuto dare adito al benché minimo sospetto.
Oggi, per iniziare a risanare la vita pubblica italiana, l’impegno alle immediate dimissioni ogni candidato alle elezioni dovrebbe assumerlo sulla scorta ed in forza di tale millenario principio.
Per concludere, trattiamo anche di qualche altro animale.
Il maiale, per esempio, è una bestia a cui si riconoscono speciali capacità sessuali e di intelligenza.
Ma, sempre bestia rimane.
Ragioni storiche, climatiche e culturali lo hanno reso inviso ad alcuni ed indispensabile ad altri.
Il leghista Calderoli, l’odontotecnico, onorevole deputato, ministro, quasi costituente, portatore di magliette blasfeme, (i guai non vengono mai da soli) e amico di Bossi, ha recentemente dichiarato che porterà il suo maiale su un terreno del bolognese, sul quale vogliono edificare una moschea gli immigrati di religione islamica.
E questo perché il maiale nell’Islam viene ritenuto un essere immondo e impuro, e dove passa nessun altro può più edificare luoghi di culto e pregare.
Questo ilare personaggio, certamente voglioso di raggiungere l’immortalità letteraria al pari di Eumeo, il guardiano dei porci di Ulisse, pensava bene di dare scacco ad un bisogno di migliaia di persone portando a spasso insieme a lui (magari
sottobraccio, come con una leggiadra signorinella in un parco in una dolce domenica mattina), l’indispettito maiale.
Ora, a parte che ogni religione di questo mondo, ritenuta l’immancabile esistenza di tanti piccoli calderoli in ogni luogo della terra ed in ogni tempo, ha previsto liturgie di purificazione dei beni variamente ritenuti contaminati, e quindi il danno che il Calderoli aveva in animo di arrecare è rimasto nell’alveo delle battute e delle risate da ‘mbriaghi in osteria, resta il fatto, avvilente, che una spregevole iniziativa non abbia indignato, con la forza necessaria, i cittadini di questo Paese.
Un Paese a stragrande maggioranza cattolica, ove i cristiani dopo duemila anni ancora rimproverano (l’innocente) Nerone di averli perseguitati e costretti a pregare il loro Dio nelle
catacombe, ora resta muto di fronte a tali manifestazioni di fanatismo di stampo razzialreligioso !
Il dibattito, però, s’accende quando si tratta di stabilire se la moschea dev’essere costruita a nord o più a sud, se dev’essere più grande o più piccola di tot, così trattando i credenti come dei manichini da poter mettere di qua o di là, dimenticando che si tratta di esseri umani, con i loro bisogni, con i loro sogni.
Oppure, si focalizza l’attenzione sul problema sicurezza, legittimando la scellerata equazione islam=terrorismo!
Mi piacerebbe vedere la faccia di questi intellettuali da vino al metanolo quando, costretti dalla fame ad emigrare all’estero, alla richiesta di aprire un circolo di connazionali otterrebbero un diniego perché, a dire di quelle autorità, l’Italia è un paese che ha notoriamente esportato (ed esporta!) la mafia nel mondo e quindi una “Casa Italia” potrebbe rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale del paese ospite.
Cosa succederebbe?
Di certo: Indignazione! Disgusto! Comizi! Interrogazioni parlamentari! Scioperi! Boicottaggio! Richiesta di embargo! Etc., etc.
Perché nessuno evidenzia e ricorda che la nostra Costituzione, cioè la Carta fondamentale che regola la vita di una nazione, assicura, inequivocabilmente, a TUTTI e indistintamente la libertà religiosa ( articoli 3 e 8) ?
Possibile che un deputato ex ministro ex quasi costituente non lo sappia?
Possibile che in Italia nessuno più legge la Costituzione?
Possibile che i cristiani abbiano dimenticato le proprie radici e non sappiano più chi sono?
Possibile che gli italiani ignorino che nel mondo ci sono circa 80 milioni di altri italiani e discendenti che hanno invaso ogni landa a cercare lavoro per sfamarsi e sfamare i parenti rimasti nel Belpaese?
In questo Paese, purtroppo, c’è un gravissimo ritardo culturale; bisognerebbe sforzarsi di leggere e studiare quotidianamente la nostra Costituzione, conoscere un po’ di più la storia delle religioni, dell’emigrazione italiana nel mondo, oltre che quella da sud a nord nel nostro Paese.
E, per tornare ai lavavetri, che ne pensate di una legge che punisca chi la propria intelligenza l’ha messa in lavatrice?
E, se passasse la proposta di Grillo di limitazione dei mandati elettorali, ve lo immaginate un Parlamento senza Calderoli e noi a non pagargli più uno stipendio per altri cinque anni ?
Con buona pace degli allevatori di maiali delle valli bergamasche.
P.S.: Consiglio a grandi e piccini il bellissimo ed istruttivo libro di Gianantonio Stella: L’orda – quando gli albanesi eravamo noi-.
ORSI, TORI E CALAMARI
di Ileana M. Pop
Dal titolo potrebbe sembrare che io concepisca la capitale del Regno di Spagna come un’allegra fattoria o un circo di bestie (che siano bipedi, quadrupedi, invertebrate, cornute o meno, non importa poi tanto), ma non credo di esagerare dicendo che sulle vite di tutti noi, abitanti di questa incredibile metropoli, incomba la presenza della strana triade animale: orso – toro – calamaro.
Capisco che a primo acchito si possa credere che questi animali non abbiano niente in comune e che il loro legame con Madrid e con la gente che la popola non sia proprio immediato, ma posso garantire che, in maniera più o meno pacifica, diretta o indiretta, i madrileni ci convivono e li considerano parte delle loro vite.
L’ORSO
Dall’alto del suo piedistallo di marmo incute rispetto, ma diciamoci la verità... se domani scomparisse improvvisamente o si trasformasse in una capra, un cavallo o un asino nessuno ci perderebbe il sonno.
Forse non tutti sanno che lo stemma della città di Madrid è un orso che si arrampica su un corbezzolo. Non mi dilungherò sulla polemica femminista secondo la quale l’orso in realtà sia una Lei e il suo sesso sia stato occultato, censurato e di conseguenza (posso dire “cambiato” senza che da oggi in poi pensiate al povero animale come ad un trans eccessivamente peloso?) cambiato ai tempi del medioevo per ovvie ragioni storiche, ma nessuno si è mai chiesto cosa il tenero orsacchiotto di 20 tonnellate col quale tutti i turisti hanno almeno una foto abbia a che fare con Madrid?
Ecco
svelato il mistero: è un simbolo, un omaggio reso al forte animale che popolava
le campagne dell'antica città e che la storia ha visto cambiare non solo di
sesso, ma anche di posizione. Si dice, infatti, che secoli fa lo scudo della
città raffigurasse l’orso (o orsa, che dir si voglia) camminando tranquillo
sul un prato, ma i tempi vollero che in seguito ai dissapori nati tra la chiesa
e il consiglio della città per lo sfruttamento
delle terre, l’orso cittadino abbia dovuto alzarsi su due zampe e mettersi
in posa in procinto di arrampicarsi sull'albero, come per difendere i possedimenti
comunali.
Come tutte le leggende, anche questa conserva i suoi misteri: perché proprio un corbezzolo? C'è davvero un legame tra la parola madroño (corbezzolo, appunto) e il nome della città? O si tratta semplicemente di una coincidenza omofonica?
Qualunque sia la verità, il povero animale sta in piedi da quasi ottocento anni e nessuno è mai stato così gentile da chiedergli se vuole scendere e riposare un po’ le (sicuramente) stanche membra.
I TORI
Rispettati (rispettati??, diranno loro), amati e motivo di vanto. Diciamo che se i tori si trasformassero improvvisamente in maiali o pecore, i madrileni se ne accorgerebbero eccome!
Che i tori siano un simbolo da queste parti non è certo un mistero; quello che non potevo certo immaginare io è che tutto quello di cui avevo sentito parlare prima di arrivare in Spagna (corride, toreri, drappi rossi, ecc.) fosse poi così vero e attuale!
In un’epoca in cui le modelle esibiscono le loro sode natiche nude in segno di protesta contro il maltrattamento degli animali, un intero paese si arma di patatine e caramelle, carica in macchina figli, nipoti, nonni e zii e va a vedere lo spettacolo più mozzafiato che ci sia. Che a noi, privi di sangue iberico nelle vene, piaccia o meno, che si condividano questo tipo di pratiche oppure no (lungi da me aprire un interminaaaabile dibattito a riguardo) i tori sono, più nolenti che volenti, i protagonisti di grandi eventi sociali, veri e propri bagni di folla, aggregazioni di persone dai cuori palpitanti.
Dietro tutto ciò c’è un business che non possiamo neanche immaginare: i biglietti vanno prenotati con mesi di anticipo e arrivano a prezzi esorbitanti, i toreri sono delle vere e proprie superstar, perennemente presenti sulle pagine delle riviste rosa e i ristoranti della capitale prenotano le carni del toro di turno addirittura prima che il suo destino si compia.
È opinione comune che los toros de Lidia, la razza eletta per questo tipo di eventi, sia l'animale più felice al mondo: essi sono allevati esclusivamente per avere l'onore di toreare nell’arena (meglio ancora se nell’arena madrilena di Las ventas, la più importante al mondo) e dal momento della
loro nascita al momento in cui il pubblico acclama la loro entrata nell’arena, vengono trattati come dei veri e propri re, serviti e riveriti dagli allevatori e liberi di fare quello che vogliono. Hanno perfino il potere di salvare la loro vita e prolungare a tempo indeterminato la permanenza nel paradiso nel quale sono cresciuti: dovranno solamente dimostrare di essere dei lottatori tanto bravi, coraggiosi e valenti da meritare il perdono del torero. Vi assicuro che ogni tanto qualcuno di essi ce la fa e, nella veste di supereroe e potenziale papà di altri forti combattenti, torna a casa arricchito da un’esperienza che molti dei suoi antenati non sono sicuramente riusciti a raccontare, pronto a godersi le gioie della vita e del sesso.
I CALAMARI
Se i calamari sparissero improvvisamente dai bar madrileni, sono sicura che dopo neanche cinque minuti il sindaco dichiarerebbe il lutto cittadino.
La sottoscritta subì un forte trauma nel momento in cui le fu detto che non si sarebbe mai integrata totalmente in questa città se non fosse riuscita a mangiare un panino di calamari senza farsene cadere a terra neanche un pezzetto.
Facile a dirsi, molto difficile a farsi!
Il bocadillo de calamares è una vera e propria istituzione, il simbolo culinario di questa pazza
città, lontana centinaia di chilometri dal mare, che ha fatto di un piatto a base di pesce (se di piatto e di pesce possiamo parlare) il suo fiore all’occhiello.
Il panino oggetto di questa mia esposizione si presenta come una pagnotta allungata e sviscerata contenente una montagna di anelli fritti dorati, ammassati uno sopra l’altro disordinatamente. È già una impresa riuscire a chiuderlo senza perderne la metà, figuriamoci mangiarlo in cinque o sei morsi, chiacchierando e ridendo! Si consuma rigorosamente in piedi, accompagnato da birra fresca e meglio ancora se in un bar fumoso e affollato di Plaza Mayor. Cercare di attanagliarlo con una forchetta sarebbe un crimine imperdonabile e un’offesa personale a tutta la gente che, disponendo le dita in una posizione apparentemente impossibile, sarebbe in grado di dimostrare in qualunque momento che l'impresa di mangiarlo "correttamente" non è poi così ardua.
Io ci sto ancora lavorando e aspetto con impazienza il momento in cui potrò
godermi il suo glorioso sapore senza tante storie; sono sicura, infatti, che,
se non dovessi concentrarmi tanto sulle diverse mosse da eseguire e se non
dovessi stare attenta a non macchiarmi con le dita sporche d’olio, sarei già
una vera madrileña!
LA RIVOLTA DEMISTIFICATA
di Francesco Regina
“Oppressori ed oppressi”, “Chi fa torto e chi lo patisce”: secondo queste incessanti dicotomie si svolge il mondo secondo il Manzoni; e lo stesso precisa che tertium non datur, si sta in pratica da una parte oppure dall’altra.
Questa forma dialettica cessa nel momento in cui il limite di sopportazione viene travalicato e si acquisisce la convinzione di poter uscire dall’oppressione reagendo concretamente: avviene allora lo scoppio della “miscela esplosiva [1] ” alimentato da malcontenti decennali e soprattutto dalla consapevolezza della potenziale forza immane con la quale si può abbattere, almeno apparentemente, il robusto muro dell’ingiustizia e della prevaricazione.
Com’è noto però, una rivolta non può essere espressione di una sparuta minoranza, ma per definirsi veramente tale deve coinvolgere un’intera categoria di gente [2] .
Fra tutte le locali sommosse [3] la più emblematica e la più corale fu senz’altro quella del 6 maggio 1866.
Contrariamente però alla tradizione secondo cui la storia viene scritta dai vincitori, della famosa rivolta anzidetta ci è stata tramandata per iscritto la sola versione dei vinti, i quali nonostante in quella circostanza abbiano vestito i panni degli oppressi, continuarono comunque a detenere incontrastati l’appannaggio della cultura e dell’informazione facendo apparire per anni ed anni la rivolta del 6 maggio come un fatto meramente estemporaneo ed isolato provocato esclusivamente dalla nescienza della massa; versione questa certamente più comoda e confacente per ogni buon mistificatore della verità.
Fortunatamente, grazie a disinteressate testimonianze orali di trapassati che furono a loro volta in contatto con gente che ne conobbe de visu le reali vicende ed il loro naturale svolgimento, siamo in grado di restituire la versione dei vincitori connotata da “nuovi” avvenimenti di cui ben comprendiamo a questo punto la tentata inumazione.
Cominciamo dal movente, ovviamente quello vero. La gente aveva erroneamente appreso dall’avviso, affisso sul portale principale della matrice, relativo all’imposta del focatico, che il pagamento previsto risultava di fatto più che quadruplicato rispetto al precedente; in realtà non c’era stato alcun cambiamento, soltanto il corrispettivo era stato indicato il lire anziché in ducati. Passava per caso un signorotto dell’epoca quando un anziano rubizzo e baffuto,in seguito eletto all’unanimità capo dei rivoltosi, si fece breccia tra la gente accalcata sul sagrato e scappellatosi chiese spiegazioni all’impettito e borioso don sul come fare per poter sostenere una simile imposta anche per gli anni successivi.
Quasi con disprezzo questi, anziché spiegare come stessero realmente le cose, rispose: “ Iàti arrubbàti [4] !”.
Senza tante esitazioni, quasi come se da ben guari tempo anelasse all’esplosione, il popolo controbatté all’unisono: “S’àma ì ad arrubbà cuminciamu propriu da n’casa tùja! [5] ”
Già sufficientemente indignato per le passate soverchierie e gli innumerevoli atti di supponenza subiti, il popolo tutto si diresse inferocito verso il Palazzo del signorotto per assaltarlo.
I ribelli continuarono poi a saccheggiare le altre case agiate senza colpo ferire. [6]
Venne letteralmente prelevato da una di quelle l’ex decurione borbonico che già con l’avvento dell’Unità d’Italia aveva progressivamente perso potere e prestigio.
Dei tanti misfatti di cui si macchiò durante il decurionato, si annovera il sequestro e la successiva eliminazione fisica (di cui era il mandante) di un sacerdote locale, reo di aver soltanto benedetta una bandiera ad un gruppo di giovani patrioti garibaldini.
Il notabile venne tuttavia risparmiato alla forca, però dovette subire l’ira postuma della stessa gente che aveva in precedenza sottomessa ed affamata [7] , neanche il suo post-decantato poliglottismo valse ad evitargli d’esser legato su un asino ed esposto in piazza al pubblico giudizio [8] . Era presente in quella circostanza anche un pronipote del malcapitato sacerdote, allora fanciullo, al quale il genitore disse: “Quìssu ha accìsu a zu prèviti nostru [9] !”; al che il bambino senza un attimo d’esitazione sputò contro l’ex decurione. [10]
Subito dopo, la folla sopraggiunse in municipio [11] gettando dalle finestre i registri anagrafici ed altri atti d’ufficio, la cui gran parte fu subito recuperata da un intrepido colà dimorante, il quale pensò di nascondere provvisoriamente il tutto in un vicino letamaio.
Nel vederlo, alcuni lestofanti e ruffiani suoi inarrivabili rivali lo denunciarono, pur sapendo bene come non stesse trafugando o occultando nulla, ma non incorse in alcuna pena, ricevette anzi una gratifica dopo aver facilmente provato la sua innocenza.
Verrebbe da domandarsi come mai sia stato calato un velo su di un evento di tale portata (nell’ambito chiaramente della rivolta): adoperarsi coraggiosamente in una situazione incerta e perigliosa per la salvaguardia di un patrimonio comune di indubbio valore dovrebbe anzi rappresentare motivo di encomio.
La risposta è semplice: la mascalcia non era di quei tempi una referenza compatibile e sufficiente a garantire il diritto di far soltanto capolino nei salotti superni ancorché quello di figurare nell’onirico ed artefatto catalogo in cui mal celatamente (secondo i più disincantati) non si perde occasione per celebrare tanti cavalli di carrozza intristiti ed accomunati dalla malinconia per lo scettro definitivamente perduto.
Tralasciando ogni altro aspetto pittoresco e colorato della rivolta che pur ci fu, corre l’obbligo di ricordare, per non far torto alla storia, come oltre a voler provocare principalmente sfreddo ai potenti del tempo, ci fu chi cavalcò la tigre in sordina: i cosiddetti làtri d’ù sei maggiu, uscirono da quella situazione impuniti e seriamente arricchiti, in poco tempo divenendo bottegai ed acquistando immense proprietà dai nobili ricaduti, migliorando così notevolmente la posizione della propria famiglia (di precedente estrazione contadina) nella non facile realtà commerciale ed imprenditoriale del paese.
Bisogna infine precisare che il popolo oltre a reagire contro la tracotanza dei numerosi tiranni del tempo, voleva anche protestare contro l’annunziata chiusura definitiva del convento dei Cappuccini, che era stato confiscato ufficialmente già dal 1862, ma vi fu qualcuno che rompendo gli indugi, forte della sua autorità, prese serie posizioni:
“…dopo due anni venne di nuovo il R. Antonio da Guardiano e nella sua venuta dopo sei mesi, per una ragione che successe qui ai 6 maggio giorno della Madonna del Suffragio [12] fu arrestato il detto Guardiano [13] , volendolo complicato [14] , nonché ancora tutta la famiglia, per cui fecero togliere il convento ed ai 24 maggio uscirono tutti i frati ed il Convento fu chiuso con molto dispiacere della popolazione nonché dei buoni cittadini. E restò chiuso fino al 13 Giugno giorno della festa di S. Antonio di Padova. In questo giorno tutta la popolazione devota, volendo solennizzare detta festa nel convento come sempre per l’addietro si era fatto, ne fecero domanda al Ricevitore per avere la Chiesa ed ottenuta una risposta favorevole si portarono ed aprirono la Chiesa, suonarono la campana ed il popolo tutto accorse in forza portando delle candele ed assisté devotamente a molte messe basse e parate. Mentre tutte queste sacre funzioni si facevano
solennemente nella chiesa, giunse la notizia al sindaco che era un certo Onofrio La Terza ex Prete, il quale andando in furore ordinò immediatamente la chiusura della Chiesa e l’arresto dei Padri Cappuccini e dei Preti Secolari ch’erano andati colà a celebrar le sacre funzioni in onore e gloria di S. Antonio, e così il convento e la chiesa restarono nuovamente chiuse. Né i cappuccini né i preti ebbero a soffrire però nessuna inquietudine”
Partendo dall’assunto machiavellico per il quale l’uomo, in quanto fenomeno di natura non soggetto a mutamenti sostanziali, è l’unico motore della storia mosso sempre dagli stessi istinti, si perverrebbe alla convinzione che una nuova rivolta prima o poi debba necessariamente accadere.
In merito alla tempistica, lungi dal voler ostentare mai possedute doti vaticinali, siamo convinti come anche ai lettori meno avvezzi alla statistica non sia certamente sfuggito che la frequenza di accadimento registrata nell’ultimo secolo e mezzo risulta uguale a cinquanta anni: maggio 1866 – maggio 1916 – maggio 1966 (v. nota 3).
Se immaginassimo di mettere da parte il carattere meramente stocastico degli eventi, per acquisire compiutamente la consapevolezza di quanto sta accadendo nel nostro tempo occorrerebbero a rigore altri nove anni.
Appuntamento quindi al maggio 2016!
FETTUCINE ALFREDO, BOXBOLES E LATTE CALDO
Raffaele Miraglia
Sono tornato dopo diciannove anni in Guatemala.
Dire che il paese è cambiato, è dire poco.
Fate conto di essere un turista americano che ha visitato l’Italia nel 1948, subito dopo la guerra, e ci torna nel ’67.
Nel 1988 le strade asfaltate erano proprio poche, non esistevano shuttle o bus per turisti e si viaggiava su quegli autobus che oggi le guide definiscono chicken bus (bus dei/per i polli) e che all’epoca partivano tutti rigorosamente al più tardi alle sei del mattino. Nel ’88 il processo di pace tra il governo e la guerriglia era di là da venire e appena l’autobus usciva dalla città c’era un posto di blocco militare. Nel Quichè e nel Peten ti facevano scendere dal bus, ti facevano mettere in fila con in mano il documento d’identità e ti perquisivano i bagagli.
Quella volta viaggiai anche in Honduras e in Nicaragua. In Honduras era la stessa storia e, incredibilmente, nel Nicaragua sandinista, dove la guerra c’era davvero perchè c’erano i contras finanziati e addestrati dagli Stati Uniti, invece nessuno ti controllava. Ricordo il tragitto verso San Juan del Sur. Sul cassone di un pick up viaggiavo insieme a un soldato in licenza e a un altro nicaraguense. Il primo raccontava divertito di come qualche giorno prima avevano individuato un tratto minato dai contras, avevano iniziato a sminarlo, ma poi erano stati avvisati che i contras stavano tornando. Così avevano smesso di sminare e avevano costretto i contras a infilarsi proprio nel tratto che loro stessi avevano minato. Andavamo a San Juan del Sur per vedere la flota. Si tratta dell’esercito di tartarughe giganti che a fine agosto in una notte di luna piena vanno a deporre le uova in una spiaggia lì vicino. Vi assicuro che fu entusiasmante vederle, alla luce della luna, riempire il mare e giungere sulla spiaggia.
Vi sarete accorti, dal titolo, che sto divagando, però.
Anche questa volta, come sempre nei miei viaggi extraeuropei, mi sono ripromesso di assaggiare un piatto italiano per vedere l’effetto che fa. Questa volta l’esperienza è stata duplice.
Appena sono arrivato ad Antigua, il posto più frequentato dai turisti insieme a Flores e Santa Elena, mi sono imbattuto in un ristorante che assumeva di servire piatti tipicos Italianos.
Non ho potuto esimermi dal fotografare ciò che giganteggiava all’ingresso.
La foto di un piatti di spaghetti accompagnata dalla descrizione: “Spaguetti Frutti di Mary”!
Mi sono divertito anche a leggere il menù del ristorante Tre Fratelli. La Lonely Planet dice che lì “la cucina italiana è di qualità”. Il fatto è che questa guida è scritta da australiani. La Rough Guide, molto più affidabile per il Guatemala, si guarda bene dal menzionare questo ristorante. In effetti i nomi dei piatti sono italiani, ma quando leggi gli ingredienti, ti accorgi che nulla è più lontano dalla cucina italiana. Persino le pizze sono di fantasia. La Margherita è in realtà una Saracena a cui viene aggiunta della salsa marinara. Sic!
Ad Antigua mi sono limitato ad assaggiare l’espresso di Alfredo: uno dei migliori che io abbia bevuto in giro per il mondo. Allietato perdippiù dalla propaganda in favore del candidato sindaco Victor Hugo, che qui non si pronuncia Victòr Iugò, ma Vìctor Ugo.
Non ho mangiato italiano nemmeno ad Acul, dove, in una valle che sembra portata lì dalle Alpi, se non fosse che sotto i pini e lungo il ruscello si coltiva il mais, i discendenti dell’italianissimo signor Azzari, gestiscono la formaggeria Mil Amores. Anzi lì ho mangiato nella casa di una signora locale il piatto tipico della zona, il boxboles. Si tratta di foglie di zucca che avvolgono un ripieno a base di mais. Si condiscono con succo di limone e un pò di salsa di pomodoro leggermente piccante. Si accompagnano a una bevanda calda, che altro non è che mais fatto bollire molto a lungo. Il tutto è appetitoso e ti fornisce la riprova di quanto il mais sia fondamentale da quelle parti (vi consiglio al proposito di leggere il libro Mi chiamo Rigobertà Munchù) e ti fa capire perché uno dei più importanti Dei nel pantheon maya sia il Dio del Mais.
Il primo assaggio di un piatto quasi italiano l’ho fatto a Coban. Nel ristorante dell’hotel La Posada ho infranto un mio tabù: ho mangiato per la prima volta in vita mia le Fettuccine Alfredo. Per chi non lo sapesse nelle intere Americhe questo piatto rivaleggia con gli spaghetti alla bolognese. E gli americani si stupiscono quando arrivano in Italia e non lo trovano nel menù, tranne che da Alfredo a Roma. Ovviamente è altrettanto difficile spiegare all’americano medio che a Bologna non esistono gli spaghetti alla bolognese, ma le tagliatelle al ragù. Sta di fatto che le Fettuccine Alfredo hanno un condimento di formaggio (una specie di fonduta) e che lì le ho mangiate nella versione “con Roquefort queso”. Vi devo confessare che le fettuccine erano buone: fatte a mano, bene, e cotte al punto giusto. Il condimento non era affatto disprezzabile.
La seconda esperienza l’ho avuta a Rio Dulce nella Hacienda Tijax. Gli spaghetti erano anche cotti al dente, ma il pesto fatto con il basilico secco non è cosa. In questo caso però la cena è stata allietata dalla presenza di Ismael e Navidad, una coppia madrilena. Culinariamente parlando, Ismael mi è stato subito simpatico quando mi ha detto di preferire di gran lunga la fabada asturiana alla paella. E detto da lui, figlio di uno che aveva un banco nel mercato del pesce di Madrid (il terzo nel mondo per importanza dopo Tokio e New York), gli fa proprio onore. Ismael mi ha informato che gli spagnoli generalmente cuociono molto la pasta. Se nella confezione c’è scritto di cuocerla 12 minuti, loro la fanno andare almeno per 24. Quando poi vengono in Italia, si lamentano perché da noi la pasta si mangia cruda!
Ismael mi ha anche raccontato di un suo indelebile ricordo legato a Bologna.
Era bambino ed era in viaggio per l’Italia con i genitori. Di Bologna, in quanto città, non ricorda assolutamente nulla, ma il latte caldo che bevve in albergo, quello sì se lo ricorda. Al bar il padre ordinò per lui e il suo fratellino questa bevanda e lui assistette ad uno strano rito. Il cameriere riempì due bicchieri di latte, si avvicinò alla macchina del caffè, infilò un tubo che fece rumore nel bicchiere e arrivò un latte caldo che faceva rumore, sfrigolava. Ismael e suo fratello poggiarono l’orecchio sul bicchiere per continuare a sentire questo rumore. “Adesso si fa così anche in Spagna, ma all’epoca era una cosa assolutamente mai vista da noi bambini” mi confessa divertito.
E a proposito di caldo, sono certo che Ismael non dimenticherà il simpatico siparietto offertoci da un turista italiano proprio lì all’Hacienda Tijax, che offre delle palafitte un pò spartane come stanze, a volte allietate dalla presenza di enormi ragni pelosi, e una piccola piscina a bordo lago. Il turista italiano si è avvicinato a un addetto e ha chiesto “C’è l’acqua calda in piscina?” L’addetto ha sgranato gli occhi, dimostrando di non aver compreso la domanda. L’italiano l’ha ripetuta tale quale, sostituendo, bontà sua, la parola acqua con agua. L’addetto l’ha guardato ancor più strabiliato. Io e Ismael siamo scoppiati a ridere.
Il fatto è che caldo in castigliano significa brodo.
La fareste voi una nuotata nel brodo?
.... e se adesso vi viene voglia di guardare qualche foto di cibo in Guatemala, allora muovete il mouse e fate su
http://picasaweb.google.it/raffaelemiraglia/StorieDiCiboInGuatemala
IL RITRATTO FOTOGRAFICO
di Gianfranco Oliva
Le prime esperienze fotografiche amatoriali iniziano quasi sempre immortalando immagini di familiari , di amici , di una festa di compleanno , senza la consapevolezza che si stanno realizzando dei ritratti .
D'altronde , per definizione , il ritratto è una rappresentazione (pittorica , fotografica o letteraria) che raffigura uno o più soggetti isolati dallo sfondo o dal contesto generale in cui compaiono .
Come per tutte le applicazioni fotografiche , è determinante la conoscenza di quegli elementi tecnici di base relativi alle apparecchiature ed al materiale sensibile .
E’ nel passaggio da “dilettante” a “dilettante avanzato” , che si cominciano a percepire alcune sfumature inerenti la tecnica : l’inquadratura , le luci , la profondità di campo (la profondità di campo è la distanza davanti e dietro al soggetto principale nella quale tutto risulta a fuoco) e l’uso degli obiettivi (in questa sede , si fa esplicito riferimento ad apparecchi reflex – 24x36 mm o 6x6 cm – che utilizzano la pellicola come supporto sensibile ) .
Le definizioni “dilettante” e “dilettante avanzato” sono di Andreas Feininger , fotografo di Life dal ’43 ed autore del più famoso “manuale” di fotografia , diventato ormai un classico : “Il libro della fotografia” .
Ovviamente l’opera risulta ormai datata , ma illustra in modo semplice e comprensivo i principi fondamentali della tecnica fotografica .
Nel ritratto , tutte le focali sono utilizzabili , ma quelle dall’85 mm al 135 mm, ottimizzano la resa prospettica, conservando le proporzioni dell’immagine rispetto a quelle reali , sfumando adeguatamente lo sfondo .
Il grandangolo deforma l’immagine progressivamente alla diminuzione della focale e possiede una elevata profondità di campo , tale da far disperdere il soggetto nello sfondo .Il teleobiettivo appiattisce l’immagine mettendola in risalto rispetto ad uno sfondo completamente sfocato a causa della bassissima profondità di campo .
Il 50 mm in dotazione a tutti i principali apparecchi (ci si riferisce sempre a reflex tradizionali e non apparecchi digitali) rappresenta una via di mezzo , anche per la sua grande luminosità (un obiettivo è tanto
più luminoso quanta più luce fa arrivare alla pellicola , rappresenta il rapporto fra la distanza focale dell’obiettivo e l’apertura massima del diaframma : più basso è questo rapporto più è luminoso l’obiettivo) tale da permettere di effettuare scatti in condizioni precarie di illuminamento ; ma va saputo gestire per non incorrere in ritratti che i tecnici definiscono “faccioni” .
Le moderne apparecchiature digitali , hanno una diversa scala di valori focali ed ogni apparecchio , possiede un indice di proporzionalità per far riferimento alle classiche focali per apparecchi 24x36 mm .
Ma la realizzazione dell’immagine , oltre ai suddetti aspetti tecnici inerenti le apparecchiature , passa attraverso quelle scelte operative che determinano il tipo di ritratto che si vuole ottenere ; si ritiene che le tre
principali classi in cui suddividere dette scelte , da cui discendono una infinità di sottoinsiemi , sono rappresentate da :
• la posa del soggetto , che riconduce al ritratto pittorico ;
• l’immagine in movimento ;
• lo scatto verso il soggetto inconsapevole di essere ritratto ;
Il primo è tipico della ripresa con soggetto da fermo : quest’ultimo segue le indicazioni del fotografo a riguardo le posizioni da assumere ; le luci vanno adeguatamente regolate, se ci si trova in interno .
IL SIGNORE DEI CERVI
di Giorgio Rinaldi
E’ un bosco immenso, nel Parco Nazionale del Pollino, tra la Calabria e la Basilicata.
Lo scenario è grandioso.
E’ Bosco Magnano.
Sembra fatato.
Le porte d’accesso sono tante, forse la più comoda è da San Severino Lucano, facilmente raggiungibile percorrendo la “Sinnica”, una strada che taglia in due la Basilicata, da Lauria (autostrada A3, uscita Lauria nord) a Policoro, sullo Jonio (SS 106).
All’ingresso di questa straordinaria macchia di verde trovi di che rifocillarti e lasciare l’auto.
Vari sentieri si addentrano nel cuore del Bosco, puoi sceglierne uno qualsiasi, la marcia è sempre tranquilla, adatta un po’ a tutti.
Uno di questi, udite-udite, è fatto apposta per i non vedenti.
E’ una prima scoperta piacevole (altre ne verranno) in un pezzo d’Italia dove ogni cosa è generalmente fatta solo per un tornaconto personale, politico o economico che sia.
Superato un dosso, ecco apparire delle casette di legno, ben tenute, ben curate.
In una grande teca di vetro scene di vita boschiva.
E’ un peccato che questi cottages siano chiusi e non fruibili, i visitatori autunnali o invernali del Bosco, ne avrebbero grande giovamento.
Più avanti un lungo, alto, recinto.
A cosa potrà mai servire in questa boscaglia?
La risposta non si fa attendere.
Si avverte il rombo di un motore, spunta un fuoristrada.
Si ferma, un sorriso arriva prima dell’uomo che lo guida.
Si avvicina, saluta, ha gli occhi buoni, come tanti in queste terre beffate dai borboni, dai briganti, dai piemontesi e da tanti politici che hanno promesso, promesso e solo promesso.
Rocco Iannibelli porta l’indice vicino alle labbra, con il tipico segno che indica silenzio.
Poi, con la stessa mano indica qualcosa, oltre la rete, che si muove.
Si intravedono grandi corna, sono i palchi di un cervo!
Rocco, a bassa voce per non disturbare l’animale, spiega che nel recinto vivono dei cervi, furono introdotti verso la fine del 2001, trasferiti in parte dalla Corinzia, in parte dalla Riserva dell’Acquerina in provincia di Pistoia.
Oggi 13 esemplari vivono all’interno del vecchio recinto messo a disposizione dalla Regione Basilicata, altri 50 capi vivono in libertà.
L’Avv. Calli, dell’Ente Parco, spiega che la reintroduzione del cervo in queste montagne nasce da un progetto denominato “La salvaguardia del lupo nel Parco Nazionale del Pollino”, cofinanziato dall’Unione Europea e dall’Ente Parco nell’ambito del programma Life Natura, che tende, fra l’altro, alla ricostituzione del patrimonio di ungulati selvatici, tradizionali prede dei lupi.
Rocco raggiunge il recinto dei cervi due volte al giorno, a spese sue (suo è il fuoristrada e suo è il carburante!), anche quando è festa, con qualsiasi tempo, col sole, la pioggia o la neve (e qui ne cade tanta, ma veramente tanta) a dar da mangiare a questi regali animali, ad occuparsi di loro.
Lui viene anche se è ammalato e ha la febbre, di notte se c’è urgente necessità: mai nessuno che lo sostituisca.
Le ferie non esistono: non può abbandonare i “suoi” cervi.
Li difende anche dai grossi cani randagi, che spesso si introducono attraverso varchi da essi stessi aperti nel recinto.
Uno che lavora così, con tanta abnegazione, con tanto amore, che se fosse vissuto nella ex Unione Sovietica sarebbe stato certamente insignito del premio Stakanov, guadagnerà o godrà di sicuro di un sacco di soldi, di cospicui rimborsi spese.
Chiediamo.
Risposta: circa 600 (seicento) euro al mese, tutto compreso.
Questa è l’Italia, una continua contraddizione.
Scopri un posto da far invidia anche ai popoli del nord Europa, ben tenuto, ben organizzato, anche grazie al lavoro del Corpo Forestale dello Stato; trovi i cervi; apprendi che i migliori zoologi seguono questo importante progetto di ripopolamento di vaste aree con le imponenti specie di ungulati; incontri Rocco, che dedica tutto il suo tempo, praticamente gratis, alla riuscita dell’esperimento.
E t’informano che soldi per Rocco non se ne trovano, perché quelli che ci sono servono per pagare altre spese…
Di questo periodo il bosco odora di funghi, tartufi.
La neve è ancora da venire.
I cervi pascolano indisturbati.
La visita vale il viaggio.
AFFARI D’ORO
di Nicola Perrelli
Nell’immaginario collettivo è il bene rifugio per eccellenza. Il bene tangibile che rappresenta ricchezza e sicurezza. Stiamo parlando dell’oro.
La materia prima che da oltre 3.000 anni stuzzica il nostro inconscio come qualcosa di intrinsecamente prezioso.
Anche se da tempo ha perduto i suoi connotati monetari,e forse per sempre, l’interesse per l’oro non accenna a fermarsi.
Dopo il petrolio, non a caso definito l’oro nero, è la materia prima per la quale vengono investiti più capitali nella ricerca e nello sfruttamento dei giacimenti. E contrariamente a quanto si crede, la sua domanda non accusa battute d’arresto anzi negli ultimi tempi sta registrando un trend favorevole. Ad innescarla questa volta: il caro-petrolio, che alimenta la paura di inflazione (80$ al barile!!), le incertezze del dollaro sui mercati valutari (quota 1,39 per €), la recrudescenza del terrorismo (Bin Laden non desiste ) e le crisi internazionali, ultima quella provocata dalle ambizioni nucleari dell’Iran.
Ma conviene veramente a tutto oggi investire in questo nobile metallo?
Da sempre, dicono gli esperti, l’oro viene acquistato innanzitutto per coprirsi dai rischi di inflazione e da quelli di cambio, e poi per mettersi al riparo dalle tensione geopolitiche, in quanto il suo prezzo tende a muoversi in modo inversamente proporzionale rispetto a questo tipo di eventi.
E’ dunque considerato un bene rifugio, che permette di diversificare i propri investimenti e protegge da tutti quegli elementi congiunturali che muovono invece le Borse. Anzi nei periodi in cui i mercati accusano serie battute d’arresto il suo prezzo tende a crescere.
In più va considerato che il suo prezzo è in continuo aumento per il fatto che dagli anni ’90 non sono state aperte altre miniere e le riserve mondiali si stanno riducendo.
Ma è il caso di ricordarlo: non è tutto oro quello che luccica. Gli stessi fattori che ne determinano l’apprezzamento possono in loro mancanza esercitare una spinta al ribasso delle quotazioni, anche considerevole. Come ad esempio è stato fino al ’99, quando l’oro era ai minimi storici e la disaffezione al massimo.
Dal 2001 la corsa all’oro però è ripresa. La domanda sia da parte dei consumatori che degli investitori ha raggiunto oggi livelli record.
A favorirla la contingenza, le basse quotazioni del ’99 che preludevano a rialzi consistenti , come poi è avvenuto, ma soprattutto l’offerta di nuovi strumenti finanziari che sollecitano l’attenzione verso gli investimenti auriferi.
Ma questi strumenti di impiego sono adatti a tutti gli investitori, piccoli compresi?
Da quando la legge 7/2000 ha aperto il mercato aurifero anche ai privati molte banche offrono prodotti per operare in questo settore. Chiunque quindi può oggi sottoscrivere strumenti finanziari che hanno come attività sottostante l’oro. Tenendo comunque presente che tali tipologie di investimento, sebbene di facile accesso, non sono per tutti.
Il piccolo investitore, che in definitiva è un piccolo risparmiatore alla ricerca del miglior rendimento, quando investe in oro deve tenere presente che il suo investimento fatto in euro viene poi quotato in dollari. Ciò significa che i fattori di rischio sono due: il primo è quello generico dell’oscillazione del prezzo dell’oro, il secondo è la fluttuazione delle valute. Un rischio quest’ultimo da non sottovalutare in quanto il rapporto di cambio tra divise può riservare sorprese molto amare. A tutti e’ infatti noto che Il dollaro in questi ultimi anni si deprezzato rispetto all’euro di oltre il 50%.
In un’ottica di diversificazione e in un portafoglio ben strutturato anche il piccolo risparmiatore può avere convenienza ad investire in oro. Gli strumenti finanziari che garantiscono un buon livello di liquidità e trasparenza sono numerosi e in genere semplici e accessibili anche con cifre veramente modeste, si parte da 50 o 100 €.
Tra i prodotti più diffusi figurano naturalmente i fondi azionari che investono in gruppi auriferi. Ci sono poi gli ETF (exchange traded fund) e gli ETC ( exchange traded commodities) dedicati all’oro e i Certificate che replicano l’andamento dell’oro già convertito in euro.
Meno noti al grande pubblico, ma non per questo più complessi, sono i c.d. Conti metallo che al momento si possono aprire solo presso alcune banche. Il funzionamento è simile a quello del normale c/corrente, con la sola particolarità che l’unità di misura del conto è il grammo d’oro. Ovviamente le somme a credito del conto corrispondono a disponibilità di oro finanziario, non fisico.
Quale che sia la scelta del risparmiatore, tutti i prodotti finanziari legati all’oro sono comunque accomunati da trasparenza e da un’ elevata liquidità, che in campo finanziario non guasta mai.
C’è sempre infine la possibilità di acquistare lingotti, monete e gettoni. Ma in questo caso al rischio dell’investimento si aggiunge anche quello di tenere il“tesoro” in casa, e con i tempi che corrono….
Per finire una raccomandazione: attenti ai facili entusiasmi, le fila dei risparmiatori “sfortunati” si ingrossano purtroppo giorno dopo giorno.
ALLA LOGGETTA IN UNA SERA D’ESTATE
di Luigi Paternostro
La Loggetta è un belvedere che domina tutta la valle che si estende a nord di Mormanno.
Da quella parte l’orizzonte è delimitato da uno spartiacque di là dal quale scorre il Sinni.
Sulla direttrice nord-sud s’innalzano cime solitarie e imponenti.
Da destra a sinistra incontriamo l’Alpe di Latronico e la Spina, poste in territorio lucano, e poi, a seguire Rossino, Serramale, Gada, Ciagola in terra calabra.
Tra Rossino e Serramale si intravede pure il lontano Sirino, che innalza al cielo cinque luminosi pinnacoli. La catena prosegue a sinistra col Gaio, e più avanti col Velatro.
L’ombrosa Costapiana che nasconde il Cerviero chiude infine il cerchio.
Il mio carissimo amico Raffaele Armentano che non si stancava mai di ammirare il suggestivo panorama, paragonava il posto alla valle dell’Eden.
Dalla Loggetta, affondo lo sguardo nella mia verde valle. Mi si fa innanzi l’amena Donna Bianca cara a Cerere e Bacco, poi l’opima e florida Procitta, regno di Priapo e Pomona, e infine la fumosa valle del Mercure-Lao.
Questo momento mi allontana dalla quotidiana routine che il più delle volte ha il sapore di tristezza e di rimpianto per il tempo lasciato vuoto d’opere e d’idee, dominato solo dallo sghignazzante, sprezzante e beffardo Crono che irride finanche la Speranza attaccata sempre di più a fragili ed inconsistenti appigli.
Il sole estivo intanto gioca a nascondino coi monti tingendo di rosso l’occaso. L’aria frizzante del vespero e le prime ombre della sera placano l’arsura della terra dominata per l’intera giornata dall’estivo calore.
Il cielo prima rosso, poi rosa, poi azzurro diviene di un blu sempre più intenso che alla fine si confonde col nero della notte.
Da ovest appare una falce di luna.
Spuntano, prima timidamente pulsanti, poi sempre più brillanti, milioni di stelle che riempiono tutta la volta celeste.
E’ uno spettacolo unico e indimenticabile [15] .
Le Pleiadi che comandarono al contadino di seminare e mietere [16] hanno da tempo abbandonato il posto che occupavano tra l’Alpe di Latronico e i monti di Viggianello.
Sono ammutolito.
Inseguendo immagini che si accavallano come onde in un caleidoscopio di colori e di forme, mi proietto più in alto. La mia astronave Terra si va sempre più allontanando fino a posizionarsi sotto di me.
Il pianeta blu, nella sua forma quasi sferica, è circondato da luci e da ombre. Il Sole lo porta a spasso nella Galassia. In essa, in orizzonti irraggiungibili e inimmaginabili, nascono, crescono, si evolvono e muoiono astri infuocati e fulgenti che continuano a rutilare fuggendo insieme ai loro universi verso posti transgalattici e metagalattici, e di qui a nuovi universi, che implodono ed esplodono senza mai riempire del tutto un indomabile vuoto, ampio, profondo, pauroso, senza fine.
Per non smarrirmi del tutto paragono questo Universo ad un corpo.
Un cellula dell’unghia del suo piede, s’interroga ed intuisce che ve ne sono altri miliardi ma non riesce a sapere in quale spazio sono collocate e come e da chi sono contenute.
Essa non conoscerà mai il sistema braccio destro o gamba sinistra, o cuore o cervello eppure ognuno occupa uno spazio e si definisce in un’interdipendenza e correlazione che determinano e formano un organismo perfetto.
Tale l’universo: la somma di sistemi che ne formano uno più organico e definito.
E come esiste un’infinita varietà e irripetibilità di uomini così, credo, esistano tanti universi ognuno dei quali occupa uno spazio in una sequenza di soluzioni e di posizioni indefinibili.
L’idea di un universo unico, pur nella sua vastità e incommensurabilità, non mi soddisfa. Verso quale destino vanno allora gli Universi? Sono colonizzati dalla vita o dal nulla? Fino a quando dureranno? Ci sarà un’implosione che riporterà tutto a quell’unicum che è stato il Principio? Vi è stato un inizio? Vi sarà una fine definitiva o avremo un universo a fisarmonica che si apre e si richiude, incapace di consumarsi? Corrisponde ad esso un antiuniverso formato da antimateria? Mi ritrovo così pieno di paura e per nulla confortato da teorie e filosofie a cominciare dalle più antiche per finire a quelle che terminano in one o in ismo.
A questo punto le cose, già di per sé complicate si sono talmente aggrovigliate da farmi sentire completamente smarrito.
Per salvarmi da tale situazione rivolgo di nuovo lo sguardo alla mia sottostante astronave con lo stesso piacere del naufrago o del pellegrino.
E’ una casa piena di vita, di una vita che merita rispetto e amore per come si è estrinsecata e manifestata soprattutto nell’uomo.
Ormai è notte. Dal fondo ormai nero della valle vedo avanzare fantasmi.
Sono stormi di poveri, schiere d’appestati dall’Aids, uomini nudi e affamati, nazioni intere tormentate dalla miseria.
Non l’impertinente suono di un clacson e neppure le concitate voci di un gruppetto di amici che discutono arrovellandosi vanamente ad inseguir chimere, riescono a distrarre i miei pensieri.
Avrà questa Umanità la forza di abbandonare gli egoismi e i soprusi, di trovare quell’armonia che le consenta di vivere senza distruggersi? Fino a quando i demoni albergheranno nei cuori dei miseri mortali?
Mi assale, attraversata da sensazioni pungenti come spine, un’indescrivibile pena, una pena lacerante che neppure i profumi della notte riescono a lenire.
ANTONIONI E BERGMAN
di Carla Rinaldi
Tanti hanno scritto e tanti hanno detto, Michelagelo Antonioni e Ingmar Bergman, muoiono a poche ore di distanza, lo stesso giorno, lo stesso anno. Solo casualità e nessuna affinità.
Antonioni, negli anni del cinema migliore nostrano, è stato caposaldo delle immagini più di nessun altro, anche più di Bergman.
Sulla sperimentazione delle sue lunghe e innovative inquadrature, si potrebbero scrivere trattati lunghi anni, a discapito di quell’idea storta e immotivata che fosse il regista della coscienza, che annoiasse con i suoi silenzi, che volesse stordire lo spettatore con un ego smisurato che sovrastava tutto in favore dei suoi tormenti.
Anche questo è vero, “L’eclissi”, “l’avventura”, “Deserto rosso”, la trilogia del non detto, aveva sì queste accezioni, ma nessuna pellicola da lui diretta non era bella solo perché c’era qualcuno che pensava.
Il pensiero di Antonioni si fondeva con immagini e scene talmente perfette e talmente cinematografiche tante schiere di nuovi autori si rifanno ai suoi piani sequenza, ai suoi carrelli e ai suoi fermi primi piani.
Ingmar Bergman, che tra l’altro in numerose interviste aveva espresso pareri sonnolenti su Antonioni, era invece il dizionario più completo del suo Paese. La Svezia severa e religiosa, gaudente e ricchissima, malinconica e avventuriera, lunare e angosciante, i suoi film lo spiegavano bene.
Molto più autobiografico del regista italiano, Bergman introduceva milioni di dettagli della sua vita, il padre credente fervente è il patrigno di “Fanny e Alexander”; i suoi amori sbagliati, popolano molte sue pellicole; il rapporto con le donne e con la madre è chiaro in “Persona”, capolavoro assoluto, la paura della morte e l’ossessione del tempo fugace è protagonista nel “Posto delle fragole”. Troppi film, una lunga vita, mille cambiamenti per il maestro svedese che ha scelto di morire nell’isoletta della sua gioventù, quell’isola che a detta di molti, emana una luce unica, più bianca del bianco, più pura del puro. Entrambi due mostri sacri, Antonioni e Bergman, entrambi due maestri di cinema e simboli di fattività, mai sentito un lamento o una scusa, entrambi, quando avevano qualcosa da dire con urgenza, lo facevano.
“Blow up”e “Zabriskie Point” di Antonioni più di tutto possono essere presi ad esempio, il primo racconta la swinging London da un’angolazione assolutamente nuova, la metafora dell’incognita e della paura attraversata da un mondo giulivo; il secondo racconta un’altra epopea sociale, il movimento studentesco americano, ma non ci mostra raduni e battaglie, bensì corpi armoniosi che hanno bisogno di fare l’amore.
Se la poesia non fosse relegata nei libri, questi due registi potrebbero essere tranquillamente considerati tali, anzi sommi e meravigliosi poeti.
ASCOLTARE UNA CONCHIGLIA
di Raffella Santulli
Una conchiglia è l'eco registrata del
mare antico, la trama della spiaggia.
E' il ricordo di un'estate,
l'interruttore di un'emozione, il custode del sentimento del tempo, un prezioso
gioiello che gli orafi di ogni tempo hanno realizzato con grande libertà e
inventiva, affogando questa creatura marina nell'oro e negli smalti, spesso
montata a spilla arricchita da tritoni, sirene ed altri abitatori degli abissi.
"Il guscio" evocazione anche sonora del mare e dello scoglio
in cui si forma e vive, contribuisce alla grande mitologia della fecondazione
raccontata dall'acqua, e, per il fascino e la forza che sprigiona, rappresenta
una suggestiva fonte di ispirazione cara agli artisti di ogni epoca.
Le Veneri di Botticelli e di Tiziano, emergenti dai flutti e offerte al mondo
fra le valve di un gigantesco mollusco: scrittori e pittori hanno sublimato
la conchiglia trasformandola in rappresentazione simbolica della procreazione,
strumento della nascita dell' humanitas generata dalla natura e dall'unione
di spirito e materia.
Un guscio calcareo, irregolare e zigrinato, l'interno levigato e traslucido,
diafano ed iridescente che per qualcuno è un bottone elegante di un abito
da sera e per altri un punto di contatto con le regioni dell'esotismo.
CANTO PER UNA MADRE
di Francesco M. T. Tarantino
Come è rosso questo cielo stasera
Forse è il tuo sangue che rivive altrove
Che ripercorre ancora una frontiera
E ci asciuga la fronte quando spiove
La tua figura d’aspetto gentile
Ha messo le ali ed è tornata mistero
Dall’alto il tuo sguardo sul nostro cortile
Ricompone le lacrime sparse su un cero
Angeli lieti cantano in cielo la gloria
Che riavvolge il tempo in un manto
E riscrive di nuovo la tua storia
Sul nostro sentire che si scioglie in pianto
Anima silenziosa vibrante nelle onde
Ribatti le parole in un nuovo messaggio
Che ci illumini sulle cose profonde
E con i tuoi figli ai viandanti dia coraggio
Compagna di passi e momenti importanti
La tua voce ha scandito lo scorrer degli anni
E ci hai colmato con doni abbondanti
Soccorrendoci nei piccoli e grandi affanni
Madre sei andata via con il tuo passo lieve
E noi smarriti a ridomandarti la vita
La vita che si spegne in questo giorno breve
Ma che ci ha intessuti di bontà infinita
Ti ritroveremo in ogni colore d’arcobaleno
Fra il cielo e le stelle quando viene sera
Finché saliremo su quell’ultimo treno
E giungeremo fra le tue braccia in preghiera
IL PORDOI
di Francesco Rinaldi
Il Pordoi non può essere definito una semplice Montagna, come ce ne sono tante, pure di bell’aspetto.
Il Pordoi è un Essere Vivente immenso, di straordinaria bellezza.
Un Leviatano, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. E’, forse, sempre esistito, e l’Universo sembra essersi formato intorno ad esso.
Tutte le Alpi – dico, tutte ! – sono al suo cospetto, stendendosi il suo sguardo per chilometri e chilometri. Perfino il temibile, famigerato ghiacciaio della Marmolada, anch’esso splendido nel suo profilo, sembra sciogliersi ai suoi piedi.
Incute terrore percorrere i fianchi del suo corpo roccioso e, si badi, non soltanto per l’altezza – siamo a tre mila metri –, ma perché appare in continuo modellarsi, risultando incerti i suoi stessi confini, che sovente si sovrappongono e confondono con altre Montagne, poste nelle immediate adiacenze.
Sulla Sommità del Pordoi ci si può arrivare comodamente ed a buon mercato con una “spettacolare” Funivia. Spettacolare, in quanto alla fine del suo breve tragitto sembra infrangersi contro la spessa roccia, dalla quale sarà distante pochi metri.
Ci si può anche arrivare – ed è preferibile, se si desidera cogliere il carattere e la forte personalità di questo “Essere” – percorrendo il celebre, irto sentiero di “risalita”, di media difficoltà, inconfondibile per le sue marcate spirali, impresse nella roccia. E’ necessario, con un buon passo, impiegare circa un’ora e mezzo per giungere sulla sommità del Sass Pordoi. Anche se, poi, è davvero un peccato fermarsi al Sass, avendosi la possibilità – tempo permettendo ! – di arrivare al Piz Boé, impiegando circa un’ora e mezza. Lo spettacolo è garantito ed è impareggiabile.
Insomma, una “passeggiata” al Pordoi, con estensione al Piz Boé, non può essere affatto considerata comune, come ve ne sono tante, più difficili e spettacolari, quali, ad esempio, le ferrate della Marmolada, su percorso misto roccia e neve, quelle del Vaiolet e del
Lagorai (tra queste ultime, il Cardinal) e la nota ferrata Tridentina.
Una “passeggiata” al Pordoi può voler significare ripercorrere la Storia di una Terra, antica di milioni di anni, ammirandone la sua purezza e l’assenza di compromessi, come doveva essere la Nostra Terra almeno alle sue origini.
SECOND LIFE, UN INVESTIMENTO SUI SOGNI
d Paola Cerana
Una notte un po’ per noia, un po’ per curiosità, ho girovagato in rete alla ricerca di qualche emozione che colorasse i miei sogni. E’ così che ho scoperto Second Life, il videogame che pare stia ipnotizzando migliaia di cibernauti in tutto il mondo. Lo scarico e mi ritrovo magicamente catapultata in uno spazio virtuale tridimensionale, dalla grafica accattivante. Luci soffuse mi investono, suoni ovattati mi stregano. Mancano solo gli odori, penso! Voglio andare avanti, mi sento attratta anche se fatico ad orientarmi, così prendo un attimo fiato per capire dove mi trovo e che direzione scegliere senza rischiare di perdermi.
Seguo le istruzioni: prima di cominciare a vivere la mia seconda vita devo innanzitutto costruirmi una identità virtuale, creare un corpo digitale che si muoverà seguendo i miei comandi. Ho a disposizione una gran varietà di avatar: posso scegliere di essere donna o uomo, alta o bassa, più o meno robusta, elegante o stravagante. Potrei anche diventare un animale o ancora personificarmi in qualche licantropo o guerriero ninja.
Ma affezionata al mio essere donna non riesco ad inventarmi più di tanto e assemblo, un po’ grossolanamente all’inizio, il mio avatar. Alta, bionda, sinuosa, occhi verdi ammiccanti e generose labbra provocanti.
Starlight, questo è il suo nome, è pronta per vivere la sua avventura.
Da questo istante io sono lei. Dò un’occhiata qua e là e mi rendo immediatamente conto di trovarmi in un metamondo potenzialmente infinito, costituito da migliaia di land, isole che si materializzano attorno a me via via che le esploro. Alcune sono rappresentazioni fantastiche, paesaggi che sembrano dipinti. Mi sembra di essere finita dentro un quadro di Henry Rousseau, “Il sogno”. Altre invece ricalcano luoghi reali e città esistenti. E’ meraviglioso, ho tutto il mondo a portata di monitor. Scopro di poter visitare il colosseo e subito dopo di potermi lanciare col paracadute dalla Tour Eiffel. Passeggiare da Time Square al Greenwich Village e approdare su una spiaggia messicana per una siesta e una tequila.
Tutto questo con un click e il teletrasporto mi consegna in un flash di secondi da una land all’altra.
Il tempo reale invece scorre ma non me ne accorgo e brucio la notte. Esploro calamitata e attraverso scenari fantastici, in cui mi viene davvero voglia di sperdermi come in un labirinto. Incontro avatar particolarmente belli, affascinanti, perfetti in ogni dettaglio. Ognuno è impegnato in qualche faccenda, chi chiacchiera, chi legge, chi balla, chi prende un drink, una perfetta riproduzione virtuale della vita reale insomma.
Nonostante il mio look ancora grezzo e le mie movenze maldestre attiro l’attenzione e finalmente comincio a vivere la mia seconda vita. E’ un Vampiro il primo avatar con cui faccio amicizia.
Dopo essermi assicurata di non essere la sua prossima vittima, approfitto dell’occasione e attacco con la mia intervista. Scopro che qui la fantasia non ha confini. Posso cambiare aspetto e abbigliamento, colore della pelle e dei capelli, posso decidere anche di cambiare sesso per verificare quale dei due offre maggior soddisfazione e minori guai. E posso volare! Devo assolutamente provare subito … E’ bellissimo volare, accompagnata dal sibilo del vento che colma le distanze mentre in sottofondo un lieve, rassicurante sciacquio mi suggerisce come può essere la condizione fetale.
Insomma in Second Life è tutto possibile o almeno quasi, perché per soddisfare completamente i miei desideri e per godere di tutti i privilegi di questo mondo fantastico devo prima racimolare qualche Linden Dollars, la moneta virtuale di SL. Sì perché tutto può essere acquistato qui, dall’aspetto fisico, ai vestiti, dai movimenti del proprio corpo alla casa, fino a intere isole.
Per procurarmi Linden ho due possibilità: cercare un lavoro – posso ballare, dipingere, vendere vestiti, campeggiare (cioè semplicemente far presenza in una land senza troppa fatica), o perché no fare la escort, cosa molto frequente qui, mi assicura il Vampiro – oppure mettere mano alla carta di credito, quella vera, convertendo denaro reali in Linden. Esclusa a priori la seconda ipotesi, mi riprometto di cercare al più prestp un job ma prima voglio capire che fine fanno tutti quei Linden se è solo tutto in gioco.
Approfitto della pazienza del Vampiro e scopro che la Linden Lab, , la società americana che nel 2003 ha lanciato Second Life, trasforma il denaro virtuale in veri dollari sonanti! Altro che gioco, è un vero business! Mi trovo in un mondo nato innanzitutto come strumento commerciale in cui aziende e multinazionali possono esporre e vendere le proprie merci. Con 8 milioni di utenti, di cui 40 mila attivi, SL in quattro anni ha accumulato investimenti in tutto il mondo.
Oggi alcune grosse compagnie si sono ritirate, altre continuano ad occupare le proprie land ma con scarsa frequentazione da parte dei residenti. C’è chi invece sta andando controtendenza. Telecom Italia e Inter calcio, per esempio, hanno annunciato nuove iniziative on line, Enel continua a sostenere l’Enel Park come spazio dedicato alla sperimentazione tecnologica. Addirittura alcuni politici, tra cui Di Pietro, tengono conferenze e occupano un proprio ufficio elettorale virtuale.
E’ capitato anche che residenti comuni, costruendo immobili e vendendo proprietà, si siano fatti una vera fortuna, finendo con l’abbandonare l’impiego nella vita reale per dedicarsi completamente al lavoro nel metamondo.
Ora ho le idee più chiare. Ringrazio il Vampiro e proseguo la mia esplorazione. Volo da una land all’altra conoscendo sempre nuovi avatar. Notti insonni trascorse a chiacchierare, ballare, fare shopping e … non solo! Ma voglio conoscere di più, capire come è possibile che così tante persone dedichino il proprio tempo ad una seconda vita virtuale piuttosto che godere di quella reale.
Dopo giorni di non ho dubbi, in SL si entra innanzitutto per divertirsi. E superato lo stordimento iniziale si resta sedotti dal fascino di un mondo in cui tutto pare possibile che spesso si crea una vera e propria dipendenza da esso.
Alcuni si immedesimano completamente nel proprio avatar, facendolo vivere esattamente come desidererebbero fare nella realtà. In questo caso ci si inventa una seconda vita ad hoc, proiezione perfetta dei propri sogni e delle fantasie. Altri si limitano a curiosare e a chattare, cercando facili incontri nelle land più frequentate, consumando frettolosamente emozioni e piaceri. Questi generalmente abbandonano in breve tempo annoiati dalla monotonia della loro stessa superficialità.
Ci sono poi gli appassionati che amano giocare ai cosiddetti “giochi di ruolo”, ovvero affidano al proprio avi un ruolo preciso con regole da rispettare e giochi da sviluppare. Le SIM (aree di simulazione) in cui si pratica il RPG (role play gaming) sono moltissime, da Star Wars, a Sim medievali. Altre Sim riproducono ambienti ninja, altre ancora scenari pirateschi, vi è addirittura Mafia World, dove gli avi inscenano lotte tra clan per la conquista del potere. Mi è capitato di incontrare di tutto, magnifici Indiani Sioux, Demoni, Licantropi, Angeli e Neko (fantastici avatar metà umani e metà felini). Tutti questi personaggi possono abbandonare in qualsiasi momento le vesti di role players per dedicarsi allo shopping o alle relazioni amorose.
Questa è l’anima di Second Life, fatta di emozioni, sogni, desideri, passioni, paure, speranze.
Per questo motivo le land di grosse aziende sono deserte mentre i locali a luci rosse, le spiagge di nudisti e i negozi d’abbigliamento traboccano di avatar ad ogni ora del giorno e della notte. E’ la voglia di lasciarsi andare e di realizzare sogni altrimenti impossibili ad animare SL, non il business!
E me ne rendo conto facilmente. Facendo shopping qua e là in questi giorni mi sono accorta che le merci più frequentemente acquistate sono i genitali. Sì perché non è sufficiente un look accattivante.
Per relazionare come si deve con gli altri occorre poter funzionare come nella realtà. Anzi perché non superare la realtà? Così si può arrivare a spendere 1500 Linden (l’equivalente di 6 $) per possedere un pene non solo di dimensioni apprezzabili ma anche con movenze semireali. Naturalmente anche noi ragazze abbiamo a disposizione una vasta scelta di pussy e nipples sempre a prezzi mediamente alti. Alcuni poi, visto che qui non esistono limiti, si creano due o più avatar, giusto per soddisfare la curiosità di vivere nei panni dell’altro sesso o per spiare i movimenti della o del proprio partner virtuale senza essere riconosciuto.
In pochi giorni ho fatto enormi progressi. Ho guadagnato abbastanza Linden da potermi permettere un look più desiderabile, ho visitato land incantevoli e trasgredito in piacevoli eccessi ma più di ogni altra cosa ho conosciuto persone. Ogni avatar è una persona.
Molto spesso in Second Life nascono relazioni e amicizie proprio come nella Real Life, con implicazioni emotive e sentimentali talmente forti che finiscono col trascendere dal virtuale. All’inizio è solo un gioco che rischia di assumere una rilevanza ben diversa se non si riesce a mantenere un equilibrio, perché la piacevolezza dell’apparentemente tutto possibile gratifica molto di più della quotidiana realtà. Ho incontrato avatar che in SL si sono innamorati, sposati, che hanno deciso di avere un figlio, altri che si sono lasciati. Avatar gelosi o traditi, vendicativi o rassegnati. Ascoltando le loro storie mi sono sentita sempre più far parte di una vita che non ha molto di diverso da quella reale. Un tumulto di esperienze e di emozioni, insomma, non sempre facile da gestire. Si rischia addirittura di dare più importanza agli appuntamenti virtuali anziché alle relazioni quotidiane con gli amici reali. Diventa quasi una malattia.
A volte passeggiando per la mia città mi sorprendo ad osservare le persone immaginando di poterle scomporre e ricomporre come fossero avatar. Con un click cambio colore di capelli di questo, ordino di ballare a quest’altro, trasformo il giorno in notte, mi teletrasporto direttamente a casa, davanti al mio pc. Spero solo di non ritrovarmi mai a pagare un conto in Linden! Rido di me e penso a tutte le raccomandazioni che ogni giorno faccio a mio figlio, ricordandogli di non restare troppo davanti al computer perché non fa bene.
Chissà, forse dovrei rivolgermi anch’io al
centro di Salute Mentale di SL, dove il Dott. Craig Kerley cura gli avatar con disturbi di personalità. Peccato che una seduta di 50 minuti costi ben 90 $!
Insomma, non manca proprio nulla in Second Life e per quanto sia da più parti criticata è innegabile la sua forza creativa. Se come esperienza di commercio elettronico ha fallito, potrebbe essere sfruttata come strumento di indagine sociale. Può rivelare molto sia sui trend giovanili, misurando preferenze nei gusti, nell’abbigliamento e nell’utilizzo del linguaggio dei ragazzi di tutto il mondo, sia sui comportamenti affettivi e relazionali che animano gli avatar di qualsiasi età, sesso e appartenenza sociale. Il grande pregio di SL sta proprio nel fatto di mettere a contatto persone lontane nello spazio reale, shakerandole in un mix di culture e idiomi diversi tra loro..
Se Second Life rappresenta l’evoluzione della classica chat c’è già chi pensa al suo futuro. Si ipotizza una fusione con applicazioni come Google Earth, cosa che darebbe vita ad un metamondo con un’aderenza ancora maggiore alla realtà, bruciando del tutto le distanze geografiche.
Cliccando su un punto qualsiasi del pianeta potremmo in pratica ritrovarci in un baleno a dialogare con persone reali, in America, in Cina, in Australia, entrare nelle loro case, nella loro vita, scambiando foto, musica e quant’altro. Un’altra ipotesi ancora più ambiziosa vedrebbe SL progredire fino a trasformarsi in browser, in cui gli attuali siti web verrebbero sostituiti dalle land.
In ogni caso, io penso che Second Life sopravviverà anche se sotto altre vesti, perché è la sua comunità a darle vita, con la sua insaziabile voglia di comunicare emozioni.
Una comunità fatta di avatar senza però dimenticare che dietro ogni avatar si nasconde un cuore, annoiato dalla vita reale, innamorato della sua seconda vita e in cerca forse di una terza.
Questo è il segreto di Second Life, avere offerto ai sogni uno spazio in cui vivere.
LA SINFONIA DELL’AUTUNNO
di Marilena Rodica Chiretu
Simfonia toamnei
Cad picaturi de lumina pe culorile dealurilor,
ale livezilor si ale viilor,
brodeaza granitele frunzelor cu fir rosu si galben,
parfumeaza pamantul
in profunzimea brazdelor
trezind izvoarele,
se stinge focul arzator al verii
in bratele toamnei,
proaspata ca apa dorintelor,
stralucitoare ca un mar rotund
printre ramurile padurii,
gust savoarea ciorchinilor
pentru a topi durerea lor,
lacrimi adunate pe tulpina aceleiasi radacini,
gura fierbinte viseaza vinul lor
iar noi visam caminul in care
sa seaude simfonia flacarilor
LISA DAGLI OCCHI BLU
di Paolo Donati
Mi arrampico sulla moto e scivolo in avanti sulla sella per far posto a Daniela; sale anche lei e si stringe a me mentre saettiamo veloci nel traffico.
Arriviamo all’appuntamento con qualche minuto di ritardo.
Saverio è venuto al mare per incontrarci. Ci sta già aspettando in uno dei caffè della piazza. Il secondo, per chi proviene dal porto canale.
Quando si alza per salutarci, resto stupito, come sempre, dalla sua statura e dalla sua estrema magrezza. Tanto più che l’abbigliamento estivo ne evidenzia il corpo e i movimenti un po’ rigidi.
In compenso, dopo l’ultimo nostro incontro, si è fatto crescere una folta barba brizzolata che nasconde i tratti scavati del volto e gli conferisce una immagine di professorale maturità.
Il sorriso aperto è sempre lo stesso, con gli occhi che si assottigliano e si allungano in pieghe sottili fino ad assumere una foggia orientale.
Ci ha aspettato per ordinare. Prendiamo delle birre ed entriamo subito in argomento.
Estraggo dalla borsa l’incartamento e glielo passo.
È pieno di sabbia perché ci abbiamo lavorato in spiaggia. Prendo anche un magro libricino delle edizioni B.U.R. piuttosto consumato per l’uso.
Saverio si è reso disponibile a correggerci la riduzione di una commedia di Lope de Vega per la rappresentazione dell’ultimo anno delle superiori.
È stato lui stesso a suggerirci quel testo perché ci sono abbastanza personaggi da poter soddisfare l’ansia di protagonismo dei numerosi iscritti al nostro seminario di teatro. Il truce dramma di Sartre rappresentato l’anno passato ha creato molte tensioni: facendo il conto dei partigiani torturati e degli aguzzini nazisti, le parti disponibili erano troppo poche. Si è dovuto rimediare con un’improvvisata messa in scena di una laude medievale.
Saverio scorre con attenzione le pagine battute a macchina. Io e Daniela seguiamo sull’originale. Di volta in volta, gli spieghiamo perché abbiamo deciso di adattare, tagliare, semplificare, aggiungere. Lavoriamo per circa due ore.
Dopo un altro giro di birre, si complimenta per il lavoro. Dice: “Per me, non c’è bisogno di cambiare una virgola. A questo punto bisogna solo cominciare a pensare all’allestimento e ad assegnare le parti.”.
Ci sentiamo enormemente gratificati.
Della vita di Saverio conosco poco o niente. Neppure che lavoro faccia di preciso per vivere.
So solo che è, a suo modo, un personaggio importante della vita della nostra città. Con estrema discrezione. Dalla distanza della sua piccola casa nel quartiere più antico e proletario dove abita in perfetta solitudine.
Restando, per scelta, al di fuori delle istituzioni culturali e, tuttavia, scrivendo e tenendo dissertazioni di storia, d’arte, di teatro.
Per me e Daniela, è una specie di figura mitica di studioso. Libera, pacata, autorevole.
Quando, su invito di un insegnante, cominciò a seguire il nostro lavoro, ci fece sentire importanti.
Daniela non sta più nella pelle. Vorrebbe cominciare immediatamente. Si mette a disegnare i fondali della prima scena su un tovagliolo di carta. Parla e traccia segni. È elettrizzata. La sua voce ha cambiato timbro. Ora è sonoro, squillante. Mi fa venire in mente certi eccitanti momenti di intimità. La guardo e la trovo stupenda. Con i corti capelli induriti dal sale che le scendono in ciocche sulla fronte abbronzata. Con gli occhi neri e ansiosi che si spostano alternativamente da me a Saverio per ricevere la nostra approvazione.
Sono colto da un repentino desiderio e le appoggio una mano sul ginocchio lasciato scoperto dal corto prendisole. Lei non sembra accorgersene.
Il mio gesto, invece, non è sfuggito a Saverio che mi indirizza uno sguardo attento.
In quel momento Daniela si interrompe, controlla l’orologio e annuncia che deve andare.
Mi affida il suo schizzo, si alza e gira intorno al tavolo per abbracciare Saverio. Poi si rivolge a me, si china portando il viso sorridente vicinissimo al mio, mi dà una pacca amichevole su una coscia guardandomi negli occhi e infine mi stampa un bacio sulle labbra.
Il tempo che il suo profumo di salsedine e di crema solare sia evaporato ed è già volata su un autobus in sosta alla fermata della piazza.
Assistiamo in silenzio alla partenza del mezzo.
Saverio riporta su di me lo stesso sguardo di prima. Oltre al resto, è l’uomo più curioso che conosca.
Gli devo una spiegazione.
Lo scorso anno Saverio è stato spettatore involontario delle mie vicissitudini sentimentali con Lisa, una intensa Maria Maddalena; in quel tempo Daniela, che si occupava della regia insieme a me, aveva una relazione con Giovanni, interprete carismatico di un martire partigiano. Due coppie granitiche. O almeno così avevo creduto fino al giorno della prima; infatti, durante i festeggiamenti seguiti alla rappresentazione, Giovanni e Lisa se ne erano andati mano nella mano, con un’espressione sul viso decisamente allarmante per qualsiasi fidanzato piantato in asso.
Avevo trascorso la notte a bere vino rosso e a controllare ansiosamente l’ora. Non erano tornati. Le spiegazioni che Lisa mi diede il giorno dopo se le poteva davvero risparmiare; ne fui annientato. Come uomo e anche come regista teatrale. Per fortuna non ci furono altre recite e quella prima restò anche l’unica. In seguito, durante una malinconica festa di compleanno di un amica, avevo rivisto Daniela. Neanche a dirlo, malgrado le mie resistenze, volle parlare di quella notte.
Fino ad allora non mi ero curato di come poteva averla presa lei; mi sorprese scoprire che aveva reagito benissimo. Anzi, pareva sollevata. E più seducente di come la ricordavo. Ne ero incantato. E mi si sciolse la lingua. Le confidai tutto. Parlai tanto, troppo, ma quella volta non ebbi tempo di pentirmene perché, all’alba, la confidenza si era già mutata in intimità.
Ragguaglio Saverio su tutta la faccenda.
Non è sorpreso. Mi dice che qualcosa del genere era già nell’aria da prima. In un modo o nell’altro Daniela doveva per forza finire insieme a me. Si chiedeva solo quando sarebbe accaduto.
Cado dalle nuvole. Possibile? Non mi ero accorto di nulla.
Prosegue imperterrito: “Certe cose non possono non succedere. L’unica variabile è il tempo. Anche se, il più delle volte, il caso deve esserti propizio e dare una spintarella agli eventi. Il tempo è un giocatore bizzarro e c’è chi aspetta una vita intera perché s’avveri un cambiamento. E non è neanche detto… Allora bisogna accontentarsi di piccole mosse ben studiate e sperare in una patta.”. Abbassa lo sguardo sul suo orologio da polso e rimane a fissarlo. Come se il tempo dimorasse proprio lì, dentro a
quella piccola cassa d’acciaio. Poi aggiunge: “Certo la cosa più importante è non sbagliare all’inizio del gioco. Quando si muovono i primi pedoni. Un’apertura imprudente e sei costretto a giocare in difesa per tutta la partita…”.
Seguo questa metafora scacchistica senza interloquire. Ho l’impressione che non stia parlando con me. Né di me. Non mi guarda neppure in faccia. Poi si riscuote, picchietta due volte con l'indice sul quadrante solleva gli occhi nei miei e dichiara che si è fatta l’ora di partire.
Lo accompagno alla corriera.
Ci scambiamo una stretta di mano e lui mi attira a sé per cingermi le spalle con un braccio. Sono contento, ma anche imbarazzato. Spero che non si capisca.
Dopo, mi saluta dal finestrino. Il braccio chilometrico che gesticola all'esterno. Mi raccomanda di non mollare e di farmi vivo al rientro dalle vacanze.
Resto lì, mentre la corriera prende velocità e si allontana.
Dopo una breve indecisione, ritorno allo stesso tavolino e mi siedo per finire la mia birra.
Non mollare, ha detto. Forse il progetto a cui stiamo lavorando. Oppure alludeva a Daniela. O intendeva dell’altro…
Mi sento triste e non so perché.
Penso a mio padre. E' coetaneo di Saverio, ma non prova simpatia per lui. Non c'è da stupirsi. Due uomini così diversi.
Non è solo questo.
Un giorno, a proposito di Saverio, osservò che, in città, nessuno sapeva se, in vita sua, avesse mai frequentato compagnie femminili. Non so se voleva dire proprio quello che io credei di capire. Comunque mi parve grossolano e inopportuno. Prima non mi era mai successo di pensarlo di mio padre.
In seguito, avevo evitato l'argomento.
Mi cade lo sguardo sul portacenere, ancora pieno di mozziconi e di foglietti di appunti appallottolati. Raccolgo da terra il lapis di Daniela.
Ci sono tracce del nostro incontro dappertutto.
Ma l'incontro è finito da un pezzo e io sono ancora qui a sorseggiare birra calda.
Che ci sto a fare? Sono invaso dalla frenesia di andarmene.
Lascio il denaro sotto il bicchiere e mi alzo.
Dopo cena, mentre percorro in moto i viali alberati, penso a Saverio nella città deserta. Nel suo quartiere di piccole case. Seduto sulla poltrona vicino alla finestra. Davanti alla sua biblioteca personale traboccante di volumi accuratamente ricoperti di cartoncino bianco. Sospeso nel vuoto della lunghissima serata estiva.
Mi sembra di capire qualcosa che non riesco a mettere a fuoco. Questo qualcosa non mi piace e voglio seppellirlo subito nell’angolo più remoto della mente.
Accelero con un secco movimento del polso, supero una macchina, stringo sulla destra e, dopo duecento metri, freno bruscamente davanti a casa di Daniela. Ma la ruota di dietro slitta sulla sabbia mista a ghiaia che delimita la carreggiata, la moto sbanda e sfugge al mio controllo. La lascio scivolare via e mi abbandono sul fianco. La spalla urta duramente contro il terreno e io resto lì, col corpo coricato scompostamente sull’asfalto.
Senza sentire dolore.
L’auto che avevo sorpassato inchioda a un metro da me.
Da dove mi trovo disteso, noto, in successione, il paraurti impolverato, una targa della mia città, gli sportelli che si spalancano e quattro gambe in avvicinamento.
Mi concentro sul paio di gambe femminili provenienti dalla parte del passeggero. I ginocchi abbronzati, le tibie lucide di crema, le caviglie sottili. Non è possibile che sia proprio lei. Vorrei almeno liberarmi la fronte dai capelli per vederci meglio, ma le mani mi sembrano lontanissime dalla testa. Rinuncio.
Quando cessa il ticchettio delle scarpe che inguainano i piedi sottili delicatamente arcuati, un motivo musicale, proveniente dall’interno dell’auto, mi giunge alle orecchie: “…Eppure quasi fino a ieri mi chiamavi amore, tu, ma nei tuoi pensieri oggi non ci sono più…”.
Odio questa canzone. Detesto Mario Tessuto e tutte le Lise del mondo.
Imploro di spegnere, ma non riesco ad articolare frasi intelligibili.
Per fortuna la musica cessa da sola.
Ed evapora nel nulla anche il viso avvenente e preoccupato chino su di me.
SHOPPING DA CASA
di Nicola Perrelli
L’importante? Superare l’iniziale e naturale diffidenza. Poi ogni desiderio , compatibile con il plafond della propria carta di credito, può essere esaudito.
Fare shopping on line è la nuova opportunità che hanno i consumatori per comprare beni e servizi stando comodamente a casa.
Un fenomeno che se non sta soppiantando sicuramente sta affiancandosi a grandi passi allo shopping tradizionale.
Tra chi si sente pronto e chi no le cifre spese on line continuano però a crescere. E come crescono: stime recenti assegnano al commercio elettronico un giro d’affari che nel 2006, nel solo mercato italiano, ha sfiorato i 6 miliardi di euro.
Il futuro è a quanto pare a favore delle vendite on line.
Del resto, dacchè sono stati migliorati i servizi di recapito e le consegne si sono velocizzate molti spazi si sono aperti ai canali di vendita innovativi.
La possibilità di avere i “negozi” aperti 24 ore su 24 in tutto il mondo e il vantaggio di poter agevolmente valutare i prezzi e mettere a confronto numerosi fornitori, sono condizioni che senza dubbio invogliano i consumatori a effettuare acquisti on line.
Il cliente-tipo, almeno in Italia, è per ora rappresentato da una persona giovane o da una di status socio-culturale più avanzato. Ma è facile prevedere che per l’inarrestabile diffusione di internet in poco tempo il fenomeno si diffonderà in tutti gli strati della popolazione.
A influenzare l’andamento del fenomeno contribuiscono anche le nuove abitudini che il popolo degli internauti prende o subisce navigando nel mare infinito del Web. Non scompariranno certamente i negozi sotto casa, i mercati rionali e i supermercati, ma le modalità e le conoscenze per fare acquisti saranno senz’altro destinate a cambiare.
Alcune hanno già preso piede.
Sono ormai molti quelli che , per forza di cose, hanno dovuto superare l’handicap psicologico di comprare un prodotto che si vede soltanto e non si può toccare. Una svolta questa davvero epocale per il mercato domestico: a tutti è noto come gli italiani desiderino, prima di comprare, allungare le mani sugli oggetti in vendita, nonostante ovunque appositi avvisi,targhe e cartelli lo vietino.
Altri hanno dovuto necessariamente rispolverare l’inglese di base già per gli ordinari acquisti sul mercato estero, e avanzare di livello, per eliminare ogni barriera linguistica, qualora interessati a ricercare buoni affari, che in rete, con un po’ di capacità, si possono effettivamente concludere.
I nuovi modi di fare acquisti tramite computer hanno comunque tutti un
denominatore comune: un consumatore più curioso e ondivago, più libero
nelle scelte e molto più attento ai raggiri, perché un conto è scambiare nozioni e informazioni , un altro è mettere in gioco i propri soldi.
Non sono poi pochi quelli che frequentano i negozi virtuali per sfuggire alla ruotine dello shopping e della spesa del fine settimana. On line si comprano cellulari, tv, orologi, gioielli, pc, stampanti, servizi, ma anche prosciutti, salumi, formaggi, dolci, vini e ogni altro ben di Dio.
Per la caccia al miglior prezzo gli internauti preferiscono le aste on line. Vanno per la maggiore quelle proposte sul sito eBay, dove le compravendite aumentano giorno dopo giorno.
A fare però la parte del leone è il comparto viaggi e turismo.
Sono sempre più numerosi gli italiani che stando comodamente seduti nel salotto di casa acquistano, dalle vetrine virtuali delle agenzie, biglietti aerei e ferroviari, prenotano l’albergo, magari solo dopo averlo visitato virtualmente, o si organizzano la vacanza.
Sono le opportunità offerte dalla tecnica moderna.
Ma sul tema ovviamente non tutti sono d’accordo. C’è chi sostiene che in questo modo viene a mancare l’interazione e si perde anche quel poco di esperienza sensoriale che fa parte dello shopping tradizionale.
Una cosa è certa, fare shopping deve essere divertente, reale o virtuale che sia.
IL CAMMINO DI FRANCESCO
NELLA PIANA DI RIETI (seconda parte)
di Antonio Penzo
Il Santuario è costituito da due vani,
l'uno all'altro sovrastante; essi risultano scavati nella roccia. Si presentano come
due semplicissimi disadorni ma suggestivi ambienti, infinitamente cari a San
Francesco.
Quello inferiore non è che una specie di ingresso, da cui una scala tagliata
nella parete rocciosa conduce alla vera e propria grotta
del Poverello. L'ambiente è caratterizzato da un altarino trecentesco,
al di sopra del quale è un dipinto del secolo XVII, raffigurante l'Angelo
che appare a Francesco rassicurandolo della remissione dei peccati.
Rozzi gradini tagliati sempre sulla viva roccia adducono al vano superiore
(la costruzione risale al 1634); qui si può ammirare un minuscolo altare con
sopra un quadro raffigurante San Francesco orante ed il beato Egidio in riposo.
Si ridiscende al Santuario di San Giacomo, dove alla fonte ci si rinfresca e si prende il sentiero per arrivare al Faggio di San Francesco. Dopo i serbatoi dell’acqua sorgiva, si prende una strada sulla destra, prima asfaltata poi bianca, che si immette in un bosco di roverella. Peccato che le indicazioni in questo tratto siano lacunose e poste dopo le deviazioni. La prima è coperta dalla vegetazione di una roverella. La seconda è posta dopo l’attraversamento del torrente secco, e dopo che si è incontrato un sentiero che porterebbe verso la montagna.
Comunque ripreso il percorso, per una strada asfaltata si sale alla località Cepparo, dove una fontana ci delizia di ottima acqua sorgiva e fresca. Peccato che sia l’ultima fonte fino al faggio e ritorno. Dopo circa un centinaio di metri, i sassi posti dai boy-scout ci indicano di salire in alto sulla destra della strada ed infatti ci accoglie il sentiero che attraverso il bosco ci conduce verso l’alto. All’incrocio con la strada asfaltata non trovo alcuna indicazione e così anche dopo, dove di sentieri se ne incontrano numerosi e l’orientarsi non è certo facile. Comunque la meta è il monte di fronte ai miei occhi e dopo un po’ di faticoso cammino si aggiunge il valico, dove una chiesetta chiusa ci accoglie, mentre vi è il cartello che indica la direzione per raggiungere il faggio già esistente al tempo di San Francesco. Qui ci si incontra con il gruppo dei boy-scouts della sera precedente e si scambiano ancora saluti e notizie.
Dopo una breve siesta si ridiscende a Cepparo e da qui a Poggio Bustone, dove si cena e si dorme.
Il quarto giorno, sempre segnato da un cielo senza nuvole, mi porta al Santuario de la Foresta.
Dalla chiesa del paese di Poggio Bustone, si ripercorre
l’ultimo tratto del sentiero che mi ha portato a questa località il secondo
giorno, poi una deviazione sulla sinistra, ben segnalata, indirizza verso
il santuario de La Foresta. Il sentiero è ricavato nel terreno e ha una bella
visuale sulla piana sottostante. Gli alberi di roverella sono numerosi e la
zona è adatta per il tartufo “scorzone” ed infatti incontro alcuno cercatori
con il loro cane che si immergono nel bosco. In località Poeta si entra sulla
strada comunale fino a San Liberato, dove una fontana rinfresca e disseta.
Il pianto disperato di un bambino attrae l’attenzione e ci si reca a capirne
il motivo. Il nonno spiega che la bambina è disperata perché la nonna vuole
metterle la sottanina mentre lei vuole i calzoni.
Dopo il paese si lascia la strada comunale in direzione località Fonte di
San Liberato, attraverso un sentiero in leggera salita conduce all’abitato
di Cantalice. Prima di arrivare al paese si incontra una piccola sorgente
di acqua leggera al gusto e non molto fresca, ma comunque gradita. Si scende
poi al paese di Cantalice, che si risale percorrendo una strada a gradoni,
che attraversa il centro storico. Nella bella chiesa degli Agostiniani si
sta approntando un matrimonio e quindi la posso visitare nella sua bellezza.
Poi salgo in cima dove l’altra chiesa è chiusa e da qui si riprende il percorso
che da Cantalice Superiore, continua sulla strada provinciale Vazia - Cantalice,
fino alla località di Madonna della Pace, come ci indica anche il parroco
che incontro e saluto mentre si sta recando alla celebrazione del matrimonio.
Si abbandona tale via per seguire una strada comunale, che si percorre sul
crinale di un colle. Il cammino è ora in leggera discesa e attraversando i
centri di Case Colasanti, San Gregorio, e Civitella si ammira, ad est, il
massiccio del Terminillo e ad ovest, la Piana Reatina, dove giacciono color
blu i laghi Lungo e Ripasottile.
Continuando la discesa verso il Santuario della Foresta, si incontra la chiesa
dedicata a San Felice da Cantalice. A questo punto restano da percorrere solamente
2600 metri su una strada sterrata che va seguita fino a valle, dove si trova
Via dell’Acquamartina. Ancora, verso monte per circa 500 metri, prima di svoltare
a destra per percorrere l’ultimo tratto in leggera salita.
Superato un casolare sulla sinistra, il Santuario è raggiunto dopo avere incontrato
alla base una copiosa fontana che disseta e rinfresca.
Nel santuario vi è un gruppo di pellegrini francesi con i loro sacerdoti che stanno celebrando la santa messa e quindi possiamo vedere alcuni locali all’interno del monastero, grazie alla guida, che è un membro della locale comunità di recupero. Si ammira un regolare e bel coltivato orto.
Lo stesso si preoccupa di raccogliere il timbro e la firma da apporre sul passaporto.
Dal santuario, per la strada asfaltata si raggiunge Rieti ponendo fine al percorso anulare.
Rimane nel cuore il percorso che da Poggio Bustone porta al Santuario del Terminillo ed anche la salita a questo monte lungo il crinale.
Unico rimpianto è la segnaletica sporadica e spesso non visibile subito. I pali che portano le indicazioni dei cartelli potrebbero essere segnati con un cerchio bianco-giallo, così da non confondersi con gli alberi o il terreno circostante, mentre la presenza di più frecce o punti gialli lungo il percorso, indicherebbero meglio il percorso che si va sviluppando.
La natura è meravigliosa, come l’ospitalità. Le indicazioni delle persone incontrate tendono a fare percorrere la strada comunale o provinciale anziché il sentiero fra i boschi.
Ne vale comunque la pena.
GENTE CHE PARTE, GENTE CHE TORNA…
di Francesco Aronne
Gente che parte, gente che torna… un incomprensibile quadro di Boccioni. Lamenti cromatici inafferrabili che ruotano nel turbine futurista,
Emozioni divergenti, opposte, scandite dalle pennellate quasi conficcate nella tela, come lame che provocano lancinanti fitte nelle costole del suo autore o dell’ignaro spettatore passante…
Partenza e ritorno, dinamiche inesorabili e, oltremodo, inevitabili che contrassegnano da sempre l’eterno divenire ad ogni latitudine.
Che sia treno o nave, autobus o quant’altro, dietro ogni viaggiatore si intravede il suo bagaglio, Valigia o borsone, fagotto o borsello, questa variegata appendice atta a contenere interi mondi, a suo modo, racchiude il necessario nella distanza ma, anche, la speranza del ritorno…
Ogni istante milioni di esseri salgono o scendono da mezzi di locomozione… intraprendono o concludono viaggi…
Può capitare a chiunque, in uno dei tanti ritorni, di inciampare in un pezzo di vuoto… l’eterno, sublime, malcelato e frainteso concetto di immortalità che ci sostiene nel quotidiano, si infrange miseramente in una miriade di fragili e taglienti schegge di vetro: l’improvvisa ed imprevista constatazione di una assenza.
Quando un amico se ne va, in uno di quei viaggi senza bagaglio e senza ritorno, è come se un pezzo di nostro universo se ne va con lui.
Il vuoto per l’inattesa partenza si appropria repentinamente del nostro umore, del nostro respiro, dei nostri pensieri.
Lo strano film che è la vita ripropone incomplete moviole. Una consolante e spasmodica ricerca di un frammento di nastro magnetico che possa riempire questo inopinato e orrido baratro venutosi a creare.
“Big-ben ha detto STOP” recitava un monitore motto d’altri tempi…
Tristi e solitari pensieri, come fosche nubi cariche di acqua ed elettricità, spinti da vorticosi venti, offuscano i ricordi… stati d’animo fugaci di gente che torna, di gente che parte.
In un moto ozioso, la mente oscilla tra sensazioni e ricordi, e poi ferma, si impossessa pigramente di pensieri altrui: “amico, amico fragile… evaporato in una nuvola rossa, scomparso in una delle molte feritoie della notte…”. Forse è solo il lasciar dire ciò che si vorrebbe dire a chi sa dirlo molto meglio di noi…
Cosa cercare delle perdute e chiuse stanze? Qualcosa rimane sempre, Un film western di Sergio Leone rivisto all’ossessione, l’indimenticabile ultima finale dei mondiali?… La mente va oltre. Con una piroetta iperbolica va indietro negli anni, alla ricerca di qualche foglio invecchiato messo chissà dove. Vivo nel ricordo ma perso nella materia di carta e inchiostro.
Sottratto agli artigli dell’oblio, in un fascio di vecchie carte, finalmente PALLAS MAGAZINE, anno Zero, numero Zero – maggio 1992 - Pallassopoli. Questa e poche altre ingiallite pagine degli scarsi numeri seguenti, che, rilette dopo tanti anni, ed in questo contesto più che mai, sembrano un album di vita. A tanti questa anonima e dispersa testata (per certi aspetti acerba antesignana di FARONOTIZIE) non dirà nulla, ma certamente per qualcuno degli ignari (prima) e divertiti (poi) protagonisti superstiti il solo nome riproietterà ampi spezzoni di questo vecchio film.
Ed oggi, con quegli inimitabili interpreti e protagonisti principali andati altrove, partiti leggeri e senza alcun bagaglio, neppure quello della sofferenza e degli affanni, restiamo, ancora una volta, tutti attoniti, con lo sguardo perso fra le nuvole, illudendoci di poter scorgere un chiosco di giornali fra le stelle e due vecchi amici ritrovarsi in quei paraggi. Non ci è dato di sapere quel che in quei paraggi accade, ma poco importa, son cose di altri mondi o poliversi paralleli a cui si accede da strade che altri passi, anche a noi cari, hanno già battuto e che solo quando è ora saremo chiamati noi stessi a percorrere, scoprendole.
[1] E’ la definizione che Giuseppe Mazzini dava del popolo nel suo stato potenziale.
[2]
Ancora,
traendo spunto dalla storia, ricordiamo Vincenzo Cuoco, il quale nel suo “Saggio
storico sulla Rivoluzione Napoletana del
[3] Prima fra tutte quella del 1428 contro il Vescovo – Barone, poi quelle degli anni 1842 e seguenti (in cui rimase ucciso il prete Tiganello), quella del maggio 1916 – conosciuta come rivolta del grano – contro l’allora sindaco ed infine quella del 1966 diretta all’ENEL per le periodiche e continue interruzioni di energia elettrica.
[4] Andate a rubare!
[5] Se dobbiamo andare a rubare incominciamo proprio da casa tua!
[6] Non vi sono annotate morti violente né nei registri comunali né in quelli parrocchiali
[7] Non a caso il detto popolare Cu sèrivi pirtùni in’pàgghjia mòri vuole ancor oggi ricordare che essere al seguito di chi gestisce del potere tutto sommato impoverisce dal momento che il potente sopravvive adagiandosi proprio sui problemi irrisolti di chi disperatamente gli chiede aiuto molto spesso in cambio sudditanza eterna.
[8] Questo episodio evidentemente demolisce dalle fondamenta le dicerie secondo cui i rivoltosi, memori dell’assenza di tasse durante la lunga parentesi borbonica, avrebbero oltraggiato soltanto le famiglie dei patrioti garibaldini dietro istigazione filo – borbonica.
[9] Costui è il responsabile della morte del nostro zio sacerdote
[10] La notizia, certamente di prima mano, fa capo ad un discendente collaterale del prete.
[11] Allora il municipio si trovava alla Casa della Terra (attuale cinestar) con tre caratteristiche finestre – ancor oggi formalmente immutate - aggettanti sul Vallone di Sant’Anna.
[12] Notizia tratta dal Registro dei PP Cappuccini di Mormanno “di pugno di Padre Serafino da Mormanno” incominciato nell’anno 1728.
[13] Si tratta del guardiano Padre Antonio da Mormanno (1795+1875) appartenente alla fam. Leone (“papùzo”)
[14] Sta evidentemente per complice.
[15] La visione notturna del cielo della zona è una delle migliori d’Italia proprio per la scarsa presenza di smog e d’inquinamento luminoso (vedi Istituto Geografico Militare). Da Mormanno si possono ammirare alcune costellazioni. Partiamo dall’Orsa Minore o Carro Minore formato da sette stelle tra cui la più brillante detta o Procione è meglio conosciuta come Stella Polare A circa 60° nord della Polare troviamo Cefeo, una delle più vaste costellazioni attraversata pure dalla Via Lattea. Si vede pure Cassiopea dall’inconfondibile asterisma ad M. A 50° sud incontriamo l’Orsa Maggiore la cui detta Sirio è la più brillante. Tra le due Orse si pone il Dragone composto da una ventina di stelle. Fin dai tempi più antichi questo cielo fu il banco di prova dell’attenzione degli antichi sapienti e della fantasia degli aedi tribali delle più arcaiche civiltà. A sinistra dell’Orsa Maggiore è posto il Bifolco o Boote, (letteralmente guardiano di buoi), visibile in primavera, che culmina con la fulgida Arturo foriera, per gli antichi, di nefasti presagi. D’autunno possiamo ammirare Andromeda e Pegaso e d’inverno i Gemelli, il Cancro, il Toro e Orione, caro al Parini. (Quando Orion dal cielo - declinando imperversa - e pioggia e nevi e gelo - sopra la terra ottenebrata versa…).
[16] Mèti e sèmina Massàru, quanno vìdisi a Puddràra
(Le Pleiadi detta anche Gallinelle da cui Puddràra cioè casa dei polli);
(mieti e semina massaio quando in cielo vi sono le Pleiadi); si
FARONOTIZIE.IT - Anno II - n° 18, Ottobre 2007
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