FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 17,  Settembre 2007

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

 

FUOCHINO, FUOCHERELLO, FUOCO!!!

Editoriale del Direttore,  Giorgio Rinaldi

Provate ad ammucchiare dell’erba secca, in una giornata caldissima, sui 41 gradi centigradi, magari mentre spira vento di scirocco.

Oppure, posizionate un pezzo di vetro in modo da captare e amplificare i raggi solari, come sui libri delle scuole elementari viene riportata la figura di Archimede che dagli spalti di Siracusa brucia le navi romane.

Ora, aspettate che l’erba prenda fuoco.

E’ venuta sera e ancora non è successo nulla?

Buttate allora nell’erba secca un mozzicone di sigaretta ancora fumante o un fiammifero fiammeggiante.

L’erba non ha preso fuoco?

Un incendio non è scoppiato?

No?

Ecco che avrete avuto la risposta su come si provoca un incendio: 99 volte su 100 è doloso (quell’1% residuo è a beneficio del dubbio). 

Se l’incendio è volontario, intenzionale, una ragione ci sarà pure. Vediamone qualcuna, vediamo chi può essere interessato ad appiccare un fuoco:

-          un piromane, un malato mentale che gode alla vista delle fiamme;

-          un allevatore interessato ad ampliare i pascoli;

-          un agricoltore che vuole incrementare le produzioni;

-          un politico che vuole gestire maggiori fondi per  mantenere o acquisire più potere clientelare sulla forza lavoro necessaria allo spegnimento degli incendi ed al rimboschimento;

-          un addetto (da operaio a dirigente) al settore spegnimento terrestre/rimboschimento che teme di perdere il lavoro o essere spostato ad altre più gravose mansioni anche in località lontane dalla propria residenza;

-          un titolare/addetto del settore spegnimento aereo preoccupato di un possibile non rinnovo dei lucrosi contratti per manifesta inutilità;

-          un deficiente;

-          forse, altri.

Se questo è, grosso modo, l’identikit del “mostro ambientale”, penserete subito che lo Stato, generalmente inteso, abbia approntato le necessarie difese e contromisure.

Illusi, more solito.

Chi dovrebbe svolgere attività investigativa specifica (Corpo Forestale dello Stato) è continuamente ridotto nelle forze e svilito nei supporti con personale non sempre adeguatamente addestrato.

Le leggi di repressione del fenomeno sono generiche ed inadeguate.

Quando qualche legge di una certa utilità esiste, è pressoché disattesa.

Prendiamo, per esempio, la legge n. 353/00.

Essa prevede l’istituzione del Catasto delle superfici rese libere da incendi.

Una volta individuate le aree, è vietata ogni attività edilizia per almeno 15 anni e ogni altra attività di pascolo e caccia per 10 anni.

Pensate che i Comuni abbiano dato corso all’istituzione del Catasto ?

Illusi, doppiamente illusi!!!

Solo il 24% dei Comuni vi ha provveduto (scommettiamo che nelle Regioni martoriate questa estate dagli incendi la percentuale tende a zero?).

In Calabria, per citarne una, la legge è pressoché ignorata !

E, dopo la liquidazione dell’AFOR (Agenzia delle Foreste Regionali) avvenuta all’inizio della stagione estiva, la Regione Calabria, che ha in forza ben 14.000 forestali, non è stata in grado, come al solito, di prevedere altre forme di gestione per impedire l’attività di cannibalismo clientelare tra i vari assessorati ed enti coinvolti nella spartizione delle competenze.

Con questo andazzo non possiamo che aspettarci la desertificazione delle nostre montagne, salvo agitarci alla vista delle fiamme che lambiscono i nostri paesi.

Eppure, alcuni meccanismi perversi potrebbero essere disinnescati.

Come ?

-         Se si affidasse il servizio aereo antincendio all’Aeronautica Militare sottraendolo ai privati ?

-         Se si prevedessero pene severe (da scontare rapidamente) per i sindaci che non istituiscono i Catasti ?

-         Se alla legge n. 353/00 si sostituissero le parole “15 anni” e “10 anni” con “perpetuo”?

-         Se l’avvistamento, lo spegnimento degli incendi e la bonifica delle aree colpite venissero affidate, anche parzialmente, ad associazioni di volontariato ?

-         Se il personale non volontario da utilizzare per le predette attività nonché per  il rimboschimento delle aree bruciate non fosse avventizio ma solo di “ruolo” e scelto di volta in volta per sorteggio?

-         Se gli agenti del CFS venissero potenziati, anziché ridotti, come –invece- è avvenuto nell’area del Parco Nazionale del Pollino le cui guardie forestali sono state diminuite del 50% ?

E’ di tutta evidenza che queste sono solo piccole riflessioni, date dall’osservazione del fenomeno criminoso, ma - come è facile intuire-  non necessita grande intelligenza o grandissimi mezzi  per approntare un’efficace strategia per combattere la delinquenza ambientale.

Sol se si vuole.

Vale la pena aggiungere che stipulare “contratti di responsabilità”, come da qualche parte si è fatto (il personale beneficia di maggior somme proporzionalmente al minor numero di incendi nelle aree assegnate), significa avere la consapevolezza o, quantomeno, il forte sospetto, che gli addetti non fanno –in grande parte- il proprio dovere, e quindi non individuino e denuncino immediatamente gli incendi, oppure che siano essi stessi ad appiccare il fuoco.

In tal modo, si arriva al paradosso di:

1)     assicurare, comunque, del denaro a chi non svolge correttamente il suo lavoro, tant’è che è necessario un “premio” nel caso di “maggiore vigilanza”, mentre se la vigilanza è “nulla”, la paga base (rimborso…spese) viene in ogni caso corrisposta.

2)     rendere la retribuzione parzialmente aleatoria perché legata in parte alla capacità più o meno distruttiva dei criminali piromani.

3)     introdurre una sorta di equiparazione tra il “premio” e il famigerato “pizzo”:  più paghi e meno fuoco avrai.

Forse è il caso di cominciare a chiedersi perché ogni estate sono sempre le stesse regioni ad essere interessate dal fuoco (tranne sporadici diversi casi) e come mai sono sempre le stesse regioni ad essere continuamente nella “cronaca nera” dei giornali.

Forse è il caso di cominciare ad avere meno indulgenza con chi non fa il proprio dovere.

Forse è il caso non solo di ripulire il sottobosco per evitare gli incendi, ma anche di fare una bella pulizia in casa propria, mandando a casa i politici incompetenti, corrotti e delinquenti, che invece ci teniamo perché da loro ci aspettiamo, o ci hanno fatto, qualche “piacerino”, “favore” o “raccomandazione”.

La vittoria sul fuoco si conquista sul campo.

Così la dignità.


NUOVA LINFA AL PARCO

Abbiamo incontrato, nello scorso mese di agosto, il neo Presidente del Parco Nazionale del Pollino, On. Domenico Pappaterra.

On. Pappaterra, quale è stato il primo problema che ha dovuto affrontare da Presidente del Parco?

Certamente il tentare di recuperare fiducia del territorio nei confronti del Parco. Anni di cattiva gestione hanno fatto perdere lo spirito positivo con il quale si era partiti.

Ho iniziato e completato la campagna di ascolto nei 56 paesi del Parco per ritrovare un clima di fiducia quasi smarrito, a cominciare dalle Istituzioni, Comuni, Province e Regioni, che negli ultimi anni per via di una gestione negativa si erano tirati fuori dalle questioni riguardanti il Parco.

Ho poi recuperato rapporti di solidarietà istituzionale tra Parco e Regione Basilicata, da sempre più avanti nell’utilizzazione delle risorse, superando il muro di incomunicabilità che si era venuto a creare.

Quale altre criticità l’hanno colpita?

Non è mai stata adottata la pianificazione prevista dalla Legge quadro 394/91, ovvero il Piano del Parco e il Piano di Sviluppo Socioeconomico. Ciò ha prodotto difficoltà nel rilascio di autorizzazioni (vedasi elettrodotti, centrali ecc,) e nello sviluppo di ogni tipo di iniziativa socio-economica.

Sarà quindi il tema della “programmazione” a caratterizzare la sua presidenza?

Si, intanto per avviare la richiesta di fondi europei. In questo il Parco ha il vantaggio di poter godere dell’appoggio di due Regioni. Poi occorre chiudere la stagione caratterizzata negativamente dai contributi a “pioggia”, che hanno spesso portato ad iniziare, e mai finire, strutture di ogni tipo. Infine, bisogna pensare ad un progetto di sviluppo integrato per i 56 paesi del Parco che possa esaltarne le specificità.

Promozione e comunicazione, due settori forse carenti?

Si , tanto è vero che poi giustamente i turisti protestano (Lettera a “La Repubblica” del 17 agosto. Ndr). La logica dell’abbandono del territorio non si può più tollerare. Manca un’efficiente segnaletica, una mappa dei sentieri. Occorre realizzare, d’intesa con i Comuni, centri visita, rifugi, centri di educazione ambientale. Confido che molto si possa fare per la stagione estiva 2008.

La conservazione di flora e fauna sono  propedeutici ad ogni altro intervento…

Ovviamente. Il Parco si  candida ad entrare nel programma LIFE, strumento finanziario per l´ambiente istituito nel 1992 con il Regolamento CEE n. 1973/92  ed adottato dal Parlamento e dal Consiglio europeo. I progetti di tutela e conservazione riguardano per esempio specie quali il capriolo, il lupo, la lontra, l’aquila reale.

Si sperimenterà anche un progetto che riguarda il grifone, che sul Pollino trova il suo habitat naturale.

E come incentivare le attività produttive?

In Basilicata è già attivo un consorzio di imprenditori dell’agroalimentare.  Il Consorzio CoPollino unisce già oltre 80 aziende che valorizzano, tra gli altri prodotti tipici, la Melanzana rossa, per esempio, o il Fagiolo poverello bianco, i Peperoni e i Formaggi di Senise, i Salami di Latronico.

Lo sforzo sarà realizzare un’analoga iniziativa sul versante calabro, che magari possa inserirsi nel solco già tracciato dalla CoPollino, in grado di valorizzare il Pane, il Latte ed i derivati, l’Olio, il Vino.

Non possiamo non parlare di incendi…

Quello che è accaduto in queste ultime settimane è stata una vera e propria “sberla” al Parco. Oltre 3000 ettari tra boschi e macchia mediterranea sono andati in fumo. Eventi che ci auguriamo non debbano più ripetersi. Quelle drammatiche giornate hanno portato alla luce vecchi problemi non ulteriormente rimandabili. Il territorio va controllato più capillarmente: al Capo del Corpo Forestale dello Stato ho fatto presente che soli 50 agenti forestali non possono sorvegliare 200.000 ettari di territorio del Parco più esteso d’Europa e, ovviamente, ho chiesto di rinforzare il contingente delle forze a disposizione del Parco. Poi bisogna garantire un’azione più rapida ed incisiva nella fase di spegnimento. Ho constatato di persona la disarticolazione degli interventi operati dai vari oggetti presenti sul territorio (Protezione civile nazionale e regionale, assessorato alla Forestazione, squadre di soccorso forestale delle Regioni, Vigili del Fuoco, Corpo  Forestale dello Stato, volontari..)

Allora, in concreto e nell’immediato…

A settembre sarà predisposto un Piano antincendi che sarà consegnato alle due Regioni ed al Ministero dell’Ambiente, in cui chiederemo maggiore centralità per  il coordinamento delle forze in campo.

Cosa pensa della chiusura dell’A.F.O.R. , l’Azienda Forestale della Regione Calabria

Ne comprendo la logica. E’ giusto trasferire le competenze, uomini e mezzi  alle Province. Mi auguro che ciò possa essere utile al territorio.

E i primi interventi sul territorio che concretamente metterà in cantiere?

In località Campotenese, presso il “Vivaio Pavone”, ove già operano gli elicotteri dell’antincendio, contiamo di realizzare un grande centro di servizi per il Parco, che oltre ad essere un punto informativo praticamente all’uscita della A3, possa essere sede di tutte le organizzazioni che operano sul territorio e possa diventare una centrale operativa per le operazioni di prevenzione, controllo e coordinamento.

Auguri di buon lavoro, Presidente. Torneremo da Lei nei prossimi mesi per “rifare il punto” della situazione.

EUROPA UNITA … PERCHÈ A ROMA?

di Margherita Vassileva

Europa… fu la più bella figlia di Agenore nell’antica Grecia, che ha dato il nome di questo continente, che non oserei chiamare il più bello ma sicuramente è uno dei più affascinanti e attraenti sul nostro pianeta, simbolo di storia, cultura e tradizioni, e sul quale è concentrata una rilevantissima parte del patrimonio artistico nel mondo. Il concetto dell’Europa unita nacque per la prima volta nel 1957?

Vigilia del Natale, il mondo si sta preparando per celebrare la nascita del Salvatore… l’anno è 799. E forse fu provvidenziale per L’Europa Unita quel atto che risale da quella lontana notte del 799, quando il Papa Leone III mise la corona sulla testa del Re Carlo Magno, proclamandolo l’imperatore dell’Europa occidentale. Ai tempi di oggi la testimonianza di questo fatto, ovvero la conferma, arriva dai due francobolli della serie “Europa”, rilasciati dalle amministrazioni postali italiane nel 1982. Uno dei francobolli rappresenta la cerimonia della coronazione del Carlo Magno, e sull’altro vediamo le firme dei rappresentanti del Belgio, della Germania, del Liechtenstein, dell’Italia, della Francia e dell’Olanda, apposte sul Trattato di Roma nel 1957. Il rilascio dei due francobolli in una stessa serie dimostra la relazione tra i due eventi!

Tornando alla coronazione di Carlo Magno - la motivazione fondamentale  che condusse a questo atto fu la conquista dei territori dal Danimarca al mare Adriatico, popolati all’epoca da diversi tribù barbare che invasero quei territori, e dove il concetto dell’unione vera e propria è stato basato sulla fede cristiana, e cioè non è più la spada e lo scettro imperiale a conquistare e unire, ma l’evangelizzazione per la quale il contributo principale va attribuito ai missionari - evangelizzatori di allora. Ed è proprio questo fatto che dà la conferma più solida per le radici cristiane dell’Europa. L’amalgama fondamentale per quelle tribù diverse fu il cristianesimo e non la spada e la guerra. Ed è stata Roma la città prescelta dove nacque per la prima volta l’idea dell’Europa unita.

Purtroppo nella storia successiva sono avvenuti vari fatti che hanno macchiato questa unione dei popoli europei come i movimenti cosiddetti “riformatori” che hanno lacerato la fede cristiana, le numerose guerre crudeli, l’ultima dalle quali è la Seconda guerra mondiale, ecc. Durante tutti questi secoli gli intellettuali hanno sempre cercato di trovare delle soluzioni per il continente europeo e per la sua esistenza e il suo sviluppo pacifici. Nell’anno 1951 tre leader politici: il francese Robert Schuman, il tedesco Konrad Adenauer e  l’italiano Alcide De Gasperi (tutti e tre di profonda fede cristiana e cattolici praticanti) hanno costituito a Parigi la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Il carbone e l’acciaio, come sappiamo, erano la base dell’industria militare. L’idea era quella di trovare il giusto orientamento civile di questi due settori decisamente “militari”  nel passato. Questo atto rappresenta le fondamenta di una futura Europa Unita, forte e pacifica, costituita nel 1992 con il contratto di Maastricht – Olanda.

Sappiamo bene che l’Unione Europea si sta ampliando continuamente con le nuove adesioni, ha il proprio Parlamento, il Consiglio d’Europa, istituzioni e commissioni che rispondono per vari settori della vita europea, ha anche la propria moneta – l’euro, che sta diventando una delle forze monetarie nel mondo e dalla quale dipendono le decisioni strategici dei leader politici per il futuro di tutto lo sviluppo industriale nel mondo. L’unione fa la forza!... E se lo sapesse l’Imperatore, se sapesse che il suo passo avrebbe portato all’unione così importante e forte, alla quale tocca adesso fare il passo più rilevante e decisivo … ritrovare le sue radici cristiane! Forse succederà di nuovo a Roma… la città bellissima, scelta dalla Provvidenza per fondare l’Europa Unita, e chissà, forse proprio lì la bella Europa Unita ritornerà alle sue radici cristiane!

IL GAMBERO MURMANNOLO
E L’OTTIMISMO DELLA VOLONTÀ

di  Giorgio Rinaldi

Mormanno, nel contesto dei paesini dell’area del Parco Nazionale del Pollino, è un Comune che da anni segna il passo.

Mentre altri piccoli centri hanno conosciuto uno sviluppo tangibile e rilevante, Mormanno ha preferito imitare il gambero, e andare all’indietro.

E ciò è davanti agli occhi di tutti .

Alla grave letargia amministrativa non si è riusciti a trovare cura adeguata, anzi quel poco che si è fatto, spesso si è fatto male.

Vai in giro per i paesi limitrofi e li ritrovi rinati, rinverditi, un pullulare di attività, case ristrutturate, arredo urbano risistemato…

Arrivi a Mormanno e trovi le tubature della metanizzazione  (caso unico forse al mondo) che si attorcigliano per muri e muretti, escono da sottoterra troneggiando, privi d’ogni protezione, sulla strada che attraversa l’abitato.

Improbabili contenitori di cartacce sistemati nei posti più incredibili.

Traffico come…Calcutta, con conseguente inquinamento ambientale: rumorosità intollerabile, aria puzzolente, dannosa, strade rovinate, stress d’attraversamento dell’abitato, pericoli per persone e bambini.

Le strade indicate da ridicole targhe marmoree che ricordano meglio il “Parco delle rimembranze”.

Manifesti d’ogni dimensione che sporcano, in barba ai regolamenti comunali, ogni superficie muraria utile, assicurando così una pessima immagine a tutto il paese.

Fili elettrici, cavi del telefono in un groviglio senza fine, sistemati senza alcuna logica sulle facciate delle case: quelli Enel da una parte, quelli Telecom (forse perché ha operai più bassi) più sotto, per poi incrociarsi a mezz’aria...

Per non parlare delle insegne commerciali, che ognuno ha ideato a suo piacere, come il colore delle facciate: lungo il corso principale addirittura c’è una facciata con tre sfumature diverse dello stesso colore, essendo tre… diversi proprietari delle tre porzioni immobiliari!!!

V’è un bel po’ di lavoro da fare.

E’ giusto, comunque, dare atto al Sindaco Guglielmo Armentano e al suo vice Luigi Bloise di avere agito con grande tempestività per la rimozione, dopo solo qualche giorno dalla denuncia, di un contenitore di cartacce posizionato davanti ad uno storico muretto nel centro del paese.

Uguale celerità sarebbe apprezzabile nell’avere risposta sulle intenzioni dell’Amministrazione circa un futuro utilizzo, magari d’intesa con l’Ente Parco del Pollino, del tratto ex stazione/tracciolino della dismessa ferrovia della Calabro-Lucana quale variante stradale per alleggerire il traffico nell’abitato.

E, sempre per restare in tema, sarebbe molto, ma molto, utile sapere se l’Amministrazione ritiene di fare ogni pressione sui gestori delle linee di autobus che interessano le tratte da e per Mormanno perché venga interdetto  l’uso di mastodontici autobus da 55 posti ( mai visto mezzi pubblici –delle FCL- cosi sporchi esternamente: in qualsiasi paese civile i responsabili sarebbero stati da tempo mandati a raccogliere le patate)   con più comodi e pratici da 12 posti, visto che gli utenti non superano da zero a due  o tre unità a corsa.

E’ veramente questo uno spreco non più tollerabile, specialmente in una Regione che è la più pezzente d’Europa.

Questi enormi inutili mezzi costano alla comunità fior di quattrini, dalla spesa iniziale alla gestione, alla manutenzione, ai consumi, ai contributi chilometrici.

Per non parlare dell’intasamento del traffico  che provocano, delle strade che rovinano, dell’inquinamento aereo ed acustico.

Visto che il Sindaco appartiene allo stesso micro e misconosciuto partito del Governatore calabro, sarà forse per lui più facile chiedergli un intervento, finalmente utile, seppur modesto, sugli amministratori ferrostradali calabresi, ovviamente solo nel caso (certo) di indifferenza al problema.

Penso che tutti gli saranno grati,  tranne –ovviamente- qualcuno.

Allo stesso modo, è auspicabile un intervento su Telecom ed Enel per l’interramento dei cavi e una più adeguata sistemazione degli stessi, così come pure su chi ha straziato il paese con la scriteriata posa di tubi  del gas: sarebbe certamente meritorio anche per dare solo un segnale che a Mormanno nessuno può fare più ciò che meglio gli pare  e a suo esclusivo piacimento, come purtroppo sino ad oggi è accaduto per l’indifferenza, la debolezza e l’ignoranza ( il dubbio ci impone di escludere il dolo) degli amministratori locali e chi aveva il dovere di vigilare!!!

E occuparsi anche  di quel che resta, per ignobile incuria, del  campo sportivo e relativi impianti ?

Magari ripensando la ristrutturazione con l’installazione di quello che sta più a cuore ai murmannoli: una piscina; che costerebbe certo meno di quelle che hanno in giardino tanti politici regionali calabresi che, come è noto, lavorano instancabilmente per la propria Regione, come i risultati inequivocabilmente testimoniano!

Ad una prossima occasione per parlare di problemi certamente di altra corposità: occupazione e sviluppo economico.

VIAGGI E ... SCARAFAGGI

di Raffaele Miraglia

Alzi la mano chi ama lo scarafaggio.

Non vedo mani alzate.

L’intolleranza verso questo animaletto è generalizzata.

Il che può creare qualche problema se viaggiate in quei paesi caldo umidi del sud del mondo dove lo scarafaggio assume normalmente dimensioni ragguardevoli e dove, soprattutto, rischiate di incontrarlo anche in posti inaspettati.

Ci sono ovviamente modi diversi di reagire di fronte all’animale.

Per esempio, Rosella è totalmente intollerante e riversa questa sua intolleranza anche verso il treno, il bus, il ristorante o l’albergo dove l’animaletto ha avuto la disgrazia di farsi vedere. Purtroppo per lei, è spesso impossibile trovare un’alternativa alla rapida uccisione della blatta e al permanere, comunque, nel luogo del delitto, vigilando contro l’incursione di parenti della vittima. E’ qui che entra in gioco il sottoscritto, che ha una visione più pragmatica del problema, si assume il compito di carnefice, di vigilante e ... di calmante della consorte.

La nostra diversa risposta alla questione scarafaggio si è evidenziata sin dal primo viaggio comune.

Eravamo a Sumatra ormai da più di qualche giorno. Giungemmo a Sibolga, da dove partivano le navi per l’isola di Nias. Il lungo viaggio in autobus era stato tutto sommato confortevole, anche se avevamo dovuto aspettare almeno per un’ora il suo arrivo, anche se il bus era pieno (ma un insegnante di inglese cedette subito il posto a Rosella in cambio di una conversazione, che lo metteva in una posizione importante di fronte agli altri passeggeri a cui traduceva quel che ci dicevamo), anche se lungo la strada, in un passaggio piuttosto stretto su un dirupo, l’autobus che proveniva in senso contrario si appoggiò sul nostro e mandò in mille pezzi i nostri finestrini.

All’arrivo a Sibolga si materializzò davanti a noi un ragazzino (ma da quelle parti l’apparenza inganna).

Do you go to Nias?”

“Yes”

 “Mi chiamo ...” e sventolando un foglio aggiunse “Il mio nome è nella Lonelyplanet. Andiamo al porto a prendere i biglietti. La nave parte alle 9. Poi andiamo a mangiare. Pagate xx per me e il driver e ci pagate anche la cena”.

Il costo era risibile e dopo cinque ore di autobus non aspetti altro che trovare una persona del genere, che ti risolve in un colpo tutti i problemi. Purtroppo è raro trovarne di così affidabili. Caricati gli zaini, andammo ad acquistare i biglietti e il ragazzino sbrigò tutte le incombenze, avvisandoci ad un certo punto che non erano più disponibili cabine al piano superiore, ma c’era solo una cabina al piano inferiore. Non era una buona notizia, specie per Rosella che soffre di mal di movimento, ma alternative non ce ne erano.

Il sole era già tramontato quando salimmo sulla nave.

La nave sulla quale avremmo viaggiato dodici ore di notte nell’oceano era di legno. Non che la cosa ci stupisse, come non ci stupiva che non ci fossero né salvagenti né, tantomeno, scialuppe di salvataggio. La parte inferiore consisteva in un unico locale dove erano disposti uno accanto all’altro larghe assi di legno: i letti. Ovviamente non c’erano né materassi, né lenzuola. A prua due piccole cabine, che assomigliavano a due stie per polli, divise dal resto proprio da quella rete metallica che di solito si usa per i pollai. Ognuna aveva due letti a castello o, meglio, tre assi di legno su una parete e tre assi sull’altra. Le assi erano anche strettine. Preso possesso della “cabina”, decidemmo di andare sul piccolo ponte di prua che stava proprio lì accanto.

Rosella mi aveva già lanciato qualche timido segnale nei giorni precedenti. Fu così che sperai che il buio combinato alla miopia – era ormai notte e l’unica lampadina spargeva una luce fiochissima – non le facesse intuire cosa c’era su quel ponte.

Era impossibile!

Avete presente quella scena di un film di Indiana Jones, quando lui fugge lungo un cunicolo letteralmente tappezzato di scarafaggi?  La situazione ambientale era identica sebbene sopra di noi ci fosse un meraviglioso cielo stellato.

Rosella ci mise qualche secondo a realizzare, poi si chinò a guardare il pavimento per essere sicura di non avere le traveggole, poi incredula sussurrò “Andiamo dentro”.

In cabina la situazione era decisamente migliore: erano solo dieci o quindici, non più di venti, gli scarafaggi che si aggiravano per terra e sulle pareti.

Mettetevi però nei panni di chi soffre di mal di mare, non sopporta gli scarafaggi e ha di fronte dodici ore di viaggio in una stia per polli.

E la nave salpò, trasportando me, disperato al pensiero di dover affrontare tutti quegli animaletti e insieme tranquillizzare e assistere chi era ormai sull’orlo di una crisi di nervi e cominciava anche a risentire del rollio.

Quando la situazione è disperata, bisogna ingegnarsi.

Fu così che feci sistemare Rosella su una delle assi in alto e le assicurai che nessuno scarafaggio sarebbe mai salito fin lassù ... “perché adesso, che la nave è partita e si muove, gli scarafaggi scendono tutti. Non riescono a stare in equilibrio sulle pareti”.

Nello sguardo perso di Rosella si accese una lucina.

Si mischiavano la disperazione, l’incredulità e la speranza.

“Sei sicuro?”

Con voce ferma, che tende allo suadente: “Certo! Chiudi gli occhi. Dormi.”

No! Vediamo!”

Incredibilmente gli scarafaggi scesero dalle pareti, si acquattarono per terra, sparirono sotto le assi del pavimento.

La mattina dopo Rosella mi chiese come facevo a sapere che gli scarafaggi non stavano in equilibrio sulle pareti di una nave in movimento. Confessai che l’avevo sparata grossa, nella speranza che lei chiudesse gli occhi. Fu comprensiva.

Da quel giorno però, durante i nostri viaggi, il mio compito è ispezionare con cura i luoghi e garantire l’assenza, o al più la presenza in numero debellabile, del perfido animaletto. Se il pericolo è troppo grande suggerisco di trovare un’alternativa. Comunque in albergo ogni mattina devo reispezionare il bagno. Ovviamente qualche volta mento e nascondo velocemente il cadavere, oppure distraggo la mia compagna di viaggi, per poi intervenire repentinamente e risolvere il problema. Al termine di ogni viaggio Rosella mi interroga su quali sono stati i luoghi in cui le ho mentito e io puntualmente confesso.

Non sempre ci azzecco, però.

Bangkok.

Il periodo peggiore della stagione delle piogge sta per arrivare. E’ il momento topico dello scarafaggio. Quello bello grande.

Se l’acquazzone vi sorprende all’aperto e vi riparate sopra un marciapiede un pò più alto (le strade diventano canali), li vedete a decine fuggire dai tombini e contendervi il luogo rialzato.

Tra gli alberghi “medi”, la Lonelyplanet consiglia nella zona di Silom e Surawong – quella che preferiamo – il New Trocadero. Afferma che è favorito fra i giornalisti e spesso occupato anche dai viaggi organizzati. Decidiamo di andare lì.

La prima stanza che vediamo è troppo vicina alla strada sopraelevata (troppo rumore) e ha qualche scarafaggio di troppo. Optiamo per la seconda, più appartata, sebbene anche lì qualche scarafaggio si intraveda.

Rosella è titubante, ma io la rassicuro: “Ci vengono i giornalisti!”.

Dopo una decina di minuti nella stanza comincio anch’io a temere che il numero di scarafaggi sia eccessivo.

Comunque usciamo, ci godiamo la città, un’ottima cena e verso le 23 torniamo in albergo.

Entra e guarda”.

Entro e ... vedo. Sul letto ce ne sono tre che scorazzano. Gli altri, molti, sono sul pavimento, sul divano, sul tavolo, ecc. ecc.  Confesso a Rosella che la situazione è complessa. Lei entra proprio mentre ne esce uno dal mobile del frigo bar.

Estratto lo stretto necessario, sigillo gli zaini sul letto e usciamo. Trecento metri a piedi sono sufficienti per raggiungere l’Holiday Inn.

La signorina della reception ci informa che c’è una promozione speciale e ci chiede se non abbiamo bagagli. Mentiamo e le diciamo che non sono giunti con il volo. Prendiamo l’ascensore e saliamo al diciottesimo piano. Qualche minuto dopo Rosella volteggia per la stanza.

Sorride avvolta nel candido accappatoio con la sigla HY.

Si rifiuta però di accettare la mia versione dei fatti:

Se non fosse per gli scarafaggi, non saresti così contenta adesso!”.

Io non desisto dal tentativo di farle cambiare idea e vi chiedo di aiutarmi.

Cerco disperatamente il libro Elogio dello scarafaggio. Lo ha scritto Martin B. Kracauer e l’hanno pubblicato le edizioni Acquaviva, in edizione limitata. Il titolo risulta esaurito, ma forse qualcuno di voi ce l’ha e me lo può prestare.

“LA LITTORINA”

di Gianfranco Oliva

Sembra che il termine “Littorina” sia stato coniato nei primi anni ’30 a seguito di un visita compiuta a Littoria (l’attuale Latina) da Mussolini , appunto , su un mezzo di questo tipo che tecnicamente viene definito “automotrice leggera a trazione termica” .

Il termine quasi confidenziale “Littorina” , di cui non ne conoscevamo l’etimologia , per noi ragazzi , si associava a quel mezzo di trasporto leggero su rotaia , e più precisamente , per i mormannesi , il riferimento era a quella “littorina” che si inerpicava sulla linea a scartamento ridotto che congiungeva Lagonegro con Spezzano Albanese .

Detta linea faceva parte di una più vasta serie di tracciati , che oltre alla Calabria ed alla Basilicata ,

sconfinava fino in Puglia , addirittura fino a Bari , come schematicamente rappresentato nell’immagine seguente .

La società di gestione , all’origine, era la M.C.L. (Mediterranea Calabro Lucana) ; tempo dopo , a seguito di variazioni societarie e scorpori con le ferrovie Apulo-Lucane , venne denominata F.C.L. (Ferrovie Calabro Lucane) .

AMERICAN FLAG

di Alessia Della Casa

14 soldati americani morti nello schianto di un elicottero. Leggo l’articolo su tgcom dopo aver visto coi miei occhi due militari americani in divisa suonare il campanello del vicino. Due militari a portare la stessa spiacevole notizia! Il figlio, 24 anni, sarebbe tornato a breve dalla sua seconda missione in Iraq. Proprio oggi in casa era arrivato l’invito al suo matrimonio.

Non so niente della guerra.

Da quattro anni sono quasi totalmente fuori da ogni informazione, senza televisione, radio né giornali. In parte per scelta, poiché l’Arte mi ha portato in una direzione diversa dall’attualità, più indietro nel tempo che al passo con le notizie odierne.

Arrivo in America e della guerra in Iraq so ormai poco o niente, ho nella mente confusi frammenti di notizie in tv, ma sono così lontani tutti i corpi senza vita e senza onore che passano nel cielo o restano dove qualcuno li ha dilaniati, chissà con quale preciso motivo??…

Le anime passano sicuramente in cielo, attraversano l’oceano e tornano a casa, da dove sono partite lasciando genitori e moglie, figli e fratelli, l’intera Famiglia.

Una Famiglia in attesa, in festa già per il ritorno futuro, ritorno sicuro

nel cuore. Ma il mondo è ormai un altro.

E il Destino, o Dio, e sicuramente la loro umana e ferma convinzione prevedevano il rischio, il pericolo...e la reale concreta cruda conseguenza.

Forse non c'è bisogno di sapere molto, a questo punto. In questa situazione la realtà è chiara e non è necessario incolpare qualcuno, soprattutto per chi crede nella patria e segue il suo "destino".                                                             

O forse bisognerebbe saperne di più, e combattere senza armi, per poter sconfiggere qualsiasi risposta.

Io mi sento improvvisamente così vicina al cuore del mondo, forse al suo più malvagio cancro che è la guerra.                                                                                                                                           

Mi sembra di toccare a mani nude il cuore d’un corpo malato, che nutre il suo male pompando sangue, ma che non può smettere di battere.

Mi sembra d’essere coinvolta indirettamente in una partita troppo lunga d’un gioco sleale, nella metà campo che gioca in casa, forse!

Sono immersa in una realtà nuova, diversa. In un paese grande e unito, con un punto di vista differente da quello che mi ha sempre circondata, opposto e convinto! È un’atmosfera strana per me.

Parlo con gli americani per capire, e la loro opinione suona inevitabilmente bizzarra alle orecchie di un’europea: “la guerra non è del tutto sbagliata, e nessuno pensa al petrolio!!!  È così terribile quello che Saddam ha fatto all’Iraq che tanti sono grati agli Stati Uniti!!”

Nessuno accusa la guerra, nessuno incolpa qualcuno per essere a capo d’una missione che protegge solo se stesso!

Forse sono influenzata da una visione collettiva, dalle parole decise dalle opinioni più sentite. Forse è giusto rassegnarsi che la storia è storia, e che sono le guerre a farla scorrere, che sono i caduti ad essere ricordati, e che sono le conquiste a fare il mondo più nostro!?

Questo fine settimana si terrà una festa di famiglia, a Palm Springs si festeggia un figlio di 24 anni, fratello, nipote, marito, padre, che parte, in missione nell'esercito…per l'Iraq.

Stasera delle candele sono accese nel giardino del vicino, la bandiera americana è appesa fuori e copre metà facciata della casa.

Fino a ieri non sapevo niente della guerra.

VINCENT

di Francesco M. T. Tarantino  

Memoria di fragili ossa che scricchiolano

Compagno di scuola di musica e rapsodie

Andirivieni di scenografie che cambiano

Fra la sofferenza quotidiana e le goliardie

Non è facile lasciarti andare: ci mancherai

Col tuo sorriso le tue vibrazioni e le note

Della tua musica che immagino ascolterai

E noi con te tra una lacrima e le ore vuote

Un mattino senza arcobaleno ti vide cadere

Ti rubò i sogni e ti spezzò in due la schiena

Non ti inchiodò in croce ma ti mise a sedere

Su una sedia che divenne poi la tua arena

Attoniti e impauriti perché avevamo capito

Che il tuo inciampo ci rendeva tuoi testimoni

Nel risveglio da un incubo che non era finito

E si srotolava in un susseguirsi di processioni

Ti aspetta una notte di stelle e prati di narcisi

Dove con passi felpati camminerai i sogni

Rincorrendo il tempo che risveglia i sorrisi

Gli stessi di cui finalmente non ti vergogni

Restiamo a guardarti mentre scendi la fossa

Ancora attoniti per un saluto immanente

Stasera scricchiolano anche le nostre ossa

Che la luce che ti attraversa sia permanente

Vorrei dipingerti con i colori e i pennelli

Anziché parole che non valgono un cent

Tu l’insostituibile fratello dei miei fratelli

Eri bello eri dolce eri caro: Ciao Vincent

                                ************

La sfortuna non si è stancata di portarti sulle sue spalle. All’esito del tuo viaggio però il dolce ricordo di tutti noi l’ha sconfitta.

Siamo tanti a salutarti.

La Redazione

VITA DI CITTÀ

di Luigi Paternostro

Il libro ancora consola

Esci da casa e rivedi il solito marciapiede infiorato dai freschi escrementi dei grassi, ammalati e voraci “canini” e dagli aerei regali dei piccioni che fabbricano di sotto gli sporgenti cornicioni margherite granulose di aggregati di granaglie.

Non cammini. Fai un percorso ad ostacoli e sei costretto ad essere  Aristotele e Platone.

Muovendo il collo come un cammello e  dondolando, sembri un inutile pupo.

Vai. Vedi. Gli altri: tanti e diversi.

Bellini e mimmini [1] , alcuni diafani come statue da museo, altri più grassi piagnucolosi, i piccini, come robot, agitano tutti le manine e muovono gli occhietti costretti a respirare tutto lo smog che ristagna a livello delle carrozzine.

Ai giardini le mamme parlano, parlano: ciarlano!

I bimbi, storditi, alla fine, dormono.

I più grandicelli, sciami senza arnie, piangono, chiedono, vogliono, si agitano facendo ingrullire mamme e tate.

Sudano e s’imbrattano con nuvole di polvere, scoli di gelati, grasso di patatine e glasse di chewing-gum.

A casa poi, mai scolari, esercitano il nervo mediale del pollice e tutto il ramo superficiale del radiale in una ginnastica schiacciatoria dei tasti del telecomando incollati al magico video attesi al conseguimento del record di.....educazione all’immagine!

Gli adulti? Sempre di corsa. Scappano verso un traguardo che mai raggiungono!

Sono elementi rarefatti. Subito dopo la discesa dall’autobus, l’uscita dalla chiesa, l'accompagnamento ed il ritiro dei bambini dalla scuola, la spesa al supermarket, si disperdono e si annullano dietro i portoni che si chiudono cigolando, spinti da rapide, robuste ed efficientissime molle.

Le rombanti scatole di latta sono tante e tante ne arrugginiscono ai bordi delle strade.

L’ingombrante ferraglia sogghigna allo sforzo dei governi ed alle battaglie dei lavoratori.

Il centro storico è il regno di nauseabondi fumi degli arrosti e di sgradevoli effluvi di bruciacchiate pizze intrise di margarina e coperte di acidi formaggi.

Cosi...ritorni a casa, ripensando ad altre vie, ad altre città. anche a questa ove ora vivi, ma com’era...

E rimpiangi Eurialo e Niso, Paolo e Francesca...

E allora ti consola il lume ed il libro pur se continui ad essere infastidito dal passaggio di tanti guerrieri, coperto il viso da ferree celate, cavalcanti fumanti ippogrifi.

Anche quel mostro del televisore ti fa inorridire ora che, toccando tasti e bottoni, non ti fa uscire di casa neppure a comprare il giornale costringendoti ad una solitudine paurosa e alienante.

Perché vivere ancora a Firenze?

A Firenze si vive in un contesto che ha poco di appagante dal punto di vista della qualità della vita.

Il traffico è  continuo. Immesso in poche direttrici,  a volte crea ingorghi e caos. E’ una guerra continua.

I mezzi pubblici, mal curati igienicamente, percorrono strade con buche, avvallamenti, sconnessioni del lastricato,  tali da procurare seri malanni alla colonna vertebrale.  

E’ poco favorito il movimento dei disabili e insufficienti i percorsi esclusivi e attrezzati. 

Smog e polveri fini fanno da padrone e favoriscono tanti mali moderni concorrendo in buona percentuale ad abbassare le aspettative di vita diffondendo quel flagello che è il cancro polmonare, altro debito che bisogna tenere in conto.

La Città  è al quarto posto tra le più  sporche d’Italia.

Preoccupante è pure l’inquinamento acustico.

Su certe strade vige il doppio senso di circolazione. 

Su molte si cammina malissimo per via dei parcheggi che determinano pericolose strettoie.

I parcheggi poi sono una rigogliosa fonte di reddito per il Comune e di guadagno per i vigili urbani che hanno occhi di falco e matite pronte a scrivere sgorbiando il nome dell’agente, che risulta così un illustre anonimo.

E’ aumentato spaventosamente il numero degli incidenti. Dal 1994 all’aprile del 2001 si sono contati 586 morti e 53.000 feriti gravi. Tale situazione, mentre da una parte è imputabile alla violazione del codice (eccessiva velocità, guida irresponsabile, passaggio con il rosso), dall’altra è provocata dalla condizione dei manti stradali, dalla mancanza di prevenzione, dall’irrisorietà delle misure di repressione e soprattutto da una grossa mancanza di educazione di cui è in buona parte responsabile la scuola senza trascurare l’ACI, il ministero dei trasporti e l’Assessorato al traffico del Comune.

Anziani e bambini sono poco protetti lungo le strade, nei giardini, sugli autobus.

Venditori ambulanti insistenti e petulanti disturbano i pedoni ad ogni piè sospinto.

Qualcuno ha pure imparato a sbarrare il passo e a spingerti verso il muro alitandoti in pieno viso parole come babbo o nonno o zio, quasi a volerti obbligare, con insistenza scorretta, a comprare calzini, fazzoletti di carta, ombrelli, foulards, e tutta una varia mercanzia stretta tra mani che sembrano tenaglie.

I lavavetri ti perseguitano. Ti sfiorano con gocciolanti spugne che agitano come brandi pronti ad infilzarti.  

E’ poco rispettata l’igiene. Appena si sollevano i panni di cui la città si ammanta ci si imbatte in cassonetti stracolmi, in strade sporche e piene di cartacce, in marciapiedi che sono il cacatoio e il pisciatoio dei cani che bonificano i giardini pubblici ove si portano pure i bambini. 

Turisti frettolosi e malvestiti proprio nella città del Pitti Uomo, rovesciano sulle strade carta, buste di plastica, bucce di frutta, mozziconi di sigarette e ogni altro ben di Dio.

Vanno sempre di corsa e parlano ad alta voce..

Riempiono le sale dei musei di sudori e odori che fanno torcere il naso anche ai Gentiluomini e alle Madonne dipinte. 

 Si consentono mercatini all’aperto in luoghi di intenso traffico (vedi piazza delle Cure o sottopasso dell’Affrico) ove si respira tutto lo smog possibile e ove la frutta e verdura è irrorata da solfuri e benzeni che si aggiungono  a tutti gli altri inquinanti usati in agricoltura.

Perché si consente ai fruttivendoli di tenere la merce esposta alle polveri?

Perché l’acqua minerale contenuta nelle bottiglie di plastica è esposta al sole?

Perché la maggior parte degli alimentaristi non usa le pinze per gli affettati  che vengono poggiati sulle mani che toccano la sigaretta, i soldi, i cesti, i ganci, le scope, gli stracci o anche  quelle parti intime a volte richiedenti un’urgente grattatina?

Perché i macellai lavorano la carne a mani nude girandola e rigirandola, strizzandola e lisciandola tanto da ammorbidire anche  robusti vitelloni?

Perché si fuma ancora negli ospedali?

Firenze è  una  città affollata, inquinata che soffre per il suo ruolo di centro di un vasto hinterland.

Nella classifica per la qualità della vita si colloca a mezza lista tra i capoluoghi di provincia toscani dove molti dei problemi suddetti sono meglio risolti, oppure non esistono proprio.

Il graffio: odio represso o distinzione?

La parola penale ha diverse accezioni.

In diritto è usata come clausola, patto o sanzione in ordine al ritardo o all’inadempimento di obbligazioni assunte in un contratto.

Nei fatti che esporrò uso il termine come atto diretto a punire chi commette una colpa, un peccato o una trasgressione.

Vivere oggi, specialmente in città, comporta il sottoporsi al pagamento di tante penali senza aver mai contravvenuto agli obblighi civili, anzi, e qui sta il paradosso, per averli assolti tutti.

Se si parcheggia la macchina e la si trova graffiata o ammaccata, bisogna pagare la penale, spendere cioè per farla riparare a meno di tenersela manomessa.

Il graffio è un’invenzione degli ultimi decenni.

Racchiude tante intenzioni: il disprezzo, il dispetto, la malvagità, l’invidia, la rabbia, l’insicurezza, la mancanza di ideali, la ricerca di una ragione di vita, tutti comportamenti coronati dalla diseducazione, dall’ignoranza, dalla miseria morale. 

Mi viene di pensare al fallimento della scuola, alla misera fine della famiglia, al disgregamento della società, ove ormai non può vivere chi non è almeno politicante o cavaliere.

Contro azioni del genere non ci si può difendere in nessun modo.

Resta solo una grande amarezza.

La brutta fine di un imperatore

Lettera al Presidente del Consiglio di Quartiere 2

Egregio Signor Presidente,

vengo a chiederLe un momento di attenzione. 

Abito da circa trent’anni nel Quartiere 2. 

Accompagnato da vari disturbi dovuti all’età che inesorabilmente avanza sogghignando e irridendo, quando si placa il rovaio o non tiranneggia Febo, porto il mio fratello asino a spasso nei giardini che costeggiano il fluente e silenzioso Arno che infonde ancora sentimenti di gioia, pace e serenità. 

Dal Lungarno del Tempio fino al “Cigno” la passeggiata è bellissima.  

Ad un certo punto comincio a sentire un tramestio di liquidi che sempre  meno trattenibili dalle ispessite pareti di un organo angustiato dall’ingrossata castagna, cercano l’uscita senza capir ragioni.

Mentre il mio sguardo va in cerca di qualche monumento che mi ricordi gli abbellimenti di Tito Flavio imperatore, comincio ad invidiare, mi perdoni, i tanti Fido che, alzando solo una gambina, sberleffano tra erbe, prati, muretti, alberi e ringhiere. A volte raggiungo i giardini contigui alla Piscina di Bellariva  ma i bagni sono chiusi. Speranzoso mi dirigo al bar di fronte alla Rai. Ma il cartello che con molta gentilezza mi avvisa della chiusura del locale fino a tutto marzo, diventa  una spada che mi eviscera senza pietà. Comincio a sudare e non vedo l’ora che arrivi l’invocato taxi e mi riporti, sofferente, a casa.

Non credo, signor Presidente, che  gli anziani debbano rinunciare a quei quattro passi salutari, raccomandati e pure imposti dai dottori, ed essere invece destinati ad aumentare gli indici di ascolto delle nostrane TV, impoverendo l’amata città con la loro assenza.

Nella speranza che risolva anche questo problema, si abbia i miei più deferenti ossequi.

STRAORDINARIA MANIA

di Raffaella Santulli

 Il collezionista eclettico, la più originale e la più stravagante

specie di amatori appassionati è quasi un libertino: aborre la monogamia,

nel senso che non ha una passione particolare ma vive di infiniti amori;

tutto suscita il suo entusiasmo.

Ogni tema, ogni oggetto è per lui una palestra mentale dove esercitare

l’intelligenza ed il sapere, un’occasione per avvincenti esplorazioni a

ritroso nel tempo e nello spazio.

Raccoglie miriadi di pezzi, dal raro al comune, dal prezioso al povero,

dal capolavoro alla curiosità: tele importanti, maioliche d’epoca, coralli,

borse per la polvere da sparo, bacchette da direttore d’orchestra e

“oggetti di virtù” - le affascinanti costruzioni realizzate nel Seicento

con l’unico fine di stupire - non per avidità di possesso ma spinto da

un’irrefrenabile voglia di conoscere, e da una esigenza – forse - di

sottrarre all’oblio le opere dell’uomo, di farle rivivere, di restituirle

all’attenzione del mondo. E con loro il nostro passato.

Purtroppo ogni diversità o eccentricità, in apparenza vezzeggiata,

in questa nostra società contemporanea è in realtà tenuta in sospetto; la

figura del collezionista così atipica e sui generis, è trattata con distacco

e con una punta di ironia.

Ma che cosa sarebbe il mondo senza esploratori della memoria?

Per fortuna questo tipo umano è tutt’altro che in via d’estinzione,

e per fortuna lo snobismo culturale, che è il suo brodo di coltura,

si rivela antidoto potente ed efficace contro le pulsioni omologanti del mondo globalizzato di Internet.

IL VERO RISCHIO È L’”IGNORANZA”

di Nicola Perrelli                    

Qualche mese fa (vedi Faronotizie n.15/2007) ci siamo brevemente occupati delle opzioni a disposizione   dei lavoratori dipendenti   per la destinazione del Tfr maturando.

La scelta andava fatta entro il 30 giugno perciò

gli interessati hanno  già dovuto dichiarare al proprio datore di lavoro dove destinare questa loro risorsa.Qualunque sia stata la scelta,  fondi pensione di categoria, gestioni previdenziali di banche e Sim o  piani individuali pensionistici, il loro Tfr ha ormai imboccato la nuova strada, quella che porta alla pensione integrativa.

Il c.d.  secondo pilastro che  i lavoratori dovranno comunque, giorno dopo giorno, costruirsi per sperare di affiancare alla pensione pubblica, sempre più misera, una seconda pensione che sia degna di questo nome.

Ma non è questa la sola incertezza, altre e più importanti se ne aggiungono. Le perplessità in materia sono veramente tante:  da come e a chi chiedere un anticipo in caso di bisogno, a come incassare il 100% del maturato,  a come migliorare il rendimento e via dicendo. Fino a quella più inquietante : è possibile che i fondi pensione possano fallire?

Una domanda che a primo acchito può sembrare banale ma senz’altro dotata di senso  per quanti  hanno affidato il proprio Tfr a una società di gestione del risparmio. Legittimata inoltre dal fatto che trattandosi di investimenti (risparmi) che hanno esclusivamente  una funzione previdenziale,    la percezione e soprattutto l’accettabilità del rischio da parte dei lavoratori-risparmiatori sono giustamente diverse rispetto ad altre forme di  impiego.  

Il solo pensiero di potersi trovare coinvolti in crack finanziari  che comportino come conseguenza la perdita dei soldi versati, li pone in uno stato di sospetto, se non di vera e propria angoscia. E le notizie di fallimenti di fondi pensione che avvengono di tanto in tanto in altri Paesi certamente non portano con sè una ventata di fiducia.

Per affrontare l’argomento con un minimo di tranquillità cominciamo con il dire che le norme italiane sulla previdenza complementare sono molto più garantiste di quelle vigenti in altri Paesi. L’apparato delle tutele per i lavoratori italiani è molto più articolato e agisce in diversi momenti e aspetti della vita dei fondi.

I paletti imposti dal legislatore per la regolamentazione dei fondi pensione sono molteplici.  Limitano innanzitutto le modalità di investimento, a partire dall’obbligo di investire il patrimonio in misura predominante su mercati regolamentati e pongono stringenti vincoli alle operazioni in prodotti derivati.

Altre limitazioni vigono poi per la  sottoscrizione o acquisizione di azioni , di quote di società immobiliari, di quote di fondi comuni immobiliari e mobiliari chiusi.

Un ‘altra importante garanzia a tutela dei lavoratori deriva dalle norme che vietano o limitano al massimo i possibili conflitti d’interessi che possono sorgere quando il soggetto investitore (fondo, o per capirci

meglio la società che raccoglie i soldi dei lavoratori)  impegni gran parte del suo patrimonio nell’acquisto di azioni o quote di altre società al punto da dipendere poi dalle sorti di quest’ultime.

In altre parole per evitare che si ripetano fallimenti eclatanti come quello della Enron ,società americana, la legge prevede che il fondo non possa investire più del 20% delle proprie risorse in partecipazioni o azioni di altre società.

Fermo restando  che il patrimonio del fondo, ossia i valori e le disponibilità che lo compongono, non possono essere distratti dal fine al quale sono destinati.

Ma non è finita: la legge dispone inoltre la netta separazione delle somme affidate al gestore (banca,assicurazione,ecc) dal suo patrimonio, questo per evitare che eventuali  creditori del gestore  possano rivalersi sul patrimonio del fondo.

Cosi come obbliga a depositare le risorse affidate al fondo presso una banca , detta depositaria, diversa dal gestore. Queste limitazioni valgono anche per i diversi comparti del fondo,  ogni comparto (profilo di investimento) deve avere un suo patrimonio autonomo. Ciò per evitare che i maggiori rischi di alcuni comparti, come quelli azionari, possano ricadere su altri di natura più  prudenziale.

A controllare il tutto provvede la Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione, istituita dallo stesso legislatore. Tra le sue attività di vigilanza più importanti vanno annoverate  le verifiche sulla sana e prudente gestione degli investimenti, i controlli sulla gestione tecnica, finanziaria e contabile e la possibilità di convocazione degli organi di amministrazione del fondo.

Se nonostante tutto, il fondo pensione dovesse malauguratamente  andare lo stesso in crisi, la legge prevede  che questi non possa essere soggetto a fallimento e che le sole procedure attivabili siano l’amministrazione controllata e per i casi più gravi la liquidazione coatta amministrativa.

E’ bene comunque sapere che i pochi casi di crack italiani sono tutti preesistenti alle odierne  normative e che il vero grande rischio per il risparmiatore nel settore finanziario è la disinformazione o peggio ancora l’inconsapevolezza.

PER LA FESTA DELL’EMIGRANTE  -17 agosto 2007-

di Domenico Crea

Mormanno mio, ingrato e mai odiato,

(come potrei , se sempre io t’ho amato!)

questo tuo figlio ormai stanco ritorna

per rivedere i luoghi dell’infanzia,

del vicinanzo la viuzza angusta,

la voce di mia madre che riecheggia.

Mormanno mio, ingrato e mai scordato,

(come potrei, se sempre ti ho pensato?)

già con le gambe livide dal gelo,

e la buffetta con lo scarso cibo,

le toppe bicolori ai pantaloni,

vuote le tasche e solo pochi sogni

di quella prima età non ho rimpianti

Mormanno mio, ingrato e abbandonato,

(quel giorno lo ricordo come ieri!)

già gente nuova che comanda e dice

strane parole, ma almeno si lavora

e di nuovi sapori apprezzo il gusto

e piano piano mi riscopro grande.

Mormanno mio, ingrato e sempre amato,

(quanti palpiti al suono del tuo nome!)

Il cuore nella piazza o al cimitero,

o della Chiesa grande i riti sacri o del

maiale l’urlo per la casa, e di parenti

e amici i dolci volti fissi negli occhi

stanchi e nelle mie preghiere a tarda sera.

Mormanno mio, ingrato e adorato,

lo struscio lungo il corso, e la fagòna,

la soppressata e i trènari di Pasqua,

la statua dell’Assunta, e di San Rocco

le cinte in processione e là ù, sul pezzo,

la frutta di Laino e d’Orsomarso.

Mormanno mio, ingrato e sospirato,

nella mia vita molto mi sei mancato,

del Padovano le campane a festa,

di zia Rusina chiacchiere e polpette

odore di soffritto e peperoni, scambi

d’assaggi tra case vicine e dei miei cari

baci e abbracci che portai nel cuore.

Mormanno mio, di nuovo son tornato,

e ti trovo comunque un po’ cambiato,

parenti e amici ogni volta di meno,

ma come tutti, uscito dal tuo seno,

dovendo poi lasciarti ad ogni rientro

un gran senso di vuoto avverto dentro,

e già sul prossimo ritorno mi concentro.

CANPOPY TOUR, UNA SFIDA VERTIGINOSA

di Paola Cerana

La mia insaziabile  voglia di vita mi porta continuamente a cercare nuovi stimoli. Non riesco a stare ferma, non sopporto il torpore fisico e soprattutto mentale che uccide la fantasia e il desiderio. Incosciente più che coraggiosa sfido i miei limiti senza spesso valutare le possibili conseguenze e considero quest’imprudenza un dono anziché un rischio, perché mi permette di andare sempre “oltre” caricandomi ogni volta di nuova energia. 

L’ultima partita contro me stessa l’ho giocata quest’estate, a Roatan, un’occasione imperdibile per valutarmi in una condizione assolutamente nuova per me. Affascinata dallo spirito di avventura di un gruppo di americani mi lascio convincere a partecipare al Seeshore Canopy Tour, senza sapere nemmeno bene di cosa si tratta. Mi assicurano che in America il canopy è ormai uno sport diffusissimo anche se recente. Nasce infatti in Costa Rica da un progetto di Darren Hreniuk, un canadese innamorato della natura, che ha ideato un modo del tutto nuovo per far conoscere la foresta da una diversa prospettiva, ovvero dall’alto, per rendere i visitatori consapevoli dalla sua bellezza  e soprattutto dell’importanza di salvaguardare un ecosistema tanto ricco e fragile. Da lì il canopy si è poi diffuso un po’ ovunque, dall’Alaska alla foresta amazzonica, fino ad approdare oltreoceano,  riscuotendo enorme successo come sport cosiddetto estremo più che come mezzo di osservazione dell’ambiente. Come resistere quindi alla tentazione dell’estremo? Se tanti si cimentano, penso, perché non io …

Unici italiani tra una decina di americani siamo io e il mio ragazzo, che a soli dieci anni è molto più coraggioso e meno incosciente di me. Al parcheggio del resort ci aspetta un vecchio camioncino che ci dovrebbe portare - almeno si spera -  fino al punto più alto dell’isola. Già questa è un’impresa, salite tortuose su ripide stradine a bordo di un mezzo che pare debba essere spinto a braccia da un momento all’altro. Ma ce la fa! Arriviamo alla base del Seeshore Canopy Tour, in cima ad una montagna, dove tre simpatici ragazzi hondureni ci accolgono pronti a fornirci l’attrezzatura necessaria e le istruzioni utili prima di intraprendere l’avventura. Già alla vista dell’equipaggiamento capisco che non deve essere proprio uno scherzo: elmetto di protezione per la testa, imbragatura con doppio moschettone (capirò dopo perché ne occorrono due) e guanti enormi e spessi per proteggere le mani.

 Vedendo mio figlio mascherato in quel modo, troppo piccolo per tutto quel peso addosso, mi pento immediatamente di averlo coinvolto in quest’impresa anche se lui pare, al contrario, divertito e affatto preoccupato. Nemmeno quando gli traduco tutte le istruzioni da seguire durante il percorso per evitare di farsi male sembra esitare, mentre io per un attimo vorrei poter tornare indietro e non aver dato ascolto al mio spirito avventuriero. Ma siamo qui, siamo tutti pronti e ormai si parte!

Il tour consiste in un percorso di un’ora circa, in cui partendo da una piccola piattaforma di legno costruita sui rami di un albero ci si lancia

agganciati ad un cavo d’acciaio, zip line, teso fino a raggiungere la successiva piattaforma, ad un’altezza variabile dai 40 agli 80 metri. I cavi sono lunghi da 50 a 135 metri e sono due tesi parallelamente, ecco perché due moschettoni, uno è di sicurezza, così nel caso il primo dovesse sganciarsi ci sarebbe sempre il secondo (e se si sgancia il secondo …?).

La postura durante il volo sulla line è fondamentale per evitare incidenti: una mano davanti afferra il moschettone e l’altra dietro sul cavo per frenare all’arrivo ma se per caso un dito scappa oltre il moschettone addio mano! La testa sempre leggermente scostata di lato, perché l’urto contro la line in velocità non sarebbe piacevole nonostante il casco ma non troppo esposta all’esterno per evitare di colpire rami e foglie di palme. Le gambe poco in avanti rispetto al resto del corpo e incrociate, come essere seduti, per evitare di roteare e perdere l’equilibrio durante il volo. Mi spiegano che la tentazione che si ha appena lanciati è quella di stringere il più possibile il cavo con la mano dietro per frenare, dato che la velocità a tratti spaventa ma è un errore e il rischio è di restare fermi, sospesi a metà line e di dover essere recuperati da uno dei ragazzi, con enorme fatica per lui e perdita di tempo per tutti.

Siamo pronti per la prima zip line, io e il mio ragazzo siamo gli ultimi, un pensiero mi conforta e uno un po’ mi angoscia: tutti prima di noi sono arrivati sani e salvi alla seconda piattaforma, bene … ma una volta fatto il primo lancio non esiste possibilità di tornare indietro, è un percorso a senso unico, fatto di una sequenza di lines a lunghezza e velocità crescente. Quindi una volta partiti è inutile ogni ripensamento.

Tocca a me! Mi lancio, spontaneo mi scappa un grido, più liberatorio che di brivido, la sensazione è un miscuglio di paura di cadere, voglia di arrivare ma anche di fermare quei secondi in volo che mi separano dalla piattaforma che mi aspetta. L’adrenalina mi percorre in una scossa, energia, illusione di libertà, di assenza di limiti … tutto concentrato in pochi secondi che sembrano durare un’eternità.

Sento solo il vento che mi sostiene, spariscono cavi, moschettoni e imbragatura, sembra davvero di volare calamitata da una forza selvatica. Una volta atterrati sulla piattaforma d’arrivo  occorre essere svelti, i ragazzi mi aiutano a sganciare i moschettoni e a riagganciarmi alla successiva line, in fretta perché le piattaforme sono strette e non ospitano più di tre o quattro persone contemporaneamente. Tutto sommato mi sento molto più sicura appesa al cavo che non in piedi su quel fazzoletto di legno senza riparo alcuno, data anche la mole di alcuni miei compagni d’avventura, evito anzi di guardare di sotto. Faccio a malapena in tempo a vedere il mio ragazzo sospeso nel vuoto, sta volando, arriva, niente grido liberatorio lui, nessuna traccia di paura sul suo viso, composto e per niente teso, sembra un piccolo Tarzan, penso. Mi tranquillizza e posso lanciarmi per la prossima line.

E’ vero che ad ogni lancio il volo è più lungo e la velocità aumenta ma paradossalmente il timore via via mi abbandona e l’insicurezza lascia pieno spazio ad una piacevole ebbrezza, una sensazione quasi orgasmica, corpo e mente fusi in un mescolarsi dei sensi. La foresta tutta attorno a

me e l’oceano in lontananza non sono semplicemente un panorama, non stanno fuori di me, mi sento appartenere a questa natura, potrei essere un falco o una scimmia, un elemento in perfetta armonia con questo spettacolo selvaggio. L’oceano sembra vicino da quassù, si vede persino il reef, verrebbe voglia di volare su una line così lunga da poter arrivare a tuffarsi dentro.

Peccato invece, l’ultima piattaforma è alle mie spalle ormai, l’avventura è finita. Una volta atterrata definitivamente sento le gambe tremare per la

tensione, le mani e i muscoli delle braccia fanno un po’ male per aver forse stretto troppo cavo e moschettone, la testa gira vagamente ubriaca. Ci liberiamo tutti dell’imbragatura, gli americani si complimentano col mio giovanotto che si sente giustamente fiero per essere il più giovane intrepido del gruppo, felice per avere qualcosa di speciale da raccontare al suo ritorno a casa. Il tour è durato un po’ più di un’ora eppure i minuti sono volati come noi sulle lines. Sarei pronta a ripartire per una nuova serie ma non sarebbe la stessa emozione forse. Mancherebbe l’incoscienza, l’incognita della reazione fisica ed emotiva, l’aspettativa sminuirebbe la sorpresa, chissà. Così salutiamo e ringraziamo i ragazzi che ci hanno accompagnato e assistito durante il viaggio e risaliamo a bordo del nostro scassatissimo camioncino. Il caldo e l’umidità aumentano la percezione della stanchezza fisica che all’improvviso mi assale ma la soddisfazione è enorme. Guardo le espressioni degli americani che evidentemente esperti si erano premurati di portar con sé birra e rhum e ascolto i loro commenti, curiosa delle loro sensazioni.

Scopro che tutti hanno provato un brivido di paura, qualcuno si ripromette di non ripetere mai più una simile pazzia, nonostante l’entusiasmo. Così mi consolo un po’ pensando a come sono fatta! Intrepida e curiosa sì ma le vertigini sono un limite fisico che subisco da sempre e mai avrei immaginato di riuscire a vincere quella tremenda sensazione di angoscia e impotenza che solo pochi metri di altezza mi hanno sempre fatto ridicolmente provare.

Accetto un rhum, brindo con gli amici americani a suon di musica country, George Strait canta “There’s a road a winding road that never ends, full of curves lessons learned at every bend, going’s rough unlike the straight and narrow … It’s for those who go against tha grain, have no fear dare to dream of a change…”. Faccio mie queste parole e durante il rientro al resort guardo con occhi diversi la foresta che ho appena attraversato in volo … intanto penso già a quale sarà la prossima sfida con me stessa.

GENITORI E FIGLI

di Erika Scotti

Il mestiere del genitore è difficile...ma anche essere figli non è sempre facile.

Recentemente un paese nelle vicinanze di dove vivo è  stato messo in subbuglio in seguito all'arresto di un noto maestro di ballo accusato di pedofilia.

La prima, umana, reazione è stata di incredulità in fin dei conti non viviamo a Roma o a Milano o in qualche altra grande metropoli ma in un piccolo centro del Friuli collinare....qui queste cose non dovrebbero succedere, ci deve essere stato uno sbaglio, queste cose le leggiamo sui giornali o ne sentiamo parlare in televisione ma non le viviamo, non qui, non in campagna, qui viviamo una vita sana e tranquilla....ma se fosse vero, se davvero fosse successo allora....dove possiamo scappare, dove possiamo metterci al riparo, dove possiamo sentirci al sicuro?

Non esiste un luogo, una città, un paradiso dove rifugiarsi , l'unico modo per difendersi è creare la sicurezza e la fiducia all'interno della famiglia, ma anche per fare questo ci vuole un grande equilibrio e una grande maturità...senza menzionare un gran coraggio.

Ho visto reazioni totalmente differenti agli eventi di cui sopra. C'è stato chi, senza esitazione si è messo dalla parte dei figli. Incuranti dei giudizi e dei commenti altrui li ho ritrovati in prima linea nella difesa dei  loro piccoli ... altri invece hanno preferito non credere.

Non è questa la sede né il mio compito disquisire sulla veridicità o meno dei fatti, quello che mi ha dato molto a cui pensare sono stati questi atteggiamenti, queste prese di posizione tanto diverse tra loro.

Chi vi scrive è stata bambina di otto anni ed è stata vittima di molestie sessuali, non mi vergogno a dirlo e non provo particolare sofferenza nel ricordarlo e questo mi fa molto riflettere. Perchè non soffro? Beh io ho trovato la mia risposta a questa domanda ed è in realtà una soluzione piuttosto ovvia....non soffro perchè ho avuto fin da subito la fiducia e il sostegno dei miei genitori.

Sono stata creduta. La mia famiglia si è subito ripiegata su di me donandomi gli strumenti per superare senza conseguenze l'accaduto. Nessuno ha agito mettendo la testa sotto la “sabbia”,  facendo finta di niente, no, la cosa è stata affrontata serenamente insieme.

Ricordo molto bene l'imbarazzo di fronte alle autorità nel dover raccontare l'accaduto, ricordo il riconoscimento ma più di tutto ricordo la figura dei miei genitori sempre presenti e incoraggianti accanto a me.

Per questo ho voluto scrivere questo articolo, per dire ai genitori di star vicino ai loro figli in ogni occasione bella o brutta che sia, perchè questa è l'età in cui si gettano le basi per il futuro.

Sono mamma adesso e la sola idea che possa accadere qualcosa di male a mio figlio è aberrante spaventosa e dolorosissima.

Non sono da giudicare quei genitori che sperano che facendo finta di niente il problema scompaia da solo, è comprensibilissimo ... ma ditemi....che esempio date ai vostri figli che una volta adulti porteranno dentro la ferita che nel momento in cui erano più indifesi e bisognosi di voi sono stati lasciati soli nel loro dolore?

Per questo vi dico, noi adulti abbiamo i mezzi e le conoscenze per poter superare tutto ma i bambini no. Non credere alla loro parola e non essere lì a difenderli equivale a lanciar loro il pesantissimo messaggio che forse, in parte, sono responsabili di quello che gli è successo. E con questa eredità che uomini e donne saranno? Insicuri complessati e paurosi di vivere.

La bambina che sono stata, invece, vuol ringraziare chi non ha paura di esporsi, chi non ha paura di denunciare e chi va a testa alta alla difesa degli innocenti e dei più deboli, non importano i pettegolezzi, i giudizi e le malelingue perchè voi avete la consapevolezza di aver messo un decisivo mattoncino in più nella costruzione del carattere e dei valori degli uomini e delle donne di domani.

LA COMPAGNIA DEL CUCCO

Gruppo di attività culturale –Mormanno CS

di Tonino Cattolico

Il Gruppo inizia la sua attività nel 1991, con la messa in scena de "La Marcolfa" farsa di Dario Fò, autore riproposto successivamente con "Non tutti ladri vengono per nuocere" e "L'uomo nudo e l'uomo in frac".

Nel 1995 il Gruppo si costituisce ne "La Compagnia del Cucco" i cui componenti si aggirano intorno alle trenta unità.

Tutti i lavori allestiti dalla Compagnia sono improntati alla più assoluta spontaneità e passione per il teatro in quanto nessun componente ha mai partecipato a corsi di recitazione o di formazione.

Caratteristica predominante della Compagnia è offrire rappresentazioni che per la loro natura e costruzione hanno in sé la possibilità di incidere sulla eterogeneità del pubblico privilegiando pertanto la recitazione in lingua, su quella dialettale.

La scelta delle opere che il Gruppo adotta è orientata a rappresentazioni di farse o di commedie brillanti come "Povero Piero" del noto umorista Achille Campanile, "Uomo e galantuomo" di Eduardo De Filippo e "Non ti conosco più" del commediografo Aldo De Benedetti, che si basano sull'antico tema del dualismo, sulle due facce degli uomini, delle cose ... della realtà.

Nel 1998 l’Amministrazione Comunale di Mormanno organizza una manifestazione su musica, cinema e teatro in collaborazione con l’Università della Calabria, e la Compagnia ne cura la parte dedicata al teatro, mettendo in scena   “La nascita del Villano”  tratto da “Mistero buffo” di Dario Fo, e alcuni schetc di Quenot adattati in lingua italiana da Umberto Eco.

Il lavoro presentato dalla Compagnia per l’anno 1999 è un'opera di Peppino De Filippo "L'amico del Diavolo", commedia in tre atti che tratta le miserie della vita dal finale un pò amaro.

Il lavoro allestito per il 2000 dal gruppo, in occasione dell’Anno Santo è una rappresentazione in nove scene sulla vita di S. Francesco di Assisi.

Per la stagione 2003 la Compagnia ha portato in scena una commedia in due atti di Vincenzo Salemme ”Premiata Pasticceria Bellavista”, che ha riscosso un ottimo successo di pubblico.

Con “Premiata Pasticceria Bellavista” la Compagnia ha partecipato a varie rassegne e concorsi tra cui il Premio Internazionale di Teatro Popolare “Il Giogo” di Montagnano in provincia di Arezzo vincendo il premio come miglior attore protagonista, e alla rassegna teatrale città di San Fili in provincia di Cosenza vincendo il premio come miglior attrice caratterista e migliore scenografia.

Nel 2005 la Compagnia ha vinto, con lo spettacolo “L’anatra all’arancia” di Marc-Gilbert Sauvajon e William Douglas Home il premio quale miglior spettacolo, migliore regia e migliore attrice protagonista alla IV Rassegna Nazionale di Teatro Amatoriale Città di Guardia Sanframondi (BN).

L’associazione ha curato in collaborazione con il locale Liceo Scientifico una rappresentazione in due atti unici di Peppino De Filippo.

La Compagnia ha inoltre partecipato per vari anni agli spettacoli organizzati dalla Provincia di Cosenza, e tutti gli anni organizza e ospita gruppi teatrali in collaborazione con la Pro Loco e l’Amministrazione Comunale di Mormanno.

Il lavoro messo in scena per il 2007 è “Il berretto a sonagli” dramma in due atti di Luigi Pirandello.

La Compagnia per il prossimo 2008 ha in preparazione una piece in due atti di Francis Veber dal titolo “La cena dei cretini”.

PIRANDELLO A MORMANNO

di Luigi Paternostro

Nell’ovattata atmosfera della Sala S. Giuseppe di Mormanno, ho assistito insieme ad un pubblico attento ed affascinato, ad un “Berretto a sonagli” rappresentato con una rara sensibilità e padronanza dagli attori della Compagnia del Cucco,  egregiamente diretti da Tonino Cattolico che ha dedicato le sue non comuni capacità  alla preparazione di un gruppo affiatato e sempre più capace di cimentarsi con il teatro vero.

Francesco Cersosimo ha dimostrato di essere un attore di razza. La sua finale orribile e agghiacciante risata ha racchiuso tutta la rabbia, il pianto, la disperazione di un Ciampa impersonato con una maestria pari se non superiore a quella dei più grandi e consumati interpreti del teatro italiano.

La pazzia di Beatrice, Paola Apollaro, proclamata con un urlo liberatorio, ha atterrito la platea.    

Da sottolineare anche la recitazione di Francesco Tarantino, Delegato che sa farsi scudo del verbale per frenare impulsi e sentimenti, di Fifì, Vincenzo Capalbi, gagà squattrinato e  impenitente, e della saccente, pettegola e intrigante Rigattiera, Enza De Franco.  Ben delineate sono state infine le figure di Assunta, Rosy Rinaldi, Fana, Cinzia Apollaro e Nina, Alessandra Maradei.

Il prolungato e intenso applauso a scena aperta ha coronato gli sforzi degli attori, dello scenografo, degli assistenti di scena,  dei costumisti, dell’ elaboratore musicale, dell’addetto alle luci ed infine del Regista, e consacrato lo spettacolo come uno dei più riusciti momenti dell’Agosto 2007.

CARO …BLOG

di Nicola Perrelli                   

Nessuno sa quanti siano esattamente, ma di sicuro i Blog  richiamano sempre più l’interesse degli utenti di internet.

E ce ne accorgiamo…navigando.

Ma cos’è in realtà in blog? E’ un diario in rete dove è possibile scrivere di tutto, dalle esperienze e storie personali alle proprie opinioni. E’ un mezzo per farsi conoscere e trovare nuove relazioni personali, un generatore di nuove mode e community.

Ma non è tutto, un blog, contrazione di “weblog”, può anche diventare un luogo di discussione pubblica su temi di interesse generale o un potente mezzo di informazione quando i media tradizionali sono latitanti, com’è  successo per esempio durante l’ultimo conflitto tra israeliani e libanesi allorquando sono stati proprio i blog della gente del posto a descrivere quello che stava accadendo.

E’ inoltre un mezzo che, offrendo la possibilità ad ogni visitatore di interagire con l’emittente tramite un commento al post (messaggio in rete), può dare vita a nuove forme socializzazione.

I numeri del fenomeno sono impressionanti. Stime sufficientemente attendibili parlano già di almeno 200 milioni di persone nel mondo titolari di un blog e di circa 150mila nuovi siti creati ogni giorno.

Cresce cosi di pari passo anche la “credibilità”  dei blog rispetto alle altre strutture di comunicazione multimediale. Un’inchiesta condotta dell’Università di Trieste ha evidenziato che circa l’ 85% degli intervistati crede “molto” o “abbastanza” ai blog più autorevoli. Perlomeno a quelli di giornalisti, scrittori, professionisti e artisti che si confrontano con i navigatori in rete.

Sempre più numerose sono poi le aziende che aprono blog di comunicazione per sfruttare l’immediatezza del mezzo come efficace strumento di marketing e creare cosi una comunità attorno ai loro marchi.

Aprire un blog è abbastanza facile e se ci si limita ai servizi base, non costa nulla. Occorrono invece dai 30 ai 50 € annui se si vuole ottenere un dominio che risponda a specifiche esigenze e offra servizi di maggiore qualità. E si sale ancora per le soluzioni più complesse e articolate.

Le piattaforme più utilizzate per gestire un blog sono Tiscali, Libero, Blogger, MySpace, Tuoblog,ecc.. Tutte offrono gratis una serie di servizi standard come l’archivio, il contatore di visite, lo sfondo da personalizzare e simili, a condizione però di accogliere nello spazio Web concesso inserzioni pubblicitarie.

Basta  registrarsi e in pochi minuti il sito è pronto.

Il blog può essere pubblico o privato. In quest’ultimo caso lo possono leggere solo gli utenti preventivamente autorizzati.

Comune a tutti i blog è l’ordine di visualizzazione dei messaggi, ordinati dal più nuovo al più vecchio,la gestione storica dell’archivio e l’aggiornamento dello stesso.

Creare un blog è quindi veramente facile. Difficile è invece renderlo visibile e interessante. Il rischio di restare anonimi e finire dispersi tra i milioni di siti improvvisati e poi abbandonati è alto. Occorre pertanto armarsi di buona pazienza e cercare di dire qualcosa di interessante per guadagnarsi nel tempo la fiducia degli altri. In questo caso l’impegno in termini di tempo per tenere aggiornato il blog e rispondere agli eventuali commenti è notevole, ma la costanza e la qualità  pagano.

Il ritorno c’è, non economico - anche se sono già tanti i blogger (titolari di blog)  che tramite il loro sito trattando temi e materie conosciuti hanno trovato lavoro – ma in reputazione, che di questi tempi non è poco.

Resta comunque fondamentale nella società dell’informazione non rinunciare ad utilizzare queste tecnologie, se non altro per far circolare idee, passione ed emozioni.

DE CALLIS

di Francesco Regina

Continueremo in questo numero a trattare delle antiche famiglie mormannesi proseguendo lungo il percorso ideale che dal Castello ci porta sino all’attuale  Piazza.

Sul finire del trecento, principiando la crescita demografica incominciò la costruzione di nuovi palazzi: palazzo De Callis [2] era già completato a metà del quattrocento ed abitato dall’omonima famiglia gentilizia, giuspatrona della Cappella di Sant’Antonio di Padova.

Ne era prova una splendida finestra lapidea a doppia ogiva in stile gotico-durazzesco, datata 1471.

Per le connotazioni artistiche si rimanda a Tribuna Sud n° 1/1991 pagina 6. [3] Si riporta qui soltanto l’iscrizione, che era racchiusa in un nastro intorno al rosone:

 “ ANNO D(omi)NI   NCCCCLXXI + DO(mi)NUS PETRUS DE PESINA F(ieri) FECIT [4] ”.

Nella dizione originale si trova principalmente de Calle, divenuto De Callo, De Callis, Callis, Calli.

Considerato il fatto della sua limitata diffusione e della completa assenza da albi araldici, libri della nobiltà e simili, il cognome è ritenibile autoctono.

Peraltro, l’impossibilità di derivazione da un qualche probabile toponimo [5] sembra avvalorare ancor più la siffatta ipotesi.

La traduzione letterale dal latino di calle con il de anteposto non lascerebbe dubbi sulla provenienza da un sentiero di campagna. [6]

Antecedentemente al progenitore più remoto Messer Decio de Calle, nato nell’anno 1559 [7] e che trasse in moglie Madonna Arina de Giliberti, non si ha ulteriore traccia del cognome meno di un Plinius magistri Porfirii de Calle atque Dominicae filius bapt. in die prima mensis Maji 1550.

D. Tommaso de Callis non solo è da citarsi per essere stato un insigne membro della famiglia ma soprattutto perché il suo nome trova giusta collocazione nel novero degli uomini illustri di questa nostra terra.           

Dottore in utroque [8] , avvocato di gran nome, pubblicò varie allegazioni in jure [9] ed apportò il suo contributo giuridico nelle controversie tra l’Arciprete di Altomonte ed il Priore di Santa Maria della Consolazione [10] .

Come ogni casato che si rispetti, il nostro era tra i più tenuti in considerazione nei salotti gentilizi del circondario, sicché troviamo nell’ottocento il matrimonio tra D. Antonio De Callis senior e D. Maria Francesca Gramazio erede diretta dei Baroni di Firmo, il quale matrimonio, benché ultimo atto di un episodio che volgeva ormai verso il progressivo disfacimento di titoli e privilegi nobiliari, valse a fortificare temporaneamente la posizione della famiglia nel circondario medesimo.

Seguirono, all’altezza della successiva generazione, unioni con le potenti e rinomate famiglie Rovitti e Chidìchimo, che gestivano il controllo del territorio nell’alto ionio cosentino.

Peculiarità singolare da segnalare, forse giammai altrove riscontrata, il fatto di trovare in un arco temporale superiore ai due secoli, unioni matrimoniali con casati tutti non mormannesi: riscontriamo infatti lungo la linea retta che si origina dal 1600 cognomi quali Pellegrino, Grillo, Forzati/o, Corrado/i [11] oltre naturalmente ai già citati Gramazio, Rovitti e Chidichimo.

Di grande stima godette nel secolo trascorso il sindaco Antonio De Callis junior [12] , al quale va attribuito il merito principale della realizzazione di un acquedotto e di una fontana pubblica con abbeveratoio, ma cui principalmente vennero riconosciute a posteriori, contrariamente a tanti miopi mestieranti, spiccate doti di serietà, fattività, concretezza e soprattutto grande lungimiranza; nel caso citato fu infatti incurante della spesa occorrente a fronte degli enormi benefici che ne derivarono a vantaggio dell’intera collettività.

IL CAMMINO DI FRANCESCO
NELLA PIANA DI RIETI  (prima parte)

di Antonio Penzo

Nell’ottobre 2006, un articolo di giornale attrasse la mia curiosità, in quanto comunicava che anche in Italia sussisteva un percorso circolare, della distanza di circa 100 Km, da effettuarsi in quattro giorni ed al cui termine veniva rilasciato un attestato.

Avevo già una certa esperienza del Cammino di Santiago di Compostela e quindi la notizia non la lasciai cadere. Presi informazioni presso l’Azienda di Promozione Turistica di Rieti che mi inondò di materiale e quindi non occorreva altro che aspettare un periodo di tempo di almeno quattro giorni di libertà condizionata dal lavoro.

In luglio di quest’anno, si era venuto a creare questa possibilità e quindi il mercoledì 18 partivo unitamente a quattro amici per Rieti.

Qui giunti ci si recava all’ufficio dell’A.P.T. dove molto cortesemente e con nostra piena soddisfazione ci venne dato del materiale illustrativo ed il “Passaporto del Pellegrino”, dove dovevamo indicare i nostri dati anagrafici e fare apporre il timbro nei quattro santuari francescani che erano meta delle nostre tappe.

Partito alle ore 13,00 sotto un sole cocente, percorro le vie cittadine fino ad arrivare il Ponte Giovanni XXIII dove sulla destra si inizia la strada che porta verso il santuario di Fonte Colombo. Dopo circa un chilometro, incontriamo un supermarket, dove facciamo provvista di bottigliette di acqua, familiarizzando anche con alcune clienti che si informavano del nostro percorso.

Raggiunta la strada provinciale Tancia, arrivo alla località Mecelletto, dove subito dopo il ponte si trova una fonte di acqua fresca, alla quale mi disseto e rinfresco. Riparto e purtroppo si incontra un cartello stradale che indica il percorso del Cammino di Francesco con l’indicazione del santuario di Fonte Colombo e della strada per raggiungerlo; ma questo è un cartello per automobilisti e non per viandanti. Infatti, l’ho imparato più tardi subito dopo la località Macelletto c’è un sentiero che attraverso il bosco porta al santuario, ma il cartello indicatore è posto all’interno della deviazione e quindi non immediatamente visibile.

Faticosamente pervengo al santuario di Fonte Colombo, salendo lungo la strada asfalfata e con il sole a picco. Presso un gruppo di case si trova una fontanella a cui mi rinfresco. Al santuario una fresca fontana, all’interno del complesso e vicino all’ostello dove stanno riposando alcuni pellegrini, si trova una fontana di acqua fresca e piacevole, atta a rinfrescarmi ed a togliermi la sete dopo varie abbondanti bevute.

Nel santuario c’è un gruppo di suore clarisse francesi in meditazione e ciò induce alla preghiera silenziosa. Tutto è pervaso da un silenzio mistico che ti induce a pensare ed a riflettere.

Riempita una bottiglietta di acqua fresca si riparte salendo all’abitato di S. Elia in circa mezz’ora, sempre per strada asfaltata.

Nella piazzetta incontro persone che mi indicano il sentiero da percorrere, non trovando un cartello segnalatore, per raggiungere Piani Poggio Fidoni. Il percorso è molto bello, fra boschi di roverella e visuali della piana reatina e dei monti che la circondano.

Attraverso l’abitato di Piani Poggio Fidoni e le indicazioni mi riportano sulla via Tancia, lungo la quale non scorgo l’indicazione per la Val Canera, che mi permetterebbe di risalire in località Colle Posta. Percorso questa strada asfaltata, arborata da ambo i lati e senza possibilità di seguire uno stradello a lato, ma bensì debbo stare attento ai vari e veloci veicoli che l’affollano. Arrivo quindi all’abitato di Contigliano dal basso, perdendo il percorso che avrebbe attraversato il vecchio bordo e castello posto in alto. Riesco a riprendere, grazie ad alcune indicazioni delle persone del posto il sentiero Onnina e raggiungo la ristrutturata abbazia di San Pastore, dove seguendo un sentiero che più volte attraversa la provinciale e da ultimo percorrendo questa raggiungo l’abitato di Greccio, raggiungendo la locanda, dove una fresca doccia mi toglie il peso della calura pomeridiana, accingendomi al pasto serale ed al riposo.

I locandieri, a fianco della chiesa di S. Michele, mi accolgono con estrema cordialità e pieni di attenzione e a cena sono rimpinzato di pasta fatta in casa, condita in vari modi e con l’aggiunta di un piatto di carne e verdura.

Il paese sta vivendo il momento della rievocazione storica “del Velita”, ma per mia fortuna è una giornata di non celebrazione e quindi si può riposare tranquillamente con la finestra aperta.

La mattina una colazione con dolce casalingo e latte e caffè mi prepara per raggiungere il santuario di Greccio di prima mattina, dove fra Domenico attesta con timbro e firma il mio passaggio. La visita la santuario, ai vari presepi e al vecchio convento con le stanze dei primi francescani, induce alla preghiera ed alla meditazione personale. Poi si scende nella piana, su strada asfaltata e si raggiunge il ponte di Terria dove si supera il fiume Velino in località Colel San Pastore. Prendo la strada a sinistra e si lasciando la strada provinciale e proseguo per Settecamini, da cui, percorrendo l’omonima via, raggiungo il centro visite della Riserva dei laghi Lungo e Ripasottile, ubicato presso il fabbricato delle idrovore. Due cortesi ragazze mi illustrano la vita dei laghi e le attività del centro, donandomi alcune pubblicazioni e un pezzetto di canapa tinta con l’erba “guado” con la quale mi cingono il polso a modo di “antisfiga”.

Dalle stesse apprendo che il sentiero non va verso la fonte di Santa Susanna, ma si dovrebbe andare in direzione Ponte Crispolti, fino ad incrociare la S.P. Ternana, che si percorre in direzione di Rieti; si incrocia la strada provinciale di Ponte Crispolti da percorrere in direzione Poggio Bustone. Contrariamente alle indicazioni del Cammino di Francesco, mi reco alle fonti di Santa Susanna, dove posso ammirare questa fonte da cinque metri cubi al secondo. Da qui per una strada asfaltata ed assolata raggiungo la strada provinciale per Poggio Bustone, l’attraverso e dopo circa un centinaio di metri incontro una strada comunale, la cui carreggiata è delimitata da grandi querce, che la ombreggiano. Il cammino prosegue in leggera salita in direzione di Borgo San Pietro (frazione di Poggio Bustone). Arrivati nel piccolo centro, si transita per pochi metri sulla provinciale del Santuario di Poggio Bustone in direzione Poggio Bustone, per poi continuare il cammino sulla destra, verso la località denominata Bandita. La salita si fa ora più ripida: il paese incombe sopra la testa alla tua sinistra, mentre sulla destra il monte è arborato; peccato che in questo tratto da fonte Santa Susanna fino all’abitato di Poggio Bustone non si incontri alcuna fontanella, dove rinfrescarsi.

Gli ultimi due chilometri vengono percorsi dando fine alla riserva di acqua e nell’abitato di Poggio Bustone si incontra una fontana, che disseta e rinfresca. Alcune persone anziane ed una dottoressa si informano della provenienza e mi danno indicazioni per raggiungere il santuario di San Giacomo di Poggio Bustone, dove arrivo poco prima dell’inizio della S. Messa delle ore 18, per l’apposizione del timbro.

Un gruppo di scout, alcuni in bicicletta e altri a piedi intanto sono arrivati al santuario ed il dopo messa è animato sul sagrato da scambi di notizie.

Si raggiunge la locanda e l’ostello per la solita doccia, cena e riposo.

La mattina dopo una abbondante colazione a base di crostata locale e caffè e latte si raggiunge di nuovo il santuario di San Giacomo, percorrendo le strade interne del paese, quasi tutte a scaletta. Dal santuario si prosegue per l’indicazione del sacro Speco, su strada asfaltata. Da qui per un bellissimo sentiero lastricato, come una capra si sale a serpentina il monte, incontrando prima una deviazione per la croce sul monte poi le sei edicole che rammentano vari momenti del passaggio di San Francesco. In cima, sotto uno strapiombo roccioso vi è la cappellina che racchiude la grotta isolata, dove il Santo pregò.

La prima edicola ricorda il breviario, la cui impronta è ricavata nel sasso, dove il Santo l’appoggiava per pregare.

La seconda fa intravedere la forma del cappuccio della veste del Santo e subito dopo vi è l’impronta del ginocchio che si piegò vedendo l’Angelo.

La terza ricorda il segno del gomito del Santo appoggiato durante la preghiera.

La quarta rammenta la presenza del Diavolo, che in ogni maniera cercava di impedire l’incontro del fraticello con il Signore.

La quinta riporta l’impronta del piede di Francesco, mentre la sesta ha l’impronta dell’Angelo apparso a Francesco  in forma umana.

Tutto il percorso è nel bosco di roverella e lo sguardo si perde sui monti verso il Terminillo.

Subito dopo la sesta edicola, è il Sacro Speco, che è il cuore del francescanesimo.

Una piccola grotta tra due rocce, luogo di preghiera di San Francesco e sella sua piccola comunità francescana.
San Francesco dimorò in questa grotta nell'anno 1209 dove gli apparve l’angelo sotto forma di fanciullo che gli annunziava la Remissione dei peccati e gli fu rivelata l’espansione dell’ordine.
Sotto l'immane massa rocciosa alta circa cento metri, è la suggestiva chiesetta che, con il suo campanile e la sua absidina, racchiude come in un abbraccio la Grotta delle visioni.
Ai tempi del Santo vi era solo la grotta, ma nei primi anni del 1300 vi si costruì anche la chiesetta ed il campanile che intorno al 1600 fu ingrandita fino ad arrivare alla sua attuale forma.

(1. segue)

A WALTER

di Francesco M. T. Tarantino *

Non potevi sussistere in un mondo blasfemo

Tu che illuminavi gli amici col tuo carisma

E portavi valori con il sentimento estremo

Di chi ha avuto l’unzione con un altro crisma

Poco meno di trent’anni e doversene andare

Su un motore sconosciuto a velocità diversa

So che non hai avuto paura di attraversare

Le barriere del tempo e una rinascita inversa

Hai lasciato messaggi di amore e di pace

E possibili sogni da voler navigare davvero

Su un’onda luccicante che ti rende audace

Che riporta il sorriso e svela un nuovo vero

In un aprile nascesti e in un altro andasti via

Forse vedesti un orizzonte nuovo e diverso

Che ti indusse a cercare un’altra scenografia

Armonie e colori inconsueti nel cielo asperso

Era d’altra sostanza la tua anima e il cuore

Un’alchimia di generosità e di lieti passaggi

Di bontà e perdono che non porta rancore

Gesti d’amore che parlano nuovi linguaggi

Dove posso trovarti adesso nobile creatura?

Fra le sponde del cielo al mattino o di sera?

Nelle vene dove scorre la tua linfa che cura

Nella voce sommessa di chi piange e spera

In un ritorno di abbracci e di consolazione

Non ho potuto conoscerti e darti un saluto

E questi versi non sono una giustificazione

Per quelle poche occasioni che ho perduto  

PIGRE RIFLESSIONI D’AGOSTO…

di Francesco Aronne

La percezione del caldo asfissiante di stagione da queste parti la chiamano sésti. Le cicale si profondono in un concerto d’altri tempi che richiama, con invisibili formiche, la indimenticata metafora sull’ozio.

Il tempo qui da sempre scorre lento. Cerco una dimensione piacevole tra il fresco degli ulivi sulla spiaggia di Marmari. Davanti a noi un mare le cui acque calde, di indescrivibile nitore e misteriosi ed inenarrabili cromatismi, ricongiungono l’isola al dirimpettaio lembo di terraferma.

In lontananza, imponenti, i monti dell’Epiro.

Il tempo si muove pigramente alternato tra i bagni e il piacere della difficoltosa ma interessante conversazione con amici di diverse latitudini.

Una babele di linguaggi che ripropongono il flebile proposito di improbabili autunnali studi di lingue straniere.

Un inedito approccio alla bellezza dell’antica e per me purtroppo oscura lingua greca, al suo magico fascino di linfa vitale per disparati e contemporanei idiomi. La nostra attenzione è rapita nel piacevole ascolto dei racconti  di un Ulisse di altra era. Per noi “Il Capitano”, navigante senza tempo partito dal mare d’Egitto e sbarcato su queste sponde provenendo dalle lontane e distanti americhe.

I parallelismi pindarici, nelle pause di una sua decisiva e crepuscolare battaglia, fanno rivivere antichi filosofi, architetti greci ed egizi, mitologiche e reali battaglie tra greci e persiani, il mito di Atlantide nel Krizia di Platone, lingue remote e radici culturali comuni dei popoli di questo antico mare. Come forse un tempo (immagino) sulle spiagge di Siracusa o di Crotone.

L’idrovolante che collega l’isola a Kerkyra lascia scivolare il suo rombo sulle nostre teste. Barche a vele spiegate condividono il panorama con grandi navi che trasbordano genti e mezzi tra sponde distanti, e veloci natanti che con le loro turbinose eliche lasciano graffianti scie su queste acque.

Anche qui lo stridio tra la potente ed inquinante violenza dei motori e la piacevolezza dell’andare lento ripropone un conflitto i cui peculiari aspetti risiedono tutti nella modernità.

E tra una digressione e l’altra, in questa leggerezza di pensieri estivi, mi ritorna in mente il Pirandello dei “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” : lo stridente contrasto tra la velocità di un automobile e il lento moto soavemente umano di una carrozzella che avanza “pian piano, col trotterello stracco, uguale, del suo cavalluccio sfiancato.  E tutto il viale par che rivenga avanti pian piano, con essa.  Avete inventato le macchine?  E ora godetevi questa e consimili sensazioni di leggiadra vertigine.”.

Ed erano già lontane le colonne de "Le Figaro" del 20 febbraio 1909 da cui Marinetti tuonava “Il manifesto del Futurismo”.  Sembrano ancora rimbombare in alcune recenti pubblicità di auto e motoveicoli, o nei commenti di cronisti sportivi, mirabilmente camuffate agli occhi di un sempre temuto, ma dissolto ed inesistente censore, le parole di quel Manifesto: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità…. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita…. Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente”.

Velocità o lentezza? A leggere i giornali dopo l’ecatombe dell’esodo passato nessun dubbio… Spade e mannaie roteanti contro le cause che riducono seducenti gingilli tecnologici in contorti agglomerati di lamiere grondanti sangue. Vite spezzate nella violenza di urti fatali. E l’indice accusatore rivolto proprio verso la velocità causa prima del ciclico massacro. Motori sempre più potenti riducono le distanze stabilendo nuovi record.

Limiti di velocità e fantascientifici (ed inaffidabili) sistemi di reprimente controllo applaudono sbalorditi alle performance di nuovi missili sfreccianti sulle strade. Potrà mai nessuno spiegarci il folle senso di tutto ciò?

E pur se distante, per un attimo, un pensiero corsaro sul tema mi riporta al pio borgo. Per un attimo mi sobbalza alla mente un tardivo tentativo dell’amministrazione disciolta nelle limacciose acque elettorali, di creare, poco prima della dipartita, su alcuni tratti pericolosi delle traverse interne, dei rudimentali (o incompleti) dissuasori di velocità. Tardivo tentativo che probabilmente neanche valutato nel suo proposito è stato prontamente rimosso dai nuovi avventori della sede municipale. Al loro posto sono state messe insignificanti bandelle che solleticano il conducente in una poco dissuadente, tutt’al più fastidiosa  vibrazione.

E’ inoltre a tutti noto che la traversa interna del pio borgo spesso è ridotta dalla luce lunare (o dalla sua assenza) a kartodromo, dove spesso sgangherati ed improvvisati bolidi, quando non più recenti e potenti automobili, sfrecciano a velocità pericolosa, con il rischio aggravato nel tratto senza bitume. Qualche incidente c’è già stato e solo per puro caso non ha avuto tragiche conseguenze. Non può bastare un segnale di strada sdrucciolevole…

Velocità o lentezza? Quale sarà la risposta e quanto efficace saprà essere ce lo dirà il futuro (speriamo immediato)… Speriamo che alla velocità nel togliere i dissuasori non si associ la lentezza nell’adottare efficaci ed estese misure sull’intero tratto urbano di limitazione della velocità dei veicoli in transito, nel rispetto di chi cammina a piedi, anche e non solo di giorno.



[1] Vernacolo fiorentino. Sta per carino, bellino, grazioso

[2] L’aspetto primitivo è chiaramente ed inevitabilmente rimaneggiato; i frazionamenti vari e le vendite parziali non hanno tuttavia inficiato la visibile contiguità ideale della maestosa struttura originaria.

[3] Copia originale dell’articolo è conservata presso l’archivio privato dello scrivente.

[4] Pietro de Pesina (o forse de Regina) realizzò l’opera nell’anno del Signore 1471.

[5] Non esiste difatti una città chiamata Calle o comunque in maniera simile da poter stabilire una motivata correlazione.

[6] Da un sentiero oppure dal sentiero, con riferimento ad un ben determinato percorso, evidentemente l’unico collegamento allora esistente con il soprastante nucleo originario.

[7] Figlio di messere Biagio e di una tale nomata Beatrix. (Ex arch. parrocchiale, atti di battesimo)

[8] Si intende nell’una e nell’altra disciplina, ossia oltre ad esser stato teologo fu laureato in diritto canonico e civile. Questa seconda aggiunta garantiva al reverendo la famosa berretta cosiddetta a quattro pìzzoli,ossia con uno spicchio in più rispetto al normale tricorno caratteristico del semplice prete.

[9] Presso la Signatura Iustitiae, Roma Typos Mainardi 1736, presso la S.S. Congregazione del Concilio, Coram P. D. Cavalchino Secretario, pro Rmo Clero oppidi Mormanni contra Revm Dm Januarium Fortunatum Episcopum Cassanen

[10] Cfr. Padre Francesco Russo Storia della Diocesi di Cassano all’Ionio,  vol. II pgg. 432-433

[11] Questo cognome deriva dal nome medioevale Curradus molto diffuso nel tardo medioevo, nome che si è poi modificato in Corrado. Tracce di questa cognomizzazione si trovano nel 1200 nel cuneese dove i Corradenghi esercitano potestà feudale sul territorio di Monforte d'Alba (CN) e a Reggio Emilia nel 1500 con un certo Sebastiano Corrado precettore di lettere greche e latine. ---------------------------                                                                                                                    
Corradi viene invece dal personale germanico Konrad/Conrad composto da althochdeutsch kuoni = ardito (ted. kühn) + althochdeutsch rat = consiglio (ted. Rat), latinizzatosi in Conradus, Corradus, nome tra i preferiti nel medioevo con il significato di ardito consigliere. (Cfr. Giovanni Vezzelli: Cognomi romagnoli di origine barbarico - germanica, Il Sodalizio, Rimini, 1988)

Questa famiglia, nel circoscritto ambito locale, s’imparentò anche con la nobile ed antica famiglia mormannese Rossi.

[12] Costui era figlio del Sig. D. Domenico de Callis al quale risulta intitolata la strada ove trovasi il palazzo citato.

 

FARONOTIZIE.IT  - Anno II - n° 17,  Settembre 2007

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