FARONOTIZIE.IT - Anno II - n° 16, Agosto 2007
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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi
'O GALLO 'NCOPPA A MUNNEZZA
Editoriale del Direttore, Giorgio Rinaldi
Questo l'epiteto con il quale a Napoli il famigerato comandante Achille Lauro indicava Almirante, l'allora capo dei neofascisti del M.S.I.
Era il massimo dell'esecrazione per chi esibiva il suo status di capo di un esercito senza valore, fatto di immondizia, appunto.
A distanza di 40 anni, la celebre battuta di quel sindaco napoletano, armatore della omonima flotta navale, che si permetteva il lusso di percorrere con l'auto la centrale via Roma a Napoli in senso vietato, e che durante la campagna elettorale regalava ai napoletani dei vicoli, dei quartieri, dei bassi la scarpa sinistra, con la promessa che se fosse stato rieletto sindaco avrebbe aggiunto anche la scarpa destra, ritorna prepotente ad indicare altre paradossali quanto tragiche realtà.
Parliamo dell'immondizia.
Televisioni e giornali ci fanno vedere, da anni, cumuli smisurati di rifiuti, ad ogni angolo.
Poi manifestazioni, ribellioni di popolazioni che non vogliono le discariche sull'uscio di casa.
Più in là, centinaia di netturbini che hanno come unica occupazione quella di presentarsi in ufficio, timbrare il cartellino e tirare dalla tasca un mazzo di carte con il quale passare il tempo sino alla fine del turno di lavoro.
Su tutto sovrasta la camorra, che nei rifiuti ha trovato un portentoso modo di far soldi, a palate.
E così, la camorra ha riempito,
letteralmente,
Possibile, però, che la delinquenza organizzata si sia accontentata solo di fare affari esclusivamente con balle di rifiuti solidi urbani?
E i rifiuti tossici, quelli radioattivi -seppur impoveriti-, quelli chimici, quelli ad altissima pericolosità inquinante, dove sono finiti?
Dove sono stati messi?
Quei rifiuti che inquineranno per secoli le falde acquifere, i terreni, le piante, i fiumi, il mare, di cui si nutrono gli animali -e di conseguenza gli umani- dove sono stati portati?
Le industrie del nord Italia -e non solo-, i rifiuti pericolosi che hanno prodotto (e che producono) a qualcuno dovranno pure averli consegnati.
Li hanno smaltiti legalmente o hanno stipulato un patto scellerato e criminale con la delinquenza organizzata, indigena ed internazionale che sia?
Oggi vediamo le allarmanti immagini (finite sui network di tutto il mondo e che hanno provocato da ultimo anche l'intervento dell'Unione Europea) di una Regione sommersa dai rifiuti e leggiamo le preoccupanti statistiche di aumento esponenziale di terribili malattie, il più delle volte mortali, che colpiscono uomini e bestie in quelle aree.
E, chi in combutta con camorristi, ‘ndranghetisti e mafiosi, ha compiuto uno dei più gravi crimini a danno dell'umanità, inquinando inesorabilmente per migliaia e migliaia di anni interi pezzi del nostro pianeta, oggi partecipa al coro di quelli che se la prendono con le popolazioni campane che si rifiutano di pagare colpe altrui.
Ovviamente, le responsabilità
politiche, locali e nazionali, sono di proporzioni bibliche: ridurre
Chi doveva fare delle scelte sui sistemi di smaltimento non le ha fatte.
Chi doveva controllare non ha controllato.
Chi doveva governare non ha governato.
Non ci sono scuse per nessuno.
Lo scempio è davanti agli occhi di tutti e parla da solo!!!
Non vi sono leggi che regolano "l'impacchettamento", sicché per rendere al consumatore maggiormente "appetibile", che so, una cuffietta per ascoltare musica, si predispone una confezione che potrebbe contenerne cinquanta!
Manca, poi, una traccia sicura sul percorso dei rifiuti, e così l 'impunità la fa da padrone.
Non c'è chiarezza sui costi-benefici della raccolta differenziata dei rifiuti.
Sui termovalorizzatori ancora si discute: quando si chiamavano più prosaicamente inceneritori si gridava all'inquinamento dalla diossina che veniva prodotta, oggi mutato il nome, h mutato anche il pericolo?
All'estero, come faranno?
Qualcuno si sarà informato come smaltiscono i rifiuti in Germania, in Svezia, in Francia?
Qualcuno avrà detto ai cittadini della Campania che il problema della rimozione dei rifiuti dalle strade non si risolverà in venti giorni, perché è destinato a perpetuarsi fintanto che non saranno trovate idonee soluzioni di smaltimento, gli spazzini non faranno il lavoro per il quale vengono pagati e tanti politici, dirigenti ed esperti del settore non saranno mandati a zappare la terra?
Qualcuno vorrà dirci, prove alla mano, s'intende!, se possiamo ancora mangiare una mozzarella di bufala senza diventare dei termometri umani a causa del mercurio che potremmo ingurgitare con il prelibato alimento?
Preoccupazioni e domande legittime, specialmente da quando i galli sono stati sostituiti dai vermi.
QUANDO IL VIAGGIO ERA NO COST
Raffaele Miraglia
Negli anni ’70 del secolo scorso in Italia nessuno parlava di viaggi low cost.
Esisteva, però, il viaggio no cost.
Iniziava, in genere, appena fuori della tua città o paese.
Sceglievi un posto trafficato e un tratto di strada dove una macchina o un camion avrebbero facilmente accostato. Ti piazzavi al margine e tendevi il braccio con il pollice alzato e il resto del pugno chiuso. Facevi l’autostop.
Dai sedici ai vent’anni ho girato l’Italia e l’Europa così.
Sapevi quando partivi, ma non quando arrivavi, così, se avevi mete lontane, portavi con te un sacco a pelo nello zaino.
Eravamo
in molti a fare l’autostop, ci si scambiava consigli, si condividevano tratti
di strada, si scherzava su qualche buffo episodio che capitava durante il
viaggio, si parlava di esperienze e idee. D’estate alle barriere nelle autostrade
vedevi frotte di ragazzi e ragazze, magari con in mano un foglio con su scritta
Il problema era viaggiare di sabato e domenica, quando i camion erano fermi e nessuno si muoveva in auto da solo per lavoro. Ti poteva capitare, però, un colpo di fortuna.
Tornavo proprio da Parigi e nella tarda mattinata di una domenica di settembre ero all’imbocco dell’autostrada a Torino. Il mio pollice destro da più di un’ora tentava di attrarre un’auto. Incredibilmente si ferma una BMW con targa tedesca. Il guidatore scende e apre il cofano per il mio zaino. Parla italiano e addirittura sta andando a Padova. Prima di offrirmi il pranzo, mi dice che anche lui – dimostra trent’anni – ha viaggiato molto in autostop.
Più spesso l’automobilista che ti dava un passaggio manifestava una certa diffidenza. I più, per la verità, si inventavano un mucchio di scuse per non prenderti a bordo. Il ricordo più divertente lo colloco nell’area di servizio Cantagallo, vicino a Bologna. Eravamo in molti a fare l’autostop e perlopiù andavamo ad Umbria Jazz. Chiedevamo il passaggio alle auto ferme al distributore e quasi tutti affermavano di essere diretti all’uscita successiva. Uno di noi si informò da un benzinaio quale fosse questa benedetta uscita.
Da quel momento tutti iniziammo a chiedere un passaggio per Sasso Marconi e gli automobilisti ci rispondevano che non potevano, perché uscivano alla prima!
I più disponibili erano i camionisti, che così potevano spezzare la monotonia del lavoro. Ricordo bene quel contadino siciliano che mi caricò sul raccordo anulare. Non era riuscito a vendere a Roma i meloni che trasportava sul suo camion. Rientrava a casa, ma prima si sarebbe fermato al mercato di Nocera Inferiore per vendere lì il suo prodotto. Avevo un passaggio sino a Lauria, la mia quasi meta, e così salii volentieri sul camion, anche se saremmo rimasti fermi un po’. Arrivammo al mercato ad ora di pranzo e, mentre i facchini scaricavano, andammo a mangiare in una trattoria che stava lì di fronte. Attesi che il contadino-camionista terminasse i suoi affari e poi risalii sul camion per la seconda parte del viaggio. Lungo la strada che usciva dalla cittadina molte donne stavano sedute su una sedia posta affianco all’entrata della casa. Il contadino-autista mi disse che avrebbe fatto un’altra sosta e mi chiese se ero interessato. Appreso che non lo ero, il mio autista parcheggiò, mi fece scendere dal camion e mi chiese di attenderlo. Mentre attraversava la strada mi accesi una sigaretta. Non riuscii a finirla che lui era già, soddisfatto, di ritorno.
Ovviamente il viaggio no cost, pur essendo ampiamente praticato, era visto come qualcosa di particolare, l’On the road di Keruac. Al punto che poteva meritarsi uno spazio per un articolo di colore nel giornale locale.
Io, al ritorno di un viaggio, trovai poggiato in bella vista sul mio letto il ritaglio di un articolo pubblicato nelle cronaca pordenonese de il Piccolo il 14 luglio 1978.
Ecco il titolo e le prime righe.
Posso assicurarvi che le cose non andarono così. Il giornalista mi aveva intervistato e io gli avevo detto che sarei partito nel primo pomeriggio, in autostop. Non mi ero certo portato dietro lo zaino. Lui infiorettò la notizia e creò il caso.
ALBERTO PICCININI, PERDERE L’AMORE, PENDRAGON 2007
di Giuliano Berti Arnoaldi Veli
C’è stato, quest’anno, nel trentennale, un fiorire di libri sul ’77.
In uno di questi Enrico Franceschini, giornalista di successo che faceva legge a Bologna in quegli anni, fa parlare quelli che furono i suoi compagni all’università e nel collettivo politico-giuridico in quell’anno; e si può giocare a individuare (non è difficile, anche se qualcuno si nasconde dietro trasparenti soprannomi) quelli che sono poi diventati nostri colleghi, con cui ci incontriamo quotidianamente in tribunale.
Anche Alberto Piccinini ha scritto un libro, quest’anno (ne aveva scritto un altro, nel 1995, che si chiamava Il futuro di Giulia). In copertina c’è una foto bellissima, in bianco e nero, probabilmente risalente proprio a una trentina di anni fa. E’ l’immagine di due ragazzi, di spalle, che camminano abbracciati procedendo in mezzo ad un viale alberato. L’asfalto è bagnato, ma non piove più. E’ freddo. Lui ha un impermeabile chiaro, senza cintura, con il colletto tirato su: uno spolverino, si diceva. Lei ha una giacca di lana a disegni colorati, e i guanti di lana. Hanno tutti e due i capelli lunghi. Portano entrambi scarpe da tennis, o forse Clarks, e procedono appaiati, sollevando contemporaneamente lo stesso piede, come avviene quando si cammina allo stesso passo: tanto che il vero centro della foto sono le due suole simultaneamente sollevate dal terreno.
La foto farebbe pensare che il libro si iscriva nel filone (auto)celebrativo del trentennale del ’77: con cui certamente il libro ha qualche assonanza (suggerita anche dalla quarto di copertina, non casualmente dettata proprio da Enrico Franceschini).
Ma già il titolo del libro ci porta altrove: e con la citazione di una canzonetta di successo (che fu prima a hit parade nella primavera del 1988, e rimase in classifica per sedici settimane) esorcizza il rischio tipico di ogni scritto autobiografico, che è poi quello di prendersi troppo sul serio.
Il libro di Alberto Piccinini infatti è una raccolta di racconti non legati dal filo conduttore della memoria, e nemmeno da una particolare continuità di genere. L’autore ha raccontato, in occasione della presentazione del libro, che il suo manoscritto era stato respinto da un altro editore, proprio per la ragione della discontinuità dei racconti.
In effetti, i racconti sono davvero diversi. Alcuni sono molto brevi, e si risolvono in una trovata inattesa. Altri sono brevi quadretti che prendono spunto dalla osservazione della vita reale: potrebbero essere la trama di un cortometraggio. Alcuni ancora sono surreali, quasi un ricordo di quella serie televisiva che si chiamava “Ai confini della realtà”. Altri, infine, e sono i nostri preferiti, sono racconti più estesi, ruotano attorno ad un sentimento dietro al quale stanno persone totalmente vere, alle cui vicende umane non si può non partecipare.
Gli spunti sono i più vari. C’è un racconto, brevissimo, che indaga sulla complicità che può crearsi fra un avvocato e un giudice attraverso il semplice scambio di atti del proprio lavoro (l’amore in differita). C’è un altro racconto, umoristico, sui rapporti fondati sulla infedeltà (l’amore del fedifrago). C’è un raccontino, breve e struggente sull’amore, sovraumano, che nulla chiede (l’amore dipendenza). Ci sono un paio di racconti che hanno la suggestione della fantascienza (il noto e l’ignoto).
Ma poi, ci sono le storie che, dicevamo, sono proprio vere. C’è la storia di Casilde, burbera tata di campagna che passa tutta la sua vita per la famiglia che si è scelta, che è un personaggio alla Flaubert. C’è una storia – vero e proprio apologo – dell’amore coniugale della generazione che ha “fatto la guerra”, cioè della generazione precedente a quella dell’autore. Qui la descrizione dei due coniugi che hanno costruito quasi tutto dal nulla, mantenendo all’interno della coppia una distanza che è convenzione, rispetto, buon senso forse, pudore dei sentimenti ma anche scarsità di comunicazione interpersonale, è totalmente vera e reale. Alberto la descrive con occhio affettuoso, attento e partecipe, e ci sembra che stia parlando proprio di un mondo come l’abbiamo visto anche noi, quando eravamo più giovani.
C’è, infine, il racconto più lungo, sull’amore perduto, nel quale Alberto descrive, con una immedesimazione davvero non comune ed emozionante, il percorso doloroso della separazione di una coppia vista sia attraverso gli occhi del marito che ha deciso di lasciare la moglie, sia attraverso gli occhi addolorati ma non rassegnati di lei. E’ un racconto che prende e lascia attoniti, con un sentimento di irrimediabilità come ci era accaduto di provare leggendo I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante.
E’ questo il racconto finale, e verrebbe fatto di pensare che sia questa la fine del cammino di quei ragazzi che camminavano abbracciati sulla copertina del libro. Ma forse non è proprio così.
Quello che accomuna tutti i racconti del libro – a dispetto del titolo – non è solo la perdita dell’amore, di una comunione, di una fede o di una speranza: ma è soltanto la constatazione che c’è (quasi) sempre una svolta impensata. Ma dopo la svolta, il cammino delle persone continua ancora, con una identità rinnovata, con la consapevolezza (faticosa, ma preziosa) data dal sapere di avere avuto una fede e di averne visto lo scacco; in una direzione diversa. Chissà, forse è andata così anche ai due ragazzi della copertina.
ADDIO MIA NINFA !
di Luigi Paternostro
Addio mia dolce e sognante fanciulla! Dove sei? Sfregiata, incompresa, derisa. Soprammobile di superbi e vuoti adoratori di Creso, piangi ricordando la pace e la serenità della romita chiesetta della Madonna della Catena? Io ti penso, o mia Ninfa, con affetto per aver riscaldato il mio cuore per lunghissimo tempo con il tuo messaggio d’amore [1] .
Riscriviamo il testo:
Iam fueram Meroe sed mater sedula fecit me acilla Tetidis cernis ut hoc lapide sP fuit nobis S sP destaliisque puellis: cosule romanas sic mihi credideris.
Analisi del brano.
Acilla sta per ancillam, cosule per consule. Le lettere M ed N sono sostituite dal tratto posto sulle vocali che le precedono. Destaliisque va letto, come meglio vedremo più avanti, vestaliisque.
Meroe è un’antica città della Nubia le cui monumentali rovine si trovano sulla riva est del Nilo, tra la quarta e la sesta cataratta.
La prima menzione di Meroe ricorre in Erodoto (Storia libro II, 29), come città ricca di palazzi e di piramidi funerarie reali.
Nel I secolo d. Cristo il potere reale risulta essere stato assunto anche da donne chiamate col titolo aulico di candace come ricorda Stradone, (Geografia, XVII, 1, 54), Plinio, (Naturalis Historia, VI, 35,8,), e Atti degli Apostoli (VIII, 27; “ et ecce vir Aethiops, eunucus, potens Candacis, reginae Aethiopum qui…”
Nella memoria dei contemporanei il ricordo di Meroe perdura quale estremo limite antonomastico a sud del mondo allora conosciuto (Anthologia Palatina, V, 301).
L’incisione considerata era, ripeto, su di un’acquasantiera.
Ebbene. Si deve costruire un’acquasantiera usando una pietra adatta. La stessa pietra racconta la sua vicenda.
Seguiamola ricostruento il brano da iam a lapide.
“Iam fueram Meroe, sed mater sedula, ut cernis hoc lapide, fecit me ancillam Tetidis”. E’ molto bello. Traduciamo. Sono venuta da lontano (cioè sono venuta da Meroe; letteralmente: vengo, se vuoi saperlo, dall’estremo limite del mondo; sono quindi una pietra particolare, che pur essendo nata e vissuta altrove, si ritiene fortunata di essere stata così utilizzata o comunque utilizzata), ma la buona madre (la sorte, la fortuna, altre circostanze), mi fece diventare ancella di Tetide, cioè divenni acquasantiera posta al servizio della dea dell’acqua.
E’ felice, a ragione. Le poteva capitare un altro destino e finire i suoi giorni nel buio di un muro o sotto la nera terra, che, anziché madre buona e generosa, sedula, sarebbe stata una ingrata matrigna.
Esaminiamo il brano dal rigo ottavo al decimo.
“ Fuit nobis destaliisque puellis”. Cioè: nobis fuit ut destaliis et puellis, o anche: nobis fuit ut que destaliis puellis. Sarebbe: a noi accadde ciò che accadde ai destaliis (per ora non traduciamo questo dativo plurale che concorda con puellis retto da fuit che regge anche nobis) e alle fanciulle; o ancora meglio: a noi accadde ciò che accadde alle fanciulle destaliis.
In questo argomentare l’intoppo evidentemente è nella parola DESTALIIS. Vediamo.
1. destaliis è un aggettivo riferito a puellis;
2. destaliis è un dativo plurale il cui nominativo dovrebbe essere destalius.
Destalius non esite. Allora ammettiamo
che il nominativo fosse VESTALIA, AE o anche, al plurale, VESTALIAE, ARUM,
come forme mediate da vesta o vestalis, tardo latino, che al dativo plurale
farebbero appunto vestaliis trascritto intenzionalmente destaliis
forse perché non si è creduto di usare
Destaliis dunque per vestaliis, ed uso dentale al posto della labio-dentale.
Se così fosse, una prima traduzione ci porterebbe:
“ Nobis fuit ut (fuit) ut que vestaliis puellis cioè: a noi accadde come (accadde) alle fanciulle vestali.
Meglio: a me pietra accadde di dover servire come facevano le vestali.
Dover servire, essere cioè ancella della dea Tetide con le stesse prerogative e funzioni delle vestali nei confronti della dea Vesta.
Quanto si dice poggia sul concetto intrinseco della parola “ancella” che è quella persona dedicata anima e corpo alla sua “domina”, cioè alla padrona.Diciamo ora che destaliis non è vestaliis.
1.
2.
Consideriamo che non è stata presa in esame
3.
Il segno sP chiamato ora in causa, è riportato per ben due volte nel
testo. Di che cosa si tratta? E’ veramente una esse o un
pi ? Potrebbe anche trattarsi di lettere scritte per errore
o come iniziali di una parola che si voleva impiegare e poi rimasta nel calamo?
Trascurando la esse e notando come intenzionale
a. nobis fuit ut P D est aliisque puellis e cioè: a noi accadde anche P D (intraducibile!) è alle altre fanciulle. Non si capisce cosa attribuisce est alle altre fanciulle;
b. nobis fuit u P De Staliisque puellis e cioè: a noi accadde P intorno (de = complemento di argomnento) a stalisque (intraducibile) e alle fanciulle;
c. nobis fuit ut P Des Taliisque puellis e cioè: a non accadde anche P dia (des congiuntivo di do, das, dare) taliis (intraducibile; vi sono infatti talea, talis, e talus i cui dativi sono rospettivamente: taleis, talibus, e talis) e alle fanciulle;
d. nobis fuit ut P dest aliisque puellis e cioè: a noi accadde come P dest (intraducibile) a alle altre fanciulle (in questo contesto è chiaro solo alius, a,ud, cioè altro);
e. proviamo ora a mettere tra P e Destaliis un vocale: avremo: P a destaliis, P e destaliis, ecc. Leggiamo: padest aliis; pedest aliis, podest aliis ecc. E siamo caduti in un folto ginepraio;
f. introduciamo tra P e destaliis alcune sillabe, ad esempio ro. Avremmo: prodest aliisque puellis, giova ad altre fanciulle.
A questo punto, una conclusione: propendo per DESTALIIS letto come VESTALIIS.
La traduzione allora è questa:
A me accadde quello che (capitò) alle fanciulle vestali.
Passiamo ora all’ultima frase. Le parole sono già tutte in ordine e note: cosule romanas, sic mihi credideris: consulta le romane e così ti fiderai di me.
Cosule, come già detto, è consule, imperativo del verbo consulo, is, consulti, consultum, consumere, che significa letteralmente consultare.
Cosule romanas: chiedilo alle romane, a quelle fanciulle prima anonime ed oscure, che diventavano poi, per sorte, ancelle delle dee.
Rimettiamo ora insieme tutto il testo che a me piace così interpretare:
Iam fueram Meroe |
Per molto tempo fui semplice ad anonima pietra |
sed mater sedula |
ma la buona sorte |
cernisut hoc lapide |
e lo vedi con i tuoi occhi |
fecit me acilla Tetidis |
volle che fossi posta al servizio della divinità. |
fuitut nobis |
Quanto è accaduto a me |
destaliisque puellis |
accadeva un tempo anche alle fanciulle |
cosule romanas |
romane. Chiediglielo pure, |
sic mihi credideris |
alla fine mi crederai. |
Vi sembrano irrisolti i misteri di destaliis e di sP?
Ben venga da altri studiosi un’ interpretazione diversa.
Torniamo all’acquasantiera. Si trovava nella Cappella della Madonna della Catena di Mormanno ed era posta all’interno subito entrando. Aveva la forma di parallelepipedo di marmo incassato in apposita nicchia. Superiormente una piccola conca a forma di bacinella conteneva l’acqua santa che attraverso un foro praticato nel corpo del manufatto fuoriusciva dalla bocca di un mascherone sulla quale era infisso in rubinetto di ottone con valvola girevole. L’acqua erogata finiva poi un una vaschetta collegata all’esterno per mezzo di un condotto di rame che attraversava tutto lo spessore del muro.
L’iscrizione, oggetto del presente studio, era incisa a rilievo nella parte frontale sinistra e contenuta in un rotolo anch’esso scolpito
Sulla destra del mascherone, in un apposito spazio, in uno stemma stilizzato, era scalpellato un indefinito animale rampante e sotto di esso erano impressi i segni F ° S ° 8 ° 0.
Il nome abbreviato dell’incisore? Il nome dell’autore dell’iscrizione? La data dell’opera? Non so.
Torniamo all’iscrizione per qualche altra curiosità.
Tutto il testo è composto da 14 righe. I segni, lettere singole o altri come i trattini, sono: 3 al 14° rigo; 7 al 13°; 10 al 12° e 8° rigo; 11 all’11°, 10° e 6° rigo ; 12 al 9° e 5° rigo; 9 al 7°, 4°, 2° e 1° rigo; 8 al 3° rigo. Il segno sP è stato considerato come due lettere.
Numero del rigo |
Testo |
Numero delle lettere e dei segni usati |
1 |
I A M F V E R A M |
9 |
2 |
M E R O E S E D - |
9 |
3 |
M A T E R S E D V |
8 |
4 |
L A F E C IT M E |
9 |
5 |
 C I L L  T E T I |
12 |
6 |
D I S C E R N I S V T |
11 |
7 |
H O C L A P I D E |
9 |
8 |
sP F V I T N O B I |
10 |
9 |
S sP D E S T A L I I S |
12 |
10 |
Q V E P V E L L I S : |
11 |
11 |
C Ô S V L E R O M A |
11 |
12 |
N A S S I C M I H I |
10 |
13 |
C R E D I D E |
7 |
14 |
R I S |
3 |
Ancora una riflessione. Il blocco di marmo non è mormannese: fueram Meroe!!! Mormanno ha cave di piperno o tufo. Indagini per l’origine? E’ stato inciso sul posto o portato successivamente a Mormanno? Autore del testo ed incisore sono la stessa persona?
Secondo me no: n on è possibile che un testo così bello stilisticamente e di approfondita e specializzata erudizione possa contenere gli “errori” rilevati che certamente l’autore avrebbe evitato.
E’ stato portato a Mormanno? Si. L’acquasantiera, come tutti i prodotti industriali di oggi, è un pezzo ben definito tra tanti simili e quindi pronto all’uso. Gli errori rilevati hanno fatto si che fosse destinato ad un tempio minore? Fu il suo prezzo inferiore ad altri ?
La mancanza di dati mi fa astenere di proporre altre soluzioni e indagini.
Nel chiedere scusa al benevolo lettore per le digressioni, confermo di aver amato la mia ninfa, come ormai mi piace chiamare l’acquasantiera e di averne pianto la scomparsa che ha significato il depauperamento di quelle poche cose [2] che Mormanno conserva.
SULLE TRACCE DI HENRY MORGAN
di Paola Cerana
E’ l’ora della siesta. Cullata dall’amaca guardo l’oceano e ascolto il rifrangersi delle onde sul reef che accompagna una carezza di azzurri, verdi e blu fin sulla spiaggia.
Mi trovo a Roatan, a cinquantasei chilometri al largo della costa dell’Honduras, una piccola isola che appartiene all’arcipelago della Bahia, prolungamento naturale della barriera corallina del Belize. Insieme a Utila e Guanaja è la maggiore delle isole della Bahia, la più popolata e anche la più tecnologicamente avanzata, tanto che vanta addirittura qualche strada asfaltata, particolare che quasi stona in tanta selvaggia natura. Tutto attorno altri sessantacinque atolli, tra cui i Cayos Cochinos, coronano l’arcipelago e pare quasi siano lì a proteggere un incanto in gran parte ancora vergine.
Affascinata da tanta bellezza mi rendo conto del perché un pirata della portata di Henry Morgan avesse scelto proprio queste terre come quartier generale delle sue prodezze. L’intraprendente giovane arrivò dal Galles nel 1655 circa come manovale di contratto, ovvero come schiavo bianco ma grazie alle sue intrepide imprese divenne ben presto bucaniere e in seguito corsaro, fino ad essere nominato Governatore di Giamaica. Insomma, una carriera degna di merito e ancora oggi si parla di lui come il leggendario Re dei Pirati.
Gli abitanti di Roatan, gli islenos, hanno voluto dedicare proprio ai pirati la capitale dell’isola, battezzandola Coxen Hole, da Coxen, altro famoso brigante dei mari, anche se il centro commerciale e vitale resta West End, col suo susseguirsi di negozi di souvenirs, ristoranti, pulperias, spesso costruiti su palafitte di legno bagnate dalle onde. Pare che i pirati abbiano tenuto qui a lungo le loro basi e ancora oggi si narra di tesori sommersi che il mare tuttora custodisce e che il fato, o meglio la suerte, potrebbe un giorno decidere di restituire a qualche fortunato. L’ultima cassa piena d’oro è stata rinvenuta alla fine degli anni ’50, da allora più nulla ma la leggenda vuole che il più ricco tesoro di Henry Morgan sia ancora nascosto qui e non necessariamente negli abissi.
Mi guardo attorno e penso che fortunatamente siano davvero pochi a conoscere o a credere a questa leggenda, perché quest’isola gode del privilegio di non essere ancora infestata dai turisti (al contrario dei mosquitos purtroppo). Gli stessi islenos vivono pigramente, incuranti di ricchezze da scoprire e forse proprio per questo motivo sempre gentili e sorridenti, nonostante spesso manchi l’acqua potabile o l’energia elettrica, paiono sempre invidiabilmente sereni. Gli abitanti di Roatan discendono dai Garifuna, tribù originaria di Saint Vincent, nata da una mescolanza non sempre pacifica tra neri africani e caribi. Il popolo dei Garifuna nel 1797 viene in parte deportato dagli Inglesi a Roatan e ancora oggi convivono sull’isola aspetti culturali e linguistici tipici dei Caraibi britannici assieme a quelli più marcatamente ispanici. E’ così che spesso gli islenos comunicano tra loro in una sorta di spanglish assolutamente incomprensibile ai turisti. Anche i tratti somatici rivelano questa dualità e all’esuberanza della pelle nera e di una corporatura forte e atletica si contrappone la dolcezza mulatta e mite tipica della sensualità latina.
A questo mix culturale fa da scenario un panorama naturale altrettanto ricco di contrasti, un concentrato di colori e profumi davvero unico. Eccolo, io penso, questo è il vero tesoro di Roatan. Non oro e preziosi nascosti negli abissi o seppelliti sulle montagne, bensì una natura prepotente, mozzafiato, esuberante come i pirati che ha ospitato. Sulle spiagge si alternano palme da cocco e pini marittimi che affondano le radici fin quasi nel mare, lasciando qua e là respiro a rigogliose piante di papaya. Anche l’interno dell’isola è un groviglio fitto di vegetazione capace di scoraggiare qualsiasi umana penetrazione.
Quel che più mi colpisce rispetto ad altre isole caraibiche è il silenzio che qui domina, o meglio l’assenza dei ritmi musicali, frenetici e sensuali che lascia rispettosamente la parola alla natura. Strani gorgheggi, veri e propri dialoghi, si elevano dalle piante, pappagalli e tucani, gabbiani e avvoltoi si scambiano voci in un tam-tam continuo mentre anatre e pavoni fanno bella mostra di sé fin sulla spiaggia, tra ombrelloni di paglia scomposti dal vento, per un bagno al tramonto.
Sgranocchiano giorno e notte le guatusas, piccli simpatici roditori simili al tapiro, che si uniscono così alla sinfonia. A dire il vero spesso capita anche di sentire grida di spavento di qualche gringo impreparato agli assalti delle scimmie, piccole curiose scimmie dispettose, golose e ladre che sorprendono alle spalle, si arrampicano su gambe e braccia, non demordono, anzi spesso mordono, finchè non viene offerto loro qualche cosa di ghiotto. Molto meno invadenti le iguana, lente e silenziose, che osservano immobili quasi pensierose, veri e propri draghi, a ricordare che i dinosauri sono davvero esistiti.
Unica nota dolente nel panorama faunistico di Roatan sono le sunflies, instancabili, impercettibili, insopportabili insetti dalle minuscole ali bianche, le cui punture sono inversamente proporzionali alle loro dimensioni. Non c’è repellente che tenga ma, penso, se la loro presenza può fungere da deterrente ad una rovinosa invasione turistica, allora tutto sommato provo simpatia anche per loro.
Il linguaggio della natura che colma il silenzio dell’isola proviene anche dal mare. Sono i delfini a parlare questa volta, pare ridano e mi piace credere che davvero sia così, che si prendano gioco di quei tipi mascherati con tubi di gomma, occhiali e pinne, tutti intenti a corromperli con qualche sardina per rubare loro una fotografia, una carezza e magari, perché no, un bacio.
E’ così che ripenso a Roatan, ora che sono rientrata nei confini della civiltà. Rivivo i colori dell’oceano e il silenzio delle montagne, il profumo dolce di sigaro e rhum al tramonto, la sabbia docile sotto i piedi e il vento tiepido tra i capelli … rivedo il bacio che il delfino mi ha regalato, le conchiglie di madreperla accarezzate e restituite al blu, le stelle cadenti che la notte mi hanno suggerito desideri proibiti, … ripenso al sorriso e ai volti gentili che hanno stupito i miei occhi e che non scorderò mai …
Cullata dall’amaca, questa volta nel mio giardino, mi vengono in mente le parole di una ballata gallese, lette su una scatola di rhum prima di partire :
“Eri un grand’uomo Henry Morgan, un re senza corona, quando alzavi le tue vele, eccoti ora essere tutt’uno con questa tua meravigliosa terra.”
QUARTIERI IN FESTA
di Sandra Peluso
è una notte religiosa qui a Lisbona. La statua di Sant’Antonio,della quale non mi ero mai accorta, è lì a benedire l’incredibile folla oceanica che intasa letteralmente le strade di ogni quartiere della città in festa patronale.
Sentieri conosciuti, che ho percorso innumerevoli volte alla stessa tarda ora, con lo sguardo abbassato e la mente offuscata dai pensieri intrecciati di tutta una giornata, sono adesso paurosamente impercorribili. Manca lo spazio a livello millimetrico, manca la profondità del vuoto che rende i suoni ottimi indicatori delle distanze.
La luce artificiale dei fari uccide ogni possibilità di intravedere delle oasi deserte di almeno un metro quadro; la gente va in su e in giù per le scalinate, ma la sensazione è quella di essere travolti in un vortice o di andare costantemente contro corrente. E il fatto di essere quasi sempre in pendenza ti aiuta a capire la portata biblica della situazione:gente in basso,gente in alto, fino a perdersi nel punto in cui i margini curvi della strada,coi suoi palazzi decadenti,si incontrano illusoriamente.
Cercando di integrarmi nello spirito collettivo, guardo intorno alla ricerca di pratiche religiose.
Lancio venti centesimi a Sant’Antonio, che finiscono direttamente in mano a uno dei ragazzini che si danno da fare per accaparrarsi tutte le offerte di chi, come me, si è messo a fare questo strano gioco del lancio della moneta con lo scopo ultimo di ricevere una grazia e quello intimo di centrare uno dei buchi della struttura a maglia che regge il santo. C’è anche chi colpisce altre parti del santo,chi ride per questo,chi si scandalizza. E’ l’ora del rito delle candele, ma la signora che le vende deve essersi chinata proprio mentre le passavo accanto, o forse le ha già vendute tutte ed è passata anche lei al rito della sardina.
Il livello di difficoltà sale con una sardina intera dentro al panino e la gente che balla intorno alle postazioni del sound system e a quelle delle entremeadas e bifanas (entrambe carni di maiale) che sfrigolano nella brace accanto alle sardine.
Continuo la maratona lenta e infinita,di quartiere in quartiere. Ancora gente controcorrente,musica,e anche sardine. Ogni tanto la folla si paralizza e partono allegri cori crescenti dal sapore patriottico, inni alla città, o semplicemente frasi beffarde contro il tassista che spera di uscire vivo e con tutta l’auto dalle sabbie umane che lo ingoiano.
Tutto molto suggestivo,ma la mia voglia di religiosità mi spinge a cercare ancora. Vedo Sant’Antonio su un tavolo, mi faccio largo a spallate per raggiungerlo e scopro un gruppetto di anziane signore che hanno allestito quel tavolo proprio sotto casa. Sono pronta ad ascoltare storie di devozione, adorazione, apparizioni, qualsiasi cosa stia uscendo dalla bocca della più vecchia che sembra rapire con le parole l’uomo che sta ad ascoltarla. Sant’Antonio è contornato da dolci di riso e bottiglie di liquore di ginja e di maracujà, tutto ciò che la nonnina ha da offrire a me e a quell’uomo. La forza della suggestione mi ha fatto scambiare un baracchino abusivo di pietanze con il tempio improvvisato della santona di turno. Segnale di allarme, è meglio comprare un dolce di riso fatto in casa e fermarsi un attimo a respirare guardando al cielo, o meglio, al circuito di cordoni coloratissimi che separano la terra dal cielo, quasi ad impedire ogni tentativo di fuga della mente verso la pace celestiale.
La
serata era ufficialmente iniziata qualche ora prima, quando Avenida da Libertade
era stata attraversata da una sfilata di ballerini e musicisti in abiti tradizionali
e vecchi baffuti coi fucili tuonanti che amalgamavano grottescamente lo spettacolo
e creavano un certo scompiglio tra chi,in prima fila,indietreggiava per salvare
i timpani e chi, rimasto indietro, cercava di spingersi più oltre per osservare
da vicino i sommi artisti. Impegnati in questa lotta al potere o alla sopravvivenza,
molti si saranno persi la magistrale ironia della controsfilata parallela
a quella ufficiale. Uomini-barca e altre diavolerie marinare serpeggiavano
per
Pensando agli uomini-barca continuo l’ardua passeggiata con i miei amici. Comincio a pensare che tutto questo mi piace, che ha senso, più senso di certe feste nostrane dove cammini tra le bancarelle colme di Gesù Cristi e santi di gesso, madonne sconsolate e giochi prodotti da manodopera a basso costo.
Andando alla ricerca di processioni col santo in spalla e devoti a piedi scalzi, mi sono dimenticata di passare per Adamastor. Pare abbiano ballato fino all’alba, sul ritmo inesauribile della migliore musica elettronica che passa nei locali di moda della capitale quando hai 15 euro da spendere per l’ingresso. Questo lo so adesso che l’alba è passata da un bel po’.
E’ il 13 giugno, giorno di Sant’Antonio, e mi affaccio alla finestra del mio quarto piano, che diventa ventesimo rispetto alla Baixa che si estende tra la mia collina e quella di fronte.
La marea si è ritirata, i lenti fiumi umani prosciugati,le strade nuovamente percorse dal vento.
Luce bianca, suoni bianchi.
Un silenzio irreale, oserei dire religioso.
PREVENZIONE A MISURA DI DONNA
di Paola Saraceno
Sempre più Salute e sempre meno Sanità: Iris Basilicata presenta la commedia brillante “Coppia Aperta … Quasi Spalancata” e la mostra fotografica “male/female” di Marcello Mantegazza per sostenere la campagna vaccinale contro il tumore al collo dell’utero.
E’ cominciata nel vulture-melfese a giugno per poi proseguire nel potentino a luglio, nel lagonegrese-pollino ad agosto e nel materano a settembre l’azione di comunicazione “Prevenzione a Misura di Donna” ideata della Iris per sostenere la campagna vaccinale regionale per la prevenzione del tumore al collo dell’utero.
L’associazione di volontariato “Insieme per Realizzare Iniziative di Solidarietà nel campo della Prevenzione, Cura e Ricerca in Oncologia Ginecologica” in collaborazione con la compagnia teatrale capitolina La Macchina del Sole ed il fotografo Marcello Mantegazza, si sta adoperando per diffondere all’intera popolazione femminile residente in Lucania un messaggio forte e chiaro: vaccino antipapillomavirus e pap test sono un’assicurazione sulla vita per le donne! Approfittiamone!
E’ questa – mutuando e parole del prof. Scambia, Primario di Ginecologia Oncologica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e componente del comitato scientifico della Iris Basilicata- una delle belle storie della medicina che trova nella politica sanitaria nazionale, in quella della Regione Basilicata nonché nella mobilitazione del privato sociale fattivo e pioniere, l’humus adatto affinché nessuna donna debba più morire di cancro al collo dell’utero.
Vogliamo dirlo a tutte – ci ha spiegato Anna Giacummo, presidente della Iris Basilicata – che oggi possiamo prevenire un male che nei paesi cosiddetti sviluppati è la seconda causa di morte per le donne.
Vogliamo dirlo al maggior numero possibile di amiche, colleghe, mamme, figlie, che dal 1° luglio è a nostra disposizione nei centri vaccinali della Basilicata un vaccino quadrivalente, a titolo gratuito per le ragazze di 12, 15, 18 e 25 anni, che agisce sulla causa di questa patologia oncologica, una infezione virale “papillomavirus” responsabile del 70% dei tumori del collo dell’utero e del 90% dei condilomi.
E Combinare questo vaccino alla prevenzione secondaria tramite pap test significa, a detta degli esperti, riuscire a prevenire addirittura il 97% di tumori del collo dell’utero.
Sempre più Salute e sempre meno Sanità è il leitmotiv dell’incisiva azione di comunicazione intrapresa dall’Iris Basilicata per sostenere l’avvio della nuova campagna vaccinale regionale e continuare a parlare anche dell’importanza del pap-test per salvare la vita di molte donne.
Un’ azione di sensibilizzazione a tappeto articolata su tre direttrici principali. L’’organizzazione di un importante convegno scientifico-divulgativo a Melfi lo scorso 13 giugno, che ha registrato la partecipazione di noti ginecologi e farmacologi. Poi l’adozione di due eventi culturali: la mostra fotografica “male/female” di Marcello Mantegazza e la commedia brillante Coppia Aperta … domani Spalancata portata in scena dalla compagnia teatrale La Macchina del Sole. Infine, la distribuzione di un pieghevole informativo in gazebo appositamente allestiti in occasione di tutte le rappresentazioni teatrali e degli allestimenti della mostra.
La cultura della “Prevenzione
a Misura di Donna” secondo la Iris si diffonde meglio attraverso eventi
culturali. Così la mostra fotografica “male/female” di Marcello MANTEGAZZA,
giovane artista visivo lucano che tanto già fa parlare di sé, analizza il rapporto di coppia tra giovani
“senza troppi problemi” in chiave strettamente ironica. 12 scatti fotografici
tirati in seppia che hanno come soggetti due pupazzi, uno maschio e l’altro
femmina. Così con la commedia brillante Coppia Aperta … Quasi
Spalancata”, atto unico di Dario Fo e Franca Rame, diretto da Arnaldo Teodorani Fabbri. Un gioco al massacro cui
danno vita l’attore lucano Antonio Mancino, il nostro Crocco nel cinespettacolo
della Grancia e
Una iniziativa di comunicazione forte ed incisiva quella della IRIS Basilicata che dopo le tappe di Melfi, Rionero in Vulture, Venosa, si sposterà al Teatro Stabile di Potenza il 14 luglio, a Lauria il 16 luglio, il 6 agosto a Pignola, l’8 agosto ad Abriola.
Una incisiva e capillare azione per fare conoscere alle famiglie lucane il nuovo ritrovato della scienza a favore della salute delle donne, il vaccino quadrivalente che insieme al pap-test proteggerà le ragazze e le giovani donne dal papillomavirus responsabile del 70% dei tumori del collo dell’utero e del 90% dei condilomi.
MARCO PALMEZZANO
IL POLITTICO DI BRISIGHELLA
di Camillo Tarozzi
Progetto di ricollocazione ed osservazioni sulla tecnica pittorica .
Pala: Madonna con Bambino e Santi e lunetta con Padreterno e cherubini
Chiesa di San Francesco, Brisighella
Collocazione del Polittico
Il Polittico si trova sopra al coro della basilica a partire da quattro metri di altezza.
L’elevazione di un ponteggio adatto a portare in alto in sicurezza la grande e pesante pala ha dovuto tener conto della disposizione degli scranni e degli inginocchiatoi del coro che si trovano al culmine del percorso absidale. Il ponte è stato costruito a più riprese per montare le parti alzate con un elevatore esterno alzato sopra un secondo ponte di spalla.
All’epoca dello smontaggio della pala si era riflettuto a lungo sulla possibilità di poter smontare gli scranni situati nella sezione di arco immediatamente al di sotto, così da essere in grado di risanare la muratura che avrebbe accolto la pala dopo l’intervento.
Questa idea fu però cancellata per la impossibilità di procedere alla realizzazione di un progetto complessivo di manutenzione e conservazione dell’intero coro in collaborazione con la comunità residente nel convento.
Scartata questa possibilità non è restato che elevare un ponte di servizio alle spalle di un secondo ponte di tipo Layer fino alla base della predella, quindi smontare i postergali interessati al sostegno della predella, in vista di porla al di dietro delle cornici superiori degli scranni, e posizionarne la base su staffe di acciaio inserite profondamente nella muratura come mensole di spessore adeguato. Esse sono state nascoste alla vista non tanto per motivi puramente estetici, quanto invece per la disposizione della muratura rispetto agli scranni. Infatti se questi non fossero appositamente rinforzati sul retro, difficilmente potrebbero reggere il peso della intera struttura.
A maggiore sicurezza è stato necessario ancorare staffe di acciaio nella muratura anche per sostenere di lato la pala, con una disposizione ad elle per mantenerle nascoste, ma contemporaneamente per consentire di sostenere il peso delle paraste con l’appoggio della stessa asola.
Come una costruzione di prefabbricati, l’intero polittico è stato suddiviso in più parti e così rimontato: al di sopra è stata sistemata la lunetta, anch’essa debitamente fissata ed ancorata da staffe sagomate di acciaio, così da non pesare sugli elementi bassi del polittico
Una operazione di questo tipo ha il pregio di lasciare distaccate e libere le aperture laterali che consentono all’intero polittico un sostegno parcellizzato ed in distanza dalla muratura, con l’intento di isolare per quanto possibile, il legname con cui è stato costruito.
Il centro dell’abside è infatti collocato fra due finestre che contribuiscono a formare microclimi quanto mai discontinui sulla pareti, tanto da poter danneggiare evidentemente la tenuta della sua carpenteria originale, così robusta e singolarmente mantenuta nelle sue caratteristiche di colore, forma e fattura.
Il supporto ed il suo trattamento
La tavola è composta da sei assi di pioppo con andamento verticale delle fibre e del taglio, unite da incollatura perfetta e da farfalle. Sul fronte è una fettuccia di tessuto a nascondere l’unione delle assi
Dal margine inferiore e superiore della tavola è possibile osservare l’andamento degli anelli annuali del legno, così da ripercorrere agevolmente il percorso degli insetti xilofagi che si sono nutriti e sono cresciuti con maggior comodo nelle parti esterne delle assi.
Due barre in quercia mantengono in piano le assi della pala ( cm.10 x 7) ed in legno di noce sono i cavalletti di ancoraggio.
Tutto il polittico è stato sottoposto ad un prolungato e ripetuto trattamento antitarlo, con vapori di Xilamon combi hell ed impregnazione di permetrina.
Sono state saldate con colla vinilica le fenditure e stuccare con resina poliuretanica le poche lacune di profondità. Piccoli tasselli lignei hanno risarcito le fenditure più profonde.
L’intervento è finito con applicazione di resina naturale assai diluita e cera.
La documentazione fotografica mostra i segni di un antico intervento che malamente aveva inteso ripulire la superficie pittorica: il viso dell’angelo musicante in primo piano, la sua veste
gialla ed il manto verde, il viso della Madonna e del Bambino ( ma ci si potrebbe dilungare molto descrivendo zone meno evidenti) denunciano ferite inferte alla superficie originaria dallo strofinamento di un tampone con un solvente basico: la loro presenza assume un aspetto paradossalmente positivo in quanto dimostra in forma stratigrafica i livelli della tecnica di costruzione pittorica del dipinto. Va da sé che si tratta di spellature delle pellicole pittoriche, per fortuna circoscritte a meno di un quarto della intera superficie dipinta.
Tecnica pittorica
Come preparazione della tavola è stata stesa una sottile imprimitura di gesso e colla animale, poi su di essa una intonazione di colore bianco giallastro anch’essa di gesso e colla , con l’aggiunta di una parte consistente di biacca e di un olio appena scurito in bruno.
Sopra questa imprimitura sottile e levigata i colori sono stesi fluidi e liquidi così da far trasparire l’intonazione degli strati al di sotto degli incarnati e delle zone di trapasso fra campiture, come a sottolineare l’assenza di un segno di contorno a favore di un solco fra colori in spessore. Non si tratta naturalmente di un risparmio del gesto o della materia ma della ricerca di un effetto che offre scarti e scorci di grande naturalezza , affermando una consumata “maestria del pennello” . Esso costituisce anche un caso di insolita ed intonsa condizione di completa conservazione degli strati superficiali in un pittore molto famoso ed assai trattato negli ultimi cinquant’anni, fino alla recente mostra forlivese.
Il dipinto è eseguito con colore di tempera ad uovo, sul quale il legante si raddensa nei rilievi di pennellate e si illiquidisce in sfumate velature riconoscibili in lettura radente ed in riflettenza della luce.
Al di sopra del colore, in modo assai disomogeneo, si poggia uno strato impregnante di materiale resinoso, forse unito a poco olio di lino o di noci, in origine poco o nulla colorato ma variamente trasparente a volte, oppure intinto di colore sofficemente impastato ed appena coprente: è la base di uno spessore di ineguale aggregazione che interviene in finitura come un vero e proprio ripensamento dell’intervento pittorico, tanto che costituisce il materiale delle riprese di un vero pentimento, facilmente riconoscibile.
Esso modifica sostanzialmente, per esempio ( ma varrà qui per testimonianza a favore dei molti casi in cui la stessa materia non è sostenuta dalla forma del disegno e non è quindi riconoscibile, per via della inspiegabile e caotica ridistribuzione dei materiali della pittura che segue ad una malintesa pulitura) la foggia della la frappa sulla mantovana del baldacchino, con un colore corposo e coprente che nasconde solo in parte le prime ridotte fattezze per ampliare la portante sporgenza del tendaggio verso lo spettatore.
Siffatto artifizio è evidentemente frutto dell’intervento di finitura intesa sia come esito iconografico finale sia come elemento portante del processo costruttivo
Un caso di tale evidenza sfugge solitamente all’analisi del restauratore per una inspiegabile disattenzione ai valori materici dei colori, quando per cinquant’anni, appunto, professando fedi di assoluta coerenza brandiana si è generalmente diffusa una convinzione più simile a quella provocata da un virus, capace di resistere non tanto agli assalti dei fedeli alle concezioni opposte, i terribili albioni, ma alla sistematica, incolta ed inarrestabile pratica di distruzione di elementi costitutivi del documento pittorico, in onore non tanto della storia dei materiali o dell’arte quanto di una “utilità o comodità” che non è certo qui il caso di indagare o approfondire.
Come in molti altri del genere, sarà difficile in questo caso disconoscere la “patina “ , questa patina, come parte del materiale originario del procedimento pittorico.
Nella stessa tavola e con pari evidenza nella lunetta si notano i caratteri di una superficie pittorica costruita in due fasi ambedue coerentemente originali: la prima già conclusa e poi ripresa in un secondo tempo, la seconda senza alcuna ripresa.
Le differenze negli strati di finitura hanno imposto il criterio e la direzione delle scelte di intervento in fase di pulitura della superficie ed in quella di integrazione pittorica. Come integrazione pittorica è inteso infatti il procedimento di verniciatura che si è scelto in base al singolare risultato di opacità ricercato nel confronto con le parti integre della pittura.
Nel valutare l’effetto in distanza con o senza illuminazione dei faretti, la superficie opacizzata che ci si aspetta normalmente da un dipinto di questo tipo è stata ottenuta con un calibrato trattamento ad impacco in fase di pulitura, con la correzione di tocchi ad acquerello a sostenere l’ unità formale, e non con una omogenea stesura di vernice opaca. L’osservazione del polittico nella sua collocazione naturale, nel centro della parete absidale a specchiare le finestre da ogni lato, si avvantaggia dell’equilibrio che propone il timbro opaco di una superficie a tempera in perfetto stato di conservazione.
L’attuale trattamento della superficie pittorica ha mirato a favorire l’effetto di una profondità in nessun punto disturbata dagli inevitabili scontri fra gli occhi dell’osservatore e le luci inesorabilmente riflesse sul dipinto. Ed ha tenuto a favorire naturalmente la particolare condizione dell’osservazione ravvicinata che evidenzia ancor più il risultato di un intervento ossequioso alle leggi della fisica ottica più che alla standardizzazione dei procedimenti di restauro.
Fu Carlo Volpe a puntare il dito, per primo, che io ricordi, sopra una caratteristica talmente ovvia da essere evidente a tutti, ma di rado citata e considerata in tema di restauro, quando nel descrivere l’effetto di un dipinto a tempera ( si trattava della grande tela ancora perfettamente conservata di M.A. Franceschini nella Madonna di Galliera) notava la sua disposizione ad essere osservato perfettamente da ogni parte della chiesa senza alcun riflesso e (cito a memoria una sua osservazione in contrasto con la pittura smaltata di Antonello) con pieno apprezzamento della profondità delle parti scure dei panneggi anche in condizioni bassa visibilità, come nei pomeriggi nebbiosi quando la luce delle candele è già sufficiente a proiettare un’ombra.
A ZIA MINUCCIA
di Francesco M. T. Tarantino *
“Ciao, sii benedetto, figlio mio”
guardo smarrito mio fratello
perso in quest’ultimo addio
da domani niente più sarà bello
Dall’alto dei tuoi anni e dagli spazi
Aggiungi una lacrima alle lacrime
Indifferente ormai agli umani strazi
Ti accoglie festante un coro di anime
In cielo è il tuo posto adesso che sai
Che il vento conserva le tue parole
E ce le riporterà quando viaggerai
E c’incontrerai all’alba di ogni sole
Guida mio fratello ad ogni incrocio
E difendilo da qualsiasi mia bugia
Soccorrilo qualunque sia lo sfocio
Di una solitudine di una nostalgia
Madre! cara ad ogni mio fratello
Resuscitata ad altri sentimenti
Lascia aperto l’ultimo cancello
Per noi quando saremo morenti
di getto il 19 luglio 2006
TANTO RUMORE PER….
IL 4° MOTORADUNO “CITTÀ DI MORMANNO”
di Nicola Perrelli
Ormai è considerato l’evento che da il via alla breve ma feconda estate mormannese, se non altro per il tanto rumore che fa…e non per nulla. Senza contare che in pochi anni è anche divenuto un classico della proposta mototuristica meridionale per i numerosi appassionati che richiama da ogni angolo della Calabria, Basilicata e Campania. Stiamo parlando naturalmente del motoraduno “Città di Mormanno”, giunto alla sua quarta edizione.
Successo e record di presenze hanno contraddistinto quest’ultima manifestazione, puntualmente organizzata dal locale -Moto club bikers- con il patrocinio del Comune di Mormanno e dell’ente Provincia di Cosenza.
La kermesse si è svolta il 14 e 15 luglio scorsi sulla rive del laghetto, en plein air, nel verde della rilassante campagna del Pantano, in un crescendo di appuntamenti che hanno attirato, complici le belle e assolate giornate, numerosi motociclisti, tantissimi appassionati delle due ruote e schiere di curiosi che hanno voluto per un po’ respirare l’aria del motoraduno. E’ stato un successo, un’edizione da primato che sarà ricordata per il numero dei fans e per l’accuratezza dell’organizzazione, sempre presente con numerosi addetti pronti a soddisfare le richieste dei partecipanti. La palese dimostrazione che questo raduno non soltanto continua a richiamare sempre più gente e a fare il pieno di iscrizioni, ma riesce ogni volta a crescere di qualità: in solo quattro anni è diventato già tradizione. E non solo, è anche l’evento, unico nel suo genere nel territorio del Pollino, che più di tanti altri è capace di lanciare un messaggio positivo per il turismo di Mormanno.
Questa edizione resterà negli annali della manifestazione non solo per il tanto “rumore” fatto dai centauri, ma soprattutto per i tanti appuntamenti e intrattenimenti previsti dal palinsesto. E’ stato un week-end incredibile di festa, musica, spettacoli e buona cucina.
Una due giorni all’insegna dell’amicizia, dello svago, del divertimento e di formidabili mangiate e bevute, e al calar della sera… cena gratuita a tutti i motociclisti. La festa e’ iniziata sabato pomeriggio con un breve saluto del presidente del Moto club bikers. Subito dopo tanta musica e degustazione di prodotti tipici. In serata a entusiasmare gli animi ci ha pensato la musica rock del gruppo Hoochie Coochie Band. Mentre sono stati vissuti momenti esaltanti dopo mezzanotte, quando sul palco, sotto i riflettori, sono salite “simpatiche” ragazze che si sono esibite in un “casto” strip tease, che ha lasciato sicuramente in tutti i presenti un ricordo indelebile del motoraduno.
Nella giornata di domenica, dopo la conclusione delle iscrizioni, sotto un sole splendente, il serpentone di moto ha attraversato rombando il centro storico di Mormanno per portarsi, seguendo la sinuosa strada disegnata sui pendii delle nostre belle colline, nel vicino comune di Laino Castello. Giunti in piazza Municipio, gremita come mai, i motociclisti sono stati calorosamente salutati dalle Autorità, e dopo un gradito rinfresco e un assaggio di salumi locali hanno di nuovo intrapreso la via del ritorno percorrendo questa volta l’ancora più tortuoso, ma certamente divertente, tracciato della vecchia SS 19. Ad aspettarli al Pantano i ricchi buffet imbanditi di specialità tipiche paesane e poi finalmente… un po’ di meritato riposo all’ombra degli alberi. Ma giusto un po’, nel primo pomeriggio di nuovo musica, animazione e le attese premiazioni.
Tutto finito? Per niente, la serata, dopo lo spettacolo offerto dalle Scuole di Ballo di Mormanno, è proseguita, tra musiche, canti e balli inframmezzati da sane bevute di birra, fino a quando alla gioia e all’allegria è subentrata la stanchezza e con essa la voglia di levare le tende e tornare a casa.
Con un sogno: che l’anno prossimo, come ha lasciato intendere il presidente nei suoi interventi, il motoraduno “Città di Mormanno” sarà davvero a livello nazionale.
E dobbiamo dire che le premesse ci sono tutte.
IL VECCHIO BACO DI FERRO
di Raffaella Santulli
Il viaggio è una categoria dello spirito, un' applicazione del socratico " conosci te stesso".
Uno stratagemma per rompere l'assedio della routine, per rimettere in moto ciò che l'abitudine congela e chiude nella ghiacciaia dei desideri.
La nave parla di romanticismo, l'automobile di realismo, l'aereo è in se stesso un pezzo di viaggio, un veicolo che serve a neutralizzare i tratti non essenziali. Ed il treno?
Il fascino del viaggio in treno resiste ancora, non può essere sostituito né rimosso o dimenticato.
Il vecchio baco di ferro suscita simpatie, scioglie imbarazzi, è complice prezioso di qualsiasi storia d'amore, ufficiale o clandestina che sia.
Amori d'altri tempi, con impacci e timidezze, con adulteri a lungo vagheggiati, e non consumati, sul filo di un orario ferroviario, e amori di ogni tempo, con il treno e la stazione, teatro dell'incontro, del corteggiamento, dell'epilogo.
Inizia in una stazione, e termina anni dopo sempre in una stazione, lo sventurato amore di Anna Karenina per il principe Vronsky.
In genere arriva e parte chi ha una meta, un percorso, degli orari e degli obblighi da rispettare; ma forse è proprio nello sfondo caotico e nel rumore assordante della stazione, nel frenetico e distratto movimento che la percorre, che la solitudine và oltre il momento soggettivo ed esistenziale e diventa una condizione più drammatica e diretta.
Alla stazione, è vero ci si ritrova, ma ci si può anche perdere, si può essere soli perchè si è sconfitti, per condizione sociale, per scelta di vita, o più semplicemente perchè altri hanno deciso così
IL TESORO DI ROTONDA
di Nicola Perrelli
Ne
ho sempre sentito parlare, letto pure abbastanza, udito l’eco dei botti e
persino, data la vicinanza con Mormanno, visto il cielo rischiarato dai fuochi
pirotecnici. Ma avervi partecipato è stato veramente diverso:
Non
è certo nostalgia della miseria o dei tuguri di un tempo, ma percorrendo in
questi giorni di festa le vie di Rotonda si avverte forte il bisogno di volgere
lo sguardo al passato per capirne i ritmi e cogliere il senso profondo dei
riti simbolici dell’uomo arcaico, ancora vivente da queste parti. Si scopre
cosi che non sempre il passato sprofonda in un abisso silente di cui è difficile
sentirne l’eco, ma può essere rivissuto e riconsiderato. E a Rotonda durante
Del resto come si può interpretare diversamente la fatica dei rotondesi che dimenandosi con arnesi primitivi e con le stesse braccia trascinano, con grande sacrificio nonostante l’aiuto di imponenti buoi, dalle impervie montagne del Pollino, giù a valle fino alla breve pianura del paese, l’abete che sarà “a rocca” e il gigantesco faggio che sarà “a pitu” da unire in un ideale matrimonio?
C’è in questo rito arboreo, eclatante e per certi versi trasgressivo, che ha inizio con la “sottrazione” degli alberi più maestosi alla foresta, luogo sacro agli dei, il richiamo alle falloforie latine. Le feste di primavera esaltanti la fertilità, le sfrenatezze, l’energia vitale che la natura sprigiona nel tempo del suo risveglio annuale e le virtù dell’albero quale simbolo della rigenerazione cosmica.
Ma c’è anche l’invito all’uomo a riflettere sulla strada percorsa e su quella che lo attenderà. E a temere dell’impari confronto con la natura, ingovernabile se non addirittura ostile anche quando sembra ormai sconfitta o alla mercé degli uomini stessi.
La Sagra si svolge tra l’8 e il 13 giugno, giorno di Sant’Antonio patrono di Rotonda, in un difficile compromesso con la sensibilità cristiana per le intemperanze, le sregolatezze e i rituali a cui si abbandonano in questi giorni proprio coloro che più di ogni altro sono devoti al Santo: i roccaioli e i pitauoli. Dei quali il Santo è divenuto protettore dopo aver salvato da morte sicura, secoli or sono, un pastore che era precipitato in un burrone. E che ancora oggi acclamano, con risonanti “evviva Sant’Antonio”, quando sotto i loro colpi d’accetta gli alberi stramazzano al suolo. Un “evviva” che nelle ore successive tra orazioni e libagioni muta in un più profano “vivi”(bevi) Sant’Antonio.
Nel pomeriggio del 12 giugno i due alberi trascinati da 13 paricchi (coppie di buoi) inghirlandati e accuditi dai “gualani” (bovari), spostati nei cambiamenti di direzione dai “pannulari”(quelli che usano a mo di leva la pannula, un grosso ramo) e preceduti dalle “porfiche” (piccoli alberi di faggio) fanno finalmente il loro ingresso nel paese.
Ma non e’ un semplice ingresso: è un’entrata trionfale. Il “capurale d’a pitu”, il coordinatore dei rituali, e il suo seguito, come Napoleone e i suoi uomini d’armi al ritorno di una grande vittoria, vengono festosamente accolti e calorosamente acclamati dal numerosissimo pubblico.
Lungo il Corso la gente, incurante degli afrori ceduti da chi da parecchi giorni non si lava, ma non se ne fa un problema, e ammaliata dalle sagome biancastre dei possenti buoi che a loro volta spandono nell’aria un forte “aroma” di stallatico, comunque benaccetto, accompagna la carovana fino all’arrivo in Piazza V. Emanuele. Qui, in un nuovo bagno di folla, il sindaco in pompa magna e le autorità religiose, con la dovuta solennità, augurano alla popolazione il buon procedimento dei festeggiamenti e invocano il Santo patrono affinché assicuri aiuto e protezione a tutti coloro che di li a poco si produrranno nello spettacolare sollevamento a braccia dell’”a pitu”.
A discorso ultimato decine di devoti con una incredibile mezza piroetta girano quindi a pitu con il capurale in piedi su di essa in direzione Municipio e dopo averla aggiogata nuovamente ai buoi la trascinano fino davanti alla sede comunale. Dove l’indomani, 13 giugno, a pitu dopo essere stata congiunta all’a rocca, per sancire il matrimonio arboreo, e issata verso il cielo, viene piantata quale augurio di prosperità e di fertilità per la comunità e a sottintendere la forza e la potenza di coloro che l’hanno strappata alla terra.
Naturalmente durante i festeggiamenti e le cerimonie oltre allo spirito viene nutrito anche il corpo. Non mancano infatti leccornie e bevande, ma soprattutto abbondano le panetteddre benedette di Sant’Antonio, i dolci rustici preparati in casa, che vengono offerti a partecipanti e visitatori.
Non
tutti i giorni sono uguali per visitare Rotonda. Sicuramente giova farlo nei
giorni della tredicina di Sant’Antonio, quando, in questo paese già per altri
aspetti particolare, avviene qualcosa di assolutamente unico e straordinario:
IL FARE IL SAPONE
di Antonio Penzo
Nella famiglia nulla veniva buttato via, se era possibile riciclarlo. La massaia metteva da parte tutti i pezzi di grasso dei vari animali, le cui carni erano macellate o comunque utilizzate nella cucina. Dal maiale si otteneva la maggior parte dei grassi necessari. Anche dal lardo, che veniva riutilizzato più volte per friggere, si aveva una materia per fare il sapone. Il tutto veniva conservato al buio e in luogo fresco, lontano dai bambini. Quando si decideva che era giunto il momento di fare il sapone, e ciò avveniva quando la quantità di resti di grasso a disposizione consentiva una proficua lavorazione, si pesava il tutto e si acquistava la soda caustica necessaria. Gli uomini di casa, dopo che le donne, avevano allontanato con vari pretesti i bambini e per fare ciò le prime ore mattutine o le ultime della sera erano le migliori, preparavano il fuoco, sul quale ponevano il paiolo con una quantità di acqua doppia delle sostanze grasse a disposizione e vi immergevano detti i resti di grasso animale, facendo bollire il tutto, rimescolando con un bastone il tutto lentamente fino allo scioglimento del tutto. Si riduceva il fuoco e si iniziava ad aggiungere la soda caustica, nella misura del 20% delle sostanze a disposizione, lentamente ed in piccole quantità, rimescolando continuamente e stando attenti a che gli spruzzi non colpissero il volto o il corpo, in quanto ustionanti. La cottura durava circa un’ora e mezza. Si controllava l’acqua, che via via evaporava, aggiungendone di calda. La cottura dell’impasto era controllava estraendo il bastone e verificando se “filava” lentamente. Poteva accadere che dalla massa salisse del grasso liquido, in questo caso occorreva aggiungere della soda, oppure che l’impasto era granuloso, in questo caso occorreva aggiungere della sostanza grassa. Una volta che l’impasto aveva raggiunto un grado di filatura corretto, si allontanava il paiolo dal fuoco e lo si riponeva in luogo tranquillo, per un giorno. Ripreso il paiolo, si smuoveva la massa dell’impasto per consentire all’acqua che si era depositata in fondo od eventualmente alla soda in eccesso, di trovare un’uscita, piegando il recipiente. Anche in questa fase occorreva stare attenti agli spruzzi. L’impasto semidenso veniva scolato su di un piano dandogli una forma abbastanza regolare, che veniva tagliato a pezzi della grandezza voluta con un grosso coltello. I pezzi venivano separati fra di loro ed, una volta induriti, avvolti in carta oleata e posti in locale bui. Si era ottenuto il cosidetto “sapone di marsiglia”. Nella fase finale, quando già il prodotto si era parzialmente raffreddato, si potevano aggiungere dei profumi o delle foglie o dei fiori.
CONSIGLIO EUROPEO 21-22 GIUGNO 2007
di Stefania Bressan
Il tema era scottante, le
questioni ancora irrisolte molte, ed il tempo, nebbioso come spesso qui a
Bruxelles, di certo non aiutava a schiarire le idee. Già dalle prime luci
dell’alba del 21 giugno si sapeva che questo non sarebbe stato un summit facile.
Al di là della contrarietà della Polonia al voto a maggioranza qualificata
proposto dalla nuova Costituzione Europea, ciò che più preoccupava era la
linea dura adottata dalla Gran Bretagna nei confronti dell’istituzione della
figura del ministro degli affari esteri europeo che, a suo avviso, avrebbe
goduto di troppa ingerenza nella politica esterna degli stati membri, limitandone
così
In molti in questi giorni hanno detto è scritto su quando discusso e deciso in sede di Consiglio Europeo.
Ora lasciate la parola a chi, come me, ha vissuto questo summit storico in prima linea.
21 giugno: alle 16 e
Dopo un breve scambio di battute coi giornalisti, i due politici si posizionano ad un lato del palco dal quale dovranno accogliere i Ministri al loro arrivo al Consiglio. Io me li ritrovo di fianco e li sento confabulare con i loro più stretti collaboratori in un tedesco rapido e secco che faccio fatica a comprendere.
Pochi secondi e giunge dagli uomini della sicurezza la notizia dell’arrivo del Ministro lettone, seguito a ruota da tutti gli altri. Quello che si sussegue è una rapido stringere di mani e scambio di convenevoli sotto gli occhi attenti di telecamere e riflettori che cercano ad ogni modo di carpire in anteprima anche il minimo dettaglio sull’agenda delle discussioni.
Di lì a poco vengo catapultata al centro dell’attenzione: faccio parte del Protocol Service del Consiglio ed il mio compito è quello di scortare i Ministri negli uffici delle loro rappresentanze permanenti in seno all’Unione, occupandomi delle loro necessità e rispondendo a qualsiasi loro dubbio in tema di protocollo. Forte del mio badge rosso al collo, ho libero accesso ai piani alti dell’edificio, quelli che durante il summit vengono chiusi per questioni di sicurezza anche ai funzionari di più alto livello.
Non è facile controllare le emozioni quando si è consapevoli che anche un minimo errore può causare un incidente diplomatico o comunque creare imbarazzo. Cerco di mantenere la calma tenendo a mente tutto ciò che mi è stato insegnato in questi giorni, come muovermi, come rivolgermi ai politici,… Tutte queste informazioni prima chiare e ben classificate, al momento dell’incontro coi Ministri iniziano ad apparire sfuocate e a girarmi nella testa in modo sconfusionato. Faccio un bel respiro e mi butto nella mischia, facendomi strada tra la miriade di gente che attornia i vertici politici d’Europa.
Alle 18e30, dopo la prima sessione di discussioni nella sala 50.1 - la sala dove regolarmente si riunisce il Consiglio -, il momento più emozionante: la family picture: i grandi d’Europa si riuniscono sul palco per la tradizionale foto che li immortala in un momento carico di aspettative e di valore storico.
Non posso negare che faccia uno strano effetto girarsi verso il bancone della caffetteria e sorprendere Blair e Sarcozy mentre sorseggiano piacevolmente un caffè, oppure dirigersi verso la toilette ed imbattersi in Prodi e Zapatero abbracciati mentre parlano fitto fitto. Come per magia mi ritrovo in questo mondo inedito per me, sgrano gli occhi, mi ripeto continuamente che non sto sognando. E più li osservo questi grandi e più mi rendo conto che alla fine non sono poi così diversi da come si vedono in tv e che in fondo non c’è molto che li differenzia dalle persone normali, eccetto il fatto che il destino dell’Europa si trova nelle loro mani.
Al momento della work dinner di me non c’è più bisogno e allora ne approfitto per dirigermi verso la grande hall del Consiglio dove - sotto l’enorme arco azzurro scelto dalla Presidenza tedesca come simbolo del suo mandato -, è stato allestito uno spazio per ospitare i giornalisti al lavoro. L’attività è frenetica, i telefoni non finiscono mai di squillare, le dita che scorrono veloci sui tasti dei portatili alla ricerca dell’ultima notizia, conferme e poi smentite di un accordo raggiunto. Respiro a pieni polmoni quest’aria pregna di informazione, ritornando con la mente all’età dell’adolescenza quando, block notes e matita in mano, sapevo esattamente che cosa ne sarebbe stato del mio futuro.
L’attesa si fa snervante, si aspettano le conferenze stampa previste per le 22, poi posticipate alle 23 e 30. E alla fine accade quel che si temeva: Polonia e Gran Bretagna non cedono alle lusinghe della Merkel e rimangono sulla loro posizione ferma. Tutto è rinviato al giorno successivo.
22 giugno: il secondo giorno si preannuncia ancor più impegnativo del primo.
Dopo essermi concessa alcune
ore di sonno mi precipito al Consiglio dove di prima mattina
Nel corso della mattinata giungono anche tutte le altre delegazioni che si ritirano nei loro uffici dai quali dare il via poi alla complicata maglia delle relazioni diplomatiche. I giornalisti in continua agitazione attendono un responso che mai arriva.
Ed infatti le discussioni continuano per tutta la mattinata e si protraggono fino al tardo pomeriggio, quando si opta per il rientro in hotel dei Ministri e la convocazione di una nuova seduta plenaria in serata.
La stanchezza ci prende un po’ tutti. Era dal Consiglio Europeo di Nizza del 2000 che i dibattiti non si prolungavano oltre l’ora di pranzo del secondo giorno e anche se, già da tempo si vociferava che questo summit sarebbe stato difficile, rimaneva sempre la speranza che si trattasse solamente di voci di corridoio. Con una tazza di caffè in mano non resisto e mi allontano dai miei doveri protocollari per ritornare alla sala dei giornalisti, molti dei quali, ormai allo strenuo delle forze, si abbandonano sfiniti sulle sedie o cercano un po’ di riposo sdraiati sotto i tavoli da lavoro.
Solo all'alba, ecco arrivare l’annuncio del raggiungimento di un punto fermo. Nella salle de press, stracolma di gente, e dopo le frenetiche consultazioni del cancelliere tedesco per superare le resistenze degli euroscettici, si è deciso di mettere nero su bianco il mandato per la Conferenza intergovernativa, alla quale spetta l'arduo compito di dare impulso al processo di ratifica del Trattato, accompagnato dalla necessaria sensibilizzazione degli europei circa la sua necessaria adozione.
Si chiude così, con un minimo anche se significativo passo avanti, uno dei summit più difficili degli ultimi anni, che mi ha vista, seppur nel mio piccolo, protagonista tra i molti.
CON I
BAMBINI BIELORUSSI IN ITALIA
(seconda
parte)
di Elena Bebeshina
Siamo arrivati in Italia e il mio gruppo stava per passare il controllo dei passaporti.
Il lavoratore dell’aeroporto, il primo italiano “vivo” che ho incontrato, mi ha chiesto qualcosa, ma non l’ho capito e, per un attimo, ho provato un grande terrore, perchè mi e’ venuto in mente che ero da sola con il gruppo bielorusso in un paese straniero, ed ero il capogruppo e nessun altro sapeva parlare l’italiano: cosa avremmo fatto se non avessi capito nulla?
Mi sono veramente spaventata.
Ma, l’addetto ha ripetuto la sua domanda, mi sono calmata, ci siamo capiti e sono stata subito meglio.
Pian piano mi sono abituata a capire ed esprimermi e così poi e’ andato tutto bene.
La seconda impressione, fortissima, era il paesaggio magnifico, la bellezza delle colline del Veneto, verdi con le case chiare con i tetti rossi.
Per tutto il viaggio ho guardato e non sono riuscita a volgere lo sguardo altrove.
Il paesaggio italiano era così diverso dal mio Paese, mi e’ sembrato cosìfavoloso, addirittura da dipingere!
Ammirandolo, ho capito perchè molti famosi pittori volevano andare in Italia e dipingerla, e perchè alcuni avevano trascorso una parte della loro vita in Italia e avevano dedicato i loro capolavori all’Italia.
Era diventato anche chiaro per me perchè l’Italia aveva dato i natali a tantissimi artisti: perchè li ispirava e continua ad ispirarli...
Mi e’ piaciuta la strada a serpentina che abbiamo percorso poco prima di arrivare alla nostra casa e le vigne che ho visto per la prima volta. Poi, quando facevamo le passeggiate nei dintorni con i bimbi o da soli, restavo strabiliata nel vedere le case curate di quel piccolo paesino. E quanti fiori c’erano dappertutto! All’inizio, quando non mi ero ancora abituata a tutta quella bellezza, mi sembrava che non era realta’, che sognavo tutto.
La nostra casa si e’ rivelata essere molto grande, a due piani.
Al primo piano c’erano una stanza per gli studi e lavoretti e una grande sala, dove i bambini potevano giocare quando pioveva e dove di sera facevamo le discoteche per loro.
Al secondo piano c’erano la cucina, dove i volontari italiani riscaldavano il cibo, la sala da pranzo, le camere per i bambini e gli adulti.
Davanti alla casa c’era il campo per i giochi.
C’e’ piaciuto tutto.
La nostra vita li’ e’ stata ben organizzata.
Il mattino i bimbi lo trascorrevano nella classe, studiando.
Dopo il pranzo, c’era l’ora di riposo e mettevamo tutti i bimbi a letto.
Il resto del giorno i bimbi giocavano.
Due volte alla settimana pranzavamo da un facoltoso signore di quel paesino.
Ho mangiato la lasagna, uno dei piatti da me più graditi della cucina italiana, la pasta ben fatta, il risotto con i funghi e buonissimo vino Prima avevo sentito solo dire che i vini italiani erano migliori nel mondo, ma dopo averli assaggiati, ho subito deciso di essere d’accordo anch’io.
Posso dire, che per i nostri bimbi sono stati creati tutte le condizioni per farli riposare e risanare.
Avevano molta frutta da mangiare e i succhi da bere, l’aria fresca da respirare e il sole per essere allegri. Per di più, sono stati organizzate gite interessanti per mostrare ai bimbi la ricchezza e bellezza della ospitale Italia. Siamo stati alla pizzeria, dove abbiamo provato la famosa pizza italiana, alcune volte siamo andati alle sagre locali e abbiamo festeggiato insieme alla gente italiana nelle piazze principali.
Ho sentito il canto italiano e ho visto come balla la gente.
Sono stata veramente impressionata dalla maestria con la quale tutta la gente ballava con l’accompagnamento dell’orchestra. Così sono giunta alla conclusione che il popolo italiano e’ veramente molto musicale.
Mi è anche piaciuto il modo di festeggiare tutti insieme, quando c’erano grandi tavoli sulla piazza, dove tutte le persone mangiavano e parlavano.
Siamo stati anche portati nella Casa delle farfalle.
Sia ai nostri bimbi che a noi, adulti, e’ piaciuto molto.
E’ una meraviglia, quando molte farfalle di differenti colori e dimensioni ti volano accanto!
La vita di una famiglia italiana e’ rimasta quasi sconosciuta per me quella volta, perchè per tutto il tempo eravamo con i nostri bimbi nella casa e comunicavamo con solo 4-5 persone, che erano dei volontari. Ma, anche conoscendo quelle poche persone, si capiva quanto amore, voglia di aiutare e solidarietà loro avevano verso i nostri bimbi.
La vita quotidiana del paesino, la potevo solo osservare da dietro la palizzata della nostra casa, oppure nel vedere i contadini lavorare nelle vigne quando tornavamo a piedi dai pranzi fatti nella casa di una persona molto ricca.
Sono rimasta molto stupita nel vedere quante persone facevano sport in quel paesino.
Ogni giorno i gruppi di italiani vestiti con una tuta speciale facevano ciclismo: sono proprio bravissimi!
Per noi una vera sorpresa, però un po’ sgradevole, e’ stata il campanile della chiesa accanto la nostra casa, con la campana che cominciava a suonare fortissimo alle 6 di mattina, e poi ogni mezz’ora mentre dovevamo alzarci alle 8.
Ricordo, come per una settimana e mezzo la campana mi ha sempre svegliato e poi non ho potuto addormentarmi di nuovo.
Ma, dopo due settimane, noi tutti ci eravamo abituati e abbiamo finito di accorgercene.
Una sera il gruppo di clown e’ stato invitato nella nostra casa.
Quanta gioia ci hanno portato!
Noi adulti subito siamo diventati bambini e tutti giocavamo, scherzavamo e ridevamo insieme ai nostri bimbi.
Alla fine, vedendo i nostri bimbi, un signore di quel gruppo di clown ha deciso di regalarci il suo apparecchio raro per utilizzarlo nel centro infantile di oncologia e ematologia della Bielorussia per divertire i bimbi e aiutare loro a riprendere i riflessi dopo le operazioni e la chimioterapia.
Siamo rimasti molto commossi da quel dono.
(seconda parte, continua nel prossimo numero)
CENNI DI GASTRONOMIA
di Erika Scotti
Da piccola, come probabilmente tutti i bambini del mondo, ho davvero odiato
Cosa posso dire a mia discolpa....tanto per cominciare sarebbe stato impossibile vivere qui senza mai provare quello che e' il piatto base della cucina ecuadoriana. La prima volta l'ho assaggiata solo per cortesia nei confronti dei miei ospiti e con mia grande sorpresa insieme a una punta di senso di colpa ho dovuto ammettere, mio malgrado, che era davvero buona.
Il piatto che ha segnato l'inizio del mio rapporto con minestre e zuppe e' il famosissimo LOCRO. Trattasi di una zuppa a base di patata che dopo una lunga cottura viene servita in una ciotola e va accompagnata con avocado e formaggio fresco che una volta tagliati a cubettini vengono tuffati nella minestra. Il risultato e' una combinazione di sapori che ricordano la mantagna con un tocco di freschezza tipica dei vegetali e dei formaggi latinoamericani.
Ovviamente di varianti al tema ce ne sono molte, cambiano solamente gli ingredienti che si aggiungono crudi, alla fine.
Nonostante l'eccellenza di questo piatto non posso certo dire che siano proprio zuppe e minestre il piatto forte di questo Paese, anche se indubbiamente rappresentano la base della cucina popolare, perchè a parte questa eccezione il resto sono più che altro “intrugli” che danno l'idea di essere stati inventati al momento con gli avanzi della sera prima.
Per gli amanti delle carne allora questo e' il posto giusto! Devo dirvi subito
che dopo aver vissuto in Venezuela ero convinta di aver trovato il vero regno
delle carni rosse e bianche ma mi sono dovuta ricredere, se passate da queste
parti non mancate di provare il famosissimo LOMO A
Se volete provare davvero il meglio di queste pietanze non cercate ristoranti di lusso e ricercati ma affidatevi a quelle che qui chiamano Hosteria, piccoli ristoranti che offrono anche la possibilità di pernottamento, a conduzione familiare. Molto accoglienti e arredati con mobili fatti artigianalmente, vi offriranno un ambiente caldo e accogliente dove potrete pranzare davanti a un caminetto sempre acceso gustandovi le specialità ecuadoriane.
In un altra occasione vi parlerò degli innumerevoli piatti popolari che generalmente si mangiano solo per strada, in piccoli ristorantini non troppo puliti o curati ma molto caratteristici.
Trattasi per lo più di una cucina molto calorica, forse per combattere il freddo, molto saporita e molto speziata.
Per il momento vi saluto e ... buon appetito!!!
BUON VIAGGIO !!
di Alessia Della Casa
Partire e tornare.
Nel bel mezzo del suo splendore verdeggiante lascio Riga, non senza una tristezza nel cuore. Pur felice di tornare a casa, in vista di ripartire nuovamente.
Il Viaggio è sempre uno scompiglio di sentimenti che desta l’anima e l’accoglie in un nuovo spazio. Tutto si rivoluziona dentro, per dar posto a qualcosa di nuovo che s’impone agli occhi e invade le sensazioni, le rapisce stupendo anche il più esperto dei viaggiatori.
Odori e colori, sorprendenti incontri e inaspettate novità. Lasciano un segno, un ricordo che ci accompagna arricchendo il nostro grande, unico Viaggio.
Nuovi occhi saranno quelli che troveremo, e quelli che riporteremo a casa. Sguardi insoliti ci scuoteranno dalle nostre abitudini statiche, e noi pure cambieremo qualcosa in loro.
Quanto è importante un confronto, un occhio diverso a smuovere le convinzioni e portarci più lontano di quanto siamo arrivati!
Sono partita per scoprire quello che non avevo, e quello che avevo di troppo! Ho scambiato ciò che avevo di superfluo per ciò che voglio tenermi stretto, abbandonando quel che riempie le valigie e custodendo quello che arricchisce davvero! Ho cercato un viaggio nel mondo e ho trovato il mondo nel viaggio. Un mondo ricco che distende sulla vasta superficie piccoli tesori, da saper cercare e trovare, da saper prendere. E custodire come Vere ricchezze.
Ogni viaggio è una storia della vita, una ricerca che ci prende dentro seducendo la nostra spontanea e naturale curiosità. Stuzzicando la fantasia e provocando, perché no, la nostra intenzione a metterci in gioco. Ad andare oltre e scoprire quello che altrimenti non avremmo mai conosciuto.
Tutti volgiamo a mete sempre nuove in cerca di curiosità, di bellezze, di tranquillità, a volte anche solo di puro relax, senza però considerare quanto il Viaggio possa essere dentro di noi. Siamo noi, infatti, a creare il fascino di ciò che ci affascina, col nostro essere appassionati e curiosi. I luoghi nuovi certo aiutano a stimolare gli interessi e predispongono sguardi diversi, volti a cogliere le meraviglie già preannunciate da dicerie e foto sui depliant.
Ma siamo noi a dare la giusta bellezza alle cose.
Lo scopriamo quando il viaggio può essere anche senza partire, quando gli stessi luoghi ci mostrano nuove cose e ci suggeriscono parole nuove.
IL CANCRO TRA LE STELLE E LA LUNA, TRA IL CIELO E L’ ACQUA -STORIA INFINITA-
di Marilena Rodica Chiretu
Ho trovato tra le stelle del pensiero
la luce di una dolce parola,
era nuda, senza il vestito della metafora,
sorrideva in terra dal cuore della Luna.
Ho guardato il cielo per trovare certezze,
ma cadeva la notte sulle onde del corpo,
mi stringevano le ombre delle braccia lunghe
soffocando la soglia dell’ aurora.
M’inebria l’illusione che fiorisce sui prati,
chiudo gli occhi per accendere il verde,
lascerei l’oscuro solo ai sospiri,
se potessi toccare almeno le acque.
Assaggio il tardo odore di tigli
dei fiori secchi caduti sui capelli,
è il mese più caldo che fa fiorire la stagione
degli interdetti desideri;
è la colpa della Luna, delle stelle e delle acque
nate tra troppo stretti confini...
30 giugno 2007
Racul intre stele si Luna, intre cer si apa
Poveste nesfarsita
Am gasit printre stelele gandului
lumina unui dulce cuvant,
era gol fara haina metaforei
zambea din inima Lunii pe pamant.
Am privit cerul pentru a gasi certitudini,
dar noaptea cadea pe valurile corpului,
umbrele ma stangeau in bratele lungi
sufocand pragul zorilor.
Ma imbata iluzia ce infloreste pe pajisti,
inchid ochii pentru a aprinde verdele,
as lasa intunericul doar suspinelor,
daca as putea atinge cel putin apele.
Gust tarziul miros de tei
al florilor uscate cazute pe par,
este timpul cel mai cald ce infloreste anotimpul
interziselor chemari;
de vina este luna, sunt stelele si apa,
nascute intre prea stranse hotare...
30 iunie- 2007
I CENTO CHIODI
di Carla Rinaldi
Che peccato che Ermanno Olmi, il maestro incontrastato di un cinema sussurrato, reale, semplice, abbia scelto di dare l’annuncio della fine della sua carriera, dopo aver girato il suo ultimo lavoro “I cento chiodi”.
Un uomo, topo da biblioteca, scopre ormai non più giovanissimo, che cento libri non valgono un caffè assieme ad un amico e per questo, dopo aver inchiodato tanti libri antichi della biblioteca dell’università nella quale insegna, parte alla volta della vita all’aria aperta, dei rapporti genuini che tanto gli sono mancati mentre studiava notte e giorno quando era ancora un ragazzo. Mentre nell’ateneo cercano il colpevole di un gesto così tanto scellerato, il protagonista, interpretato da Raz Degan, e doppiato da Adriano Giannini, prende una macchina e durante il tragitto, per purificarsi al meglio, si ferma su un ponte e getta qualche carta di credito e lascia la macchina potente parcheggiata alla buona su un cavalcavia. Ma la cosa sconcertante è che è vero sì che si spoglia di qualcosa ma non getta nel fiume la carta di credito, il computer portatile.
Dopo aver compiuto questo insensato gesto al fine della povertà rigenerante, scova una vecchia bicocca abbandonata sulla sponda del fiume Po e piano piano gli abitanti del villaggio circostante fanno la fila per andargli a parlare. Raz diventa il messia, dispensa eufemismi, padroneggia banalmente su precetti educativi, compie facili gesti di generosità quando i suoi nuovi e unici amici rischiano lo smantellamento del loro micro borgo, e chiaramente trova la passione e il sentimento incontrastato dell’amore o di quel che sembra tale nelle forme di una giovincella un po’ tonta e sfrontata che consegna in motorino il pane alle campagne. Però come ogni bella favola il nostro Cristo viene trovato e messo una notte al gabbio dove confessa immediatamente dell’atto malsano che ha fatto. Ma esce subito e di lui il villaggio che intanto seguiva da lontano con trepidazione la sua condizione carceraria, non saprà mai più nulla e lo aspetterà invano una notte fresca e brillante di stelle incandescenti che erano lì ad accoglierlo di nuovo, proprio come si fa con il figliol prodigo che , per ricercare se stesso, commette un sacco di guai a danno sempre di altri.
Brutto questo film perché accenna solamente a tutto questo, triste la visione della società manichea e ingenua, molto lontano dalla pura poesia dell’Albero degli zoccoli, Olmi ci saluta lasciandoci un amaro in bocca e la sensazione che la retorica di questa storia è molto più letteraria che cinematografica. Eppure il maestro non credo che non avrà mai sorseggiato un caffè con un amico.
ERNESTO GUEVARA :
79 ANNI DI TUA "QUERIDA PRESENCIA"
di Silvia Garnero
in collaborazione con http://www.italianosenamerica.com/
Buenos Aires 14- 6-2007
“Rivoluzionario e leader politico Latino-Americano, il cui rifiuto a riconoscersi tanto nel capitalismo, quanto nel comunismo ortodosso, lo ha trasformato in un emblema Della lotta socialista. Per la sua veste selvaggia, romantica e rivoluzionaria, il “ Che” rappresenta oggi una leggenda per I giovani “rivoluzionari di tutto il mondo di fedeltà e devozione totale alla unità dei popoli sottomessi.”
Questa premessa, beninteso, dà conto al mondo di quanta bibliografia o racconti si possano raccogliere sul carismatico guerrigliero sud-Americano e dico sud-Americano perché sicuramente egli avrebbe voluto continuare ad essere chiamato così.
IL “Che”è stato per molti, in Argentina e nel mondo un esempio di lotta armata. Per altri, come noi che apparteniamo a generazioni più giovani, rappresenta un esempio di dignità e coerenza che molte volte noi ricordiamo come un'icona, di fronte a cui restiamo ammirati.
Il “Che” è poi morto rispetto al suo corpo e alla sua lotta, ma mai riguardo AI suoi ideali, che trascendono le frontiere e rimangono attuali, talvolta contaminate di confusione in alcuni casi, poiché nel mondo non è sempre semplice da dividere e catalogare e quindi l'enorme divario che separa tuttora il potere e la ricchezza a favore dell'ingiustizia e della fame. Questo non è cambiato.
In Italia il comandante non è meno famoso: gli intellettuali e I lavoratori di sinistra lo considerano un idolo, un rappresentante Della lotta di liberazione dei popoli oppressi e non è casuale che la sua vedova, Aleida March ,abbia scelto questo Paese per presentare IL suo libro “Evocaciones”, in cui descrive la sua vita a fianco del guerrigliero. La pubblicazione, avvenuta alcune settimane fa a Roma ha avuto un'ampia diffusione in tutta la penisola.
Per celebrarlo, queste14 giugno, giorno del suo 79° compleanno, ho scelto qualche stralcio di alcuni discorsi tenuti durante la sua vita, che mostrano la sua ribellione coerenza e personalità.
Se qualche suo detrattore potrebbe opinare che è fuori moda, che a pochi interessa la sua storia, che il socialismo è morto e che altri argomenti possono servire in molte occasioni AI suoi interessi, ma non serviranno mai a giustificare la causa di una ingiustizia, nella sua soluzione definitiva.
Nessuno si fa burla della morte. Tanti auguri Comandante!
Il “Che” e Le sue parole
"Il cammino è lungo e pieno di difficoltà. A volte per mutare rotta, ho dovuto retrocedere, altre per camminare troppo in fretta, ci separiamo dalla massa; nelle occasioni in cui lo facciamo lentamente, sentiamo il respiro vicino di quelli che ci tallonano. Nella nostra ambizione di rivoluzionari, proviamo a camminare il più in fretta possibile, aprendo sentieri, ma sappiamo che dobbiamo nutrirci della massa e che questa potrà avanzare più rapidamente solo se la incoraggiamo con il nostro esempio." (1965) “Il socialismo e l'uomo a Cuba”
“…In qualunque luogo la morte ci sorprenda, sia benvenuta, sempre che questo, nostro grido di guerra sia arrivato ad un orecchio recettivo e l'altra mano si tenterà ad impugnare Le mostre armi ed altri uomini comincino ad intonare I canti del lutto con il caricatore delle mitragliatrici innestato e nuovi gridi di guerra e di vittoria”. (1967 “Messaggio AI Popoli del mondo”)
Ai Miei figli
Carissimi Hildita, Aleidita,Camilo,Celia Ed Ernesto:
Se qualche Volta dovreste leggere questa lettera, sarà perché non sarò più tra voi. Quasi non vi ricorderete di me e I più piccoli non ricorderanno niente. Vostro padre è stato un uomo che agisce come la pensa e, sicuramente, è stato leale alle sue convinzioni.
Crescete come buoni rivoluzionari:
studiate molto per poter dominare la tecnica che permette di dominare
Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro qualcuno in qualunque parte del mondo. E' la qualità più bella di un rivoluzionario.
Arrivederci figliuoli, spero di vedervi ancora. Un bacione e un grande abbraccio da
Papá
(Lettera ai suoi figli)
REALISMO? SURREALISMO!… E
di Francesco Aronne
I giorni arroventati di fine giugno stanno paradossalmente rinfrescando il surriscaldato clima elettorale, o meglio, le tiepide temperature protese al definitivo raffreddamento, che ormai ne restano.
La “canazza” di luglio che pare in anticipo sul calendario è un potente dissuasore per ogni dispendio energetico che inevitabilmente finisce con una eccessiva ed indesiderata produzione di sudore… è tempo di mare, di relax, ombrelloni e sedie sdraio, l’attenzione del lettore è altrove...
Mormanno si appresta al tradizionale esodo dei villeggianti che trasforma in questo mese, il paese in un semideserto dalle inusitate e, per certi aspetti, gradevoli tinte, in attesa del trasbordante ripopolamento d’agosto.
Al lettore lontano che è rimasto fermo ai risultati elettorali ed all’immediato dopo voto, le cronache riportano l’insediamento della nuova amministrazione avvenuto il 2 giugno, festa della Repubblica.
La scelta della data dal forte valore simbolico (quasi a voler intendere che ad essere battuta ed abbattuta è stata una forma di monarchia), associata alla conseguente festa di ringraziamento che doveva svolgersi, così come il consiglio comunale, sulla piazza VIII Marzo, intendeva dare un tono di solennità al varo della nuova amministrazione.
Così non è stato: il consiglio comunale ha di fatto dovuto prendere atto di un nuovo componente dell’opposizione, l’efficace Giove pluvio, che per la seconda volta ha rovinato la festa ai vincitori (la prima era stata la sera dello spoglio) con una scrosciante pioggia (di saluto?) annacquando, tra l’altro, l’arido umore dei vinti.
Ma la nuova amministrazione ha dato immediata prova di non essere fatta da sprovveduti e così ha tempestivamente ripiegato nel cine teatro comunale, luogo più consono alla rappresentazione teatrale svoltasi, ed al polifunzionale poi, per la festa di ringraziamento.
Il clima del consiglio comunale è reso surreale dalla scenografia della piazza purtroppo ancora Umberto 1° (che sia proprio questa amministrazione a dare un coraggioso ed auspicato segno di discontinuità e svolta?). L’allestimento scenico adatto ad altro genere di rappresentazioni teatrali ha conferito una patina di recita scolastica all’evento.
L’accurata preparazione del consiglio in piazza, dall’indiscutibile valore simbolico (dalla gente, tra la gente, come la gente, sullo stesso piano…) è andata a farsi friggere ottenendo (sempre da un punto di vista simbolico) l’esatto contrario: l’amministrazione al di sopra della gente (sul palcoscenico), a teatro invece che nella sua naturale e legale sede, ingenuamente o volutamente ignara di quanto prevede la legge in materia.
Sorvolando sulle scaramucce, prevedibili, anche se dai toni, in qualche caso, eccessivamente esasperati, del primo match, due aspetti usciti a sorpresa dal cilindro del prestigiatore, vanno posti all’attenzione del lettore.
La prima riguarda il futuro segretario comunale già presente al consiglio d’insediamento (nuovo ma vecchio), diverso da quello legittimo del comune di Mormanno e la cui sostituzione (nel nostro caso prematura e illecita) è regolata dalla legge. Il neo sindaco ha fornito pubblicamente argomentazioni su questa assenza/presenza in netto contrasto con quelle raccolte direttamente dal segretario assente al consiglio. Chi dei due mente? Si rimandano al lettore i facili approfondimenti del caso.
La seconda riguarda la nomina di un assessore “esterno”, paradossale, già al primo consiglio comunale. Senza nulla togliere al valore dell’assessore incaricato, non si può nascondere la perplessità (peraltro già espressa su precedenti emissioni) su un metodo che vede i lottatori candidati arrancare nell’arena, contendersi a pugni di voti l’elezione, provocare lacerazioni e ferite nei rapporti parentali e di amicizia per poi registrare la nomina di chi si è sottratto al giudizio del voto popolare. E poi in questi giorni, a ogni ora su ogni canale radiotelevisivo, s’odono tutte le cariatidi (dai portaborse lustrascarpe fino alle più alte cariche istituzionali) consumate nei lamenti di uno scrosciante pianto greco sulla crisi della politica… basterebbe che questi guardassero le loro azioni allo specchio per vedere il nulla riflesso, il vuoto, l’abisso dell’ipocrisia.
Ma torniamo al nostro pio borgo. L’ansia di governare, conseguente ad un lustro di digiuno, fa registrare un “impeto” amministrativo che non lascia dubbi sui voraci appetiti in questo tempo maturati. Le prevedibili epurazioni (visti i toni della campagna elettorale) avviate e malamente celate dall’amministrazione appena insediata, dovrebbero portarci a fare una riflessione. E’ legittimo indignarci e protestare mettendo alla berlina tali metodi quando a epurare sono gli altri (anche se gli epurati si chiamano Biagi, Santoro o Fazio). E’ dignitoso e d’obbligo invece, in questi casi, tacere se quei metodi sono intimamente condivisi e, ove e quando possibile, applicati… E’ qui che la politica è vecchia, piatta e raggomitolata su se stessa. Il know-how acquisito in ambito gestionale amministrativo, non dovrebbe essere liquidato con faciloneria, dando così di fatto priorità all’appartenenza politica sulla reale competenza posseduta. Gli avvicendamenti (non sempre deleteri, anzi…) dovrebbero seguire comunque percorsi atti ad impedire shock gestionali. Sembra invece che il tutto si riduca, ovunque ed indipendentemente dalla compagine che governa, ad una altalenante occupazione da parte di scaldapoltrone a cui si saldano assurdi debiti elettorali. Che poi a farne le spese, come sempre, è il cittadino a cui si rifilano costosi servizi lenti e scadenti, pare che a nessuno importi più di tanto.
Ma queste sono solo personali opinioni (che a nessuno è dato di impedire), le responsabilità sono di chi governa ed è pertanto a chi governa che spettano le decisioni.
La nave è dunque salpata, come detto a frusci di scopa nuova si sovrappone la puzza di vecchie mutande, ma in ogni caso è presto per ogni valutazione.
L’amministrazione eletta è chiamata ad amministrare e dare le risposte che in molti cittadini, suoi elettori e non, legittimamente si attendono.
Vedremo quanto sarà efficace l’opposizione a cui è demandato l’importante ruolo di vigilare sull’attività amministrativa e quanto onorerà il mandato ricevuto da quasi metà degli elettori. Vedremo anche quanto peserà la dialettica tutta interna ai vincitori e tra questi come i vincenti reali si rapporteranno ai con-vincenti, ma non convincenti compagni di cordata.
Buone vacanze Mormanno!
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Il quadro riportato nel francobollo è “La reproduction interdicte” di Renè Magritte, autore che in assoluto preferisco tra i surrealisti e a cui sono approdato tardi e solo dopo le adolescenziali letture limitate a Tex Willer. Il libro, che a differenza del suo lettore, si riflette nello specchio, potrebbe essere benissimo un “Manuale di tecniche di onanismo mentale”, tipologia di testo di cui fino a qualche giorno fa ignoravo l’esistenza. Mai avrei pensato che qualche autore avesse trovato utile scrivere sull’argomento, ancor meno che una tale improbabile opera avesse trovato interessati acquirenti… Evidentemente in entrambi i casi mi sbagliavo. Non sequitur.
[1] L’acquasantiera è stata rubata da qualche anno, certamente su commissione, come è purtroppo avvenuto a tante altre opere d’arte sacra, lasciate incustodite. A Laino Castello, ad esempio, dopo l’abbandono del paese negli anni ’80, fu completamente vandalizzata la parrocchiale di San Teodoro. Di tale scempio conservo documentazione filmata ed inedita.
[2] Vedi il mio: Mormanno un paese… nel mondo 1a edizione
FARONOTIZIE.IT - Anno II - n° 16, Agosto 2007
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