FARONOTIZIE.IT  - Anno I - n° 8Novembre 2006

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

LA SCOMPARSA DEI SOMARI

di Giorgio Rinaldi

 

A parlare di asini alle nuove generazioni si fa fatica.

Non ne esistono più, sono pressoché estinti.

Anni addietro i paesi, specialmente nell’Italia meridionale, ne erano pieni.

Ora ne resta  il disegno in qualche edizione di Pinocchio e qualche esemplare in alcuni paesi della Puglia, della Sicilia, della Sardegna, in un’azienda romagnola – dove stanno cercando di reimpiantarli – e a Roma, in pieno centro, dalle parti di piazza Montecitorio.

Qui è l’unico posto al mondo dove alcuni campioni di una specie rara, perché bipede, si  autoproteggono.

 

Il Parlamento Italiano, che ha visto i migliori cervelli di questo Paese dare i natali alla nostra democrazia e concepire leggi, come la nostra Carta Costituzionale, di importanza fondamentale, oggi è infettato da qualche squallido portaborse e da diversi miracolati delle segreterie dei partiti.

Accanto ad uomini di grande levatura politica e intellettuale, hanno allignato degli “onorevoli” signori che, al costo per la collettività di circa 21.000,00 euro mensili (avete letto bene, quasi mezzo miliardo delle defunte lirette all’anno!), euro più, euro meno, tra stipendi, rimborsi, contributi, vitalizi, prebende, oltre a tessere di libera circolazione per aerei, treni, cinema, teatri etc., etc., non sanno cosa sia la CONSOB, il Darfur, Guantanamo, chi sia Nelson Mandela ed altre…amenità.

La legge elettorale (quella che lo stesso relatore della Lega Nord, l’odontotecnico on..Calderoni definì una porcata)  ha messo nelle mani delle segreterie dei partiti la possibilità di designare in partenza chi sarebbe dovuto diventare parlamentare e chi no, visto che noi elettori non abbiamo potuto votare scegliendo tra i candidati.

 

Così, oggi noi dobbiamo pagare un lauto stipendio a persone che dovrebbero essere di tale intelligenza e cultura da fare le leggi, salvaguardare l’economia, garantire la nostra sicurezza, salvaguardare la nostra democrazia, intessere rapporti internazionali e, invece, non distinguono una regione martoriata dalla guerra come il Darfur (dove l’Italia è presente con ONG ed aiuti alimentari) dal fast food (anche di fretta, Franza o Spagna purchè se magna!).

 

La trasmissione televisiva “Le iene”, con le interviste rivelatrici dell’abissale ignoranza di alcuni parlamentari mandata in onda qualche settimana fa,  ha gridato: “il re è nudo !”

E, noi tutti, che guardavamo senza vedere, finalmente abbiamo visto il re, in tutta la sua bruttezza.

E’ necessario ridare immediata credibilità al Parlamento trovando le soluzioni adeguate perché vi sia una maggiore selezione per le persone da candidare, perchè all’elettore venga ridata la possibilità di scelta dei propri rappresentanti e siano introdotte norme severissime per la campagna elettorale: budget (anche solo a carico dello Stato, per garantire equità di partecipazione a tutti!), tempi e spazi pubblicitari a radio, tv, giornali etc uguali per tutti.e l’obbligo di rispondere, in una sorta di conferenza stampa pubblica allargata, alle domande di chiunque e su qualsiasi tema di interesse generale. Ovviamente, fedina penale immacolata.

 

Forse così, eliminando un buon numero di semianalfabeti, potremmo finalmente garantirci delle leggi idonee, chiare e utili.

E  i ciucci smascherati dalle “Iene” ?

E’ più che ovvio che non avranno il pudore di dimettersi e rinunciare tout court alle immeritate prebende.

 

Sopporteremo anche questo costo, ma che almeno siano mandati in qualità di “osservatori” (a certi livelli l’eleganza delle parole è necessaria) a studiare il comportamento dei miti asinelli, magari anche all’estero (Spagna, Grecia, Messico), perché possano così rendersi conto dell’immeritato accostamento che ne fece Collodi, che non aveva conosciuto ancora i veri sosia di Lucignolo.


 

 

PENSIERI SULL’OCCHIO DEL MIGRANTE

di Raffaele Miraglia

 

Pensate a un mondo senza televisione e senza cinema.

Pensate a un mondo in cui anche le fotografie sono rare.

 

Poi pensate, come sto facendo io, al fratello di mio nonno che a 23 anni lascia Terranova di Pollino, va a Napoli, si imbarca sul piroscafo Cedric e il 30 dicembre 1906 sbarca a New York (o, meglio, inizia la quarantena a Ellis Island)

 

Pensate a cosa vede, con che spirito lo vede e capirete l’espressione “Nuovo Mondo”.

 

Oggi è tutto diverso e non possiamo nemmeno immaginare una cosa simile.

Oggi, per esempio, Richard, nipote del fratello di mio nonno e Director of Bureau of  Forensic Services and Criminal Procedures of New York State Office of Mental Health (OMH), dialoga via mail con me.

 

Eppure il “Nuovo Mondo” esiste ancora. E può essere l’Italia.

 

Ormai da qualche anno persone giunte da altri continenti o dai paesi situati ad est dell’ex cortina di ferro bussano al mio studio.

Sono persone molto, ma molto diverse fra loro.

La maggior parte di loro non dimostra segni evidenti di ... straniamento, ma ...

 

L’altro giorno mi ha telefonato una signora per chiedere un appuntamento. Al telefono mi chiamava “doctor” e si è scusata perché conosceva poco l’italiano.

Ho la fortuna di avere lo studio in una delle zone più piacevoli di Bologna, ma la sfortuna di averlo su una strada dal nome difficilmente comprensibile persino per gli italiani. Ogni volta che dò l’indirizzo, devo fare lo spelling. E con la signora di lingua spagnola ho iniziato: C, como caballo, A, como Amor, P, como Pinto, R, como Ramon. A questo punto ho sentito la sua voce dirmi “Gracias doctor, gracias!”. E l’intonazione non lasciava dubbio: mi stava veramente ringraziando di cuore.

 

Dopo due giorni nella sala di aspetto ho visto una signora chiaramente mezzosangue. Tratti da india, statura da india, ma pelle e colore dei capelli chiari da europea. Le ho dato qualche anno in meno di mia madre, ma ho scoperto che aveva la mai età.

Per metterla a suo agio le ho detto “Usted puede ablar Espagnol” e le ho parlato mischiando parole spagnole e italiane e parole che in cuor mio credevo spagnole, ma che erano solo un italiano storpiato

Mi rendevo perfettamente conto che la stanza in cui la stavo ricevendo era sicuramente più grande della casa (casa?) in cui aveva abitato in Perù.

E quando ho scoperto da che parte del Perù arrivava, ho pensato al fratello di mio nonno.

 

Non so se la parola Ayacucho vi dica qualcosa.

Se non vi dice nulla, pensate alle Ande e a Sendero Luminoso.

 

E pensate ad una donna che a quarantanni lascia lì figli e marito e in qualche modo – uno strano modo – arriva a Bologna e ... si mette a servizio in famiglia.

 

Pensate al suo “Nuovo Mondo”.

 

Sono sicuro, arcisicuro, che questa signora di televisione e di film ne aveva visti pochi.

Passate da una vita in una baracca ad una vita in una villa sui colli di Bologna.

Così, come se niente fosse.

E vivete questa avventura con l’ansia di chi non ha la più pallida idea di cosa vogliano i suoi nuovi padroni, di come è fatto il posto dove è arrivata e di chi deve fare di tutto per far sì che i suoi figli riescano a raggiungere il “Nuovo Mondo”.

 

Cosa vorranno i padroni?

Qualche anno fa assunsi come collaboratrice domestica una ragazza appena giunta da un paesino montano del Marocco.

Al termine del suo primo giorno di lavoro tornai a casa e trovai tutto il bucato stirato e ... disteso su ogni superficie possibile. Perfettamente stirate e distese sul letto, sul divano, sulle sedie e su un tavolo stavano la mie camicie.

Dopo un attimo di smarrimento capii.

Aveva fatto del suo meglio, ma non poteva immaginare che io le camicie le piegavo e le mettevo in un cassetto.

Il filippino, che è arrivato a casa mia quando lei ha preferito dedicarsi al suo primo figlio, mi ha fatto subito trovare le camicie perfettamente piegate.

Ho scoperto, poi, che lui ha frequentato una scuola tenuta da suoi connazionali appena è arrivato in Italia. Qualche volta adesso è lui che fa l’insegnante. E le lezioni le tiene – altra scoperta - anche ... a casa mia.

 

Com’è la città?

Mi è capitato di trovarmi in posti dove tutte le scritte e le indicazioni sono in ideogrammi cinesi o in alfabeto birmano o in quello hindi o tamil.

Vi assicuro che è difficile orientarsi.

La città di Shangai si scrive in cinese con un unico, semplicissimo, ideogramma.

Eppure, in una non tanto sperduta località cinese, dopo aver, con estrema difficoltà e solo grazie al Cantonese phrasebook, raggiunto l’agenzia di viaggi e dopo aver trovato una gentilissima impiegata che non parlava inglese, ma ebbe la meravigliosa idea di prendere su il telefono e di costruire una conversazione a tre, tra me, un cinese che parlava inglese e lei, quando finalmente mi trovai di fronte ad un biglietto aereo scritto in cinese, quell’ideogramma lo guardai una decina di volte per essere sicuro che mi avessero venduto un biglietto per Shangai.

 

Pensate cosa voglia dire arrivare a Bologna e orientarsi non in una lingua diversa, ma in un alfabeto diverso. Considererete fortunata la signora di Ayacucho.

 

Ma potete pensare a quanti altri esempi si possono fare e a quante cose nuove e strane vede l’occhio del migrante.

 

E a questo punto pensate a tutt’altro, a quegli italiani che si appassionano a modo loro per gli “Italiani nel mondo”. A quelli che vi parlano orgogliosi di come grazie agli “Italiani nel mondo” la nostra cultura e la pizza e gli spaghetti si siano diffusi e, subito dopo, vi dicono che gli stranieri stanno minando la nostra identità (ma, allora, gli “Italiani nel mondo” hanno minato l’identità altrui?).

 

In questo caso, immagino, mi invidierete.

Io, con sollievo, posso rispondere: il mio tris trisavolo era un albanese!

E ha minato a tal punto l’identità italiana che neanche io me ne sarei accorto, se non mi avessero fatto vedere uno di quei libri sull’origine dei cognomi.


 

LA FINANZA ETICA ESISTE E COME !

di Nicola Perrelli

 

In questi anni il sistema produttivo dei Paesi occidentali sta subendo profonde trasformazioni per l’allargamento dei mercati. Tutti i  soggetti economici , dalla multinazionale americana al conducente di risciò di  Nuova Delhi, direttamente o indirettamente,ne vengono influenzati.

 

Si tratta di cambiamenti rilevanti che non possono non coinvolgere , visto il modello di sviluppo economico che caratterizza quasi l’intero pianeta, anche i rapporti  fra i soggetti che prestano denaro e quelli che invece lo chiedono. La ricerca di sistemi di analisi sempre più efficaci per valutare la capacità di rimborso dei debitori ha trovato una risposta,seppure parziale, nel nuovo Accordo internazionale ratificato nella città di Basilea, dalla quale ha preso il nome.

 

I presupposti dell’accordo si basano oltre che sui nuovi metodi di calcolo del rischio di credito e sulla supervisione degli organi di vigilanza, anche e soprattutto sul ricorso ad una nuova disciplina dei rapporti , ora più costruttivi e fondati sulla massima trasparenza e fiducia. E’ questa  la vera novità : il maggiore interesse  per le prospettive economiche e strategiche e non per l’acquisizione di garanzie da chi chiede soldi in prestito. Il dialogo più intenso  contribuirà a conoscersi meglio, a trovare la migliore soluzione di credito in base al contesto, a valutare non solo la redditività periodica quanto soprattutto la capacità di realizzarla nel tempo, ad adeguare e differenziare le garanzie per gruppi omogenei di operatori, ad ampliare e valorizzare nuovi strumenti di mitigazione del rischio, che in soldoni significa poter ottenere finanziamenti a condizioni più vantaggiose.

 

Criteri innovativi ? Principi validi universalmente ? Non direi. La finanza tradizionale con i suoi complessi meccanismi, comunque essenziali per il mercato, non può sostenere, se non con della beneficenza,  l’economia della povertà , qui servono  idee più semplici. Come l’idea di fare credito ai “non bancabili”, ovvero a quelle persone senza requisiti finanziari e culturali che mai otterrebbero un prestito dalle banche, che venne nel ’72  all’economista M. Yunus, neo  Nobel per la Pace, premiato con la seguente motivazione: “ Ogni persona sulla Terra ha la possibilità e il diritto di vivere una vita rispettabile. Attraverso le culture e le civiltà , Yunus e la Banca Grameen hanno mostrato che anche il più povero dei poveri può lavorare per il proprio sviluppo…. La pace duratura non può essere ottenuta a meno che larghe fasce della popolazione non trovino modi per uscire dalla povertà.”

 

All’epoca, da professore all’università di Chittagong in Bangladesh ebbe modo di venire a contatto con la povertà del posto, di assistere alla quotidiana lotta di quella gente per la sopravvivenza. Constatò di persona l’evidente divario che esisteva tra ciò che insegnava come economista e la realtà misera dei villaggi. In uno di questi viveva Sufia, una giovane donna,madre di tre figli, intrecciatrice di bamboo che lavorava alla giornata per 2 centesimi di dollaro, un guadagno inadeguato per accumulare i 22 centesimi necessari per acquistare in proprio il materiale, rendersi indipendente dal datore di lavoro e dare cosi una svolta alla sua vita.

Una svolta che arrivò per lei e per altre 42 famiglie da un prestito di soli 27 $ che il professore,di tasca propria,accordò senza pretendere alcuna garanzia.  Somma  che gli fu poi  restituita interamente e puntualmente.

 

Negli anni seguenti l’esperimento continuò e diede risultati insperati. L’idea di aggirare le garanzie personali responsabilizzando  in solido il gruppo di appartenenza si dimostrò vincente. Con i piccoli prestiti, in genere tra i 25 e i 160 $, sempre più gente riusciva a venire fuori dalle sacche della povertà e  realizzare speranze.

 

Nasceva cosi nel 1976 , sullo scetticismo delle locali istituzioni finanziarie che prefiguravano il fallimento dell’iniziativa per insolvenza dei debitori, la Grameen Bank. La Banca etica fondata sull’idea innovativa di concedere un credito “inclusivo” a beneficio della sconfinata platea dei diseredati del Bangladesh.

 

“ La povertà, - secondo il futuro premio Nobel, - non è creata dalla mancanza di capacità, ma dalle istituzioni. La carità non è la risposta.”

E’ questo il presupposto della Banca dei poveri, l’altro nome della Grameen bank, concedere microprestiti, a tassi adeguati, a favore di piccolissime attività imprenditoriali. Un’idea semplice, che ha istituzionalizzato e introdotto nel mercato il “microcredito”, basata sulla presunta affidabilità di una categoria di persone che, pur non potendo offrire garanzie e coperture,  è sicuramente meritevole di ottenere denaro in prestito.

 

Oggi la Grameen bank è una realtà fatta di 2226 filiali, che ha prestato  circa 6 miliardi di dollari ad oltre 6 milioni di clienti, costituiti in buona parte da donne, quasi il 95%,  perché ,come aveva sperimentato personalmente lo stesso Yunus, “passando per le mani delle donne,il credito portava a cambiamenti più rapidi di quando era gestito dagli uomini”. Con un bassissimo tasso di insolvenza, meno di un punto percentuale. Ineguagliabile per le banche tradizionali. E , sorpresa… produce anche utili.

 

Attualmente il modello di microcredito della Grameen bank   si e’ diffuso in moltissimi Paesi del mondo,dall’Africa all’America Latina, comprovando che con i piccoli prestiti ai poveri  si riesce a fare di più di quanto si fa con gli aiuti convenzionali e  di Stato.

Il dibattito sulla dimensione etica della finanza è ormai aperto. Da quel lontano 1972  una nuova cultura regola gli investimenti finanziari che  sostengono le piccole attività e il progresso socio-ambientale dei Paesi sottosviluppati. La finanza etica  pone, dunque, come punto di riferimento la persona e le sue esigenze e non il capitale. Il denaro deve essere impiegato in attività che soddisfano aspettative e rispondono a determinati requisiti di responsabilità sociale.

Il prof. Yunus e la Grameen bank sono stati premiati “ per i loro sforzi di creare sviluppo economico e sociale dal basso…”

 

RISCHIO IDROGEOLOGICO E DIFESA DEL SUOLO: TRA EMERGENZA E PIANIFICAZIONE (parte seconda)

di Nedo  Biancani

 

 

Nel nostro paese i programmi di previsione e prevenzione del rischio idrogeologico si inseriscono in un quadro legislativo molto complesso ed articolato, in quella che è ormai una caratteristica deleteria ormai entrata a far parte del DNA della nostra produzione e cultura normativa, del quale è necessario tener conto nelle diverse fasi della programmazione per razionalizzare le attività.

 

Gli interventi di Difesa del Suolo sono regolati dalla legge 18 maggio 1989, n. 183, "Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della Difesa del Suolo", integrata dalla legge 3 agosto 1990, n. 253, "Disposizioni integrative alla legge 18 maggio 1989, n. 183". La legge 183/1989 suddivide i bacini idrografici ricadenti nel territorio nazionale in: bacini di rilievo nazionale, bacini di rilievo interregionale, bacini di rilievo regionale.

Per ciascun bacino si deve predisporre il Piano di bacino che è "lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d'uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo e la corretta utilizzazione delle acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato". Per rispondere all'esigenza di prevenire il rischio geologico-idraulico e per accelerare quanto previsto dalla Legge quadro 183/89, è stato emanato il Decreto Legge 180/98, convertito e modificato dalla Legge 267/98, con l'intento di avviare un programma finalizzato all'individuazione e alla delimitazione delle aree a rischio geologico-idraulico nell'ambito del territorio nazionale e di  predisporre adeguate misure di salvaguardia atte a rimuovere le situazioni a rischio più elevato. Tali interventi, generalmente realizzati attraverso il ricorso a opere di ingegneria civile e idraulica, hanno lo scopo di mitigare il livello di rischio attraverso la riduzione sia della pericolosità (intensità ) dell'evento atteso sia della vulnerabilità dei soggetti a rischio.

 

Tuttavia, al di là dell'indubbia necessità e utilità di interventi di tipo strutturale per la mitigazione del rischio geologico-idraulico, è necessaria l’adozione anche di misure di salvaguardia non strutturali, essenzialmente a carattere preventivo. La loro efficacia risiede, oltre che in una adeguata e ordinaria manutenzione del territorio, in una corretta politica di programmazione e pianificazione territoriale da effettuare a valle di una accurata conoscenza dei processi morfogenetici naturali che guidano l'evoluzione del paesaggio, soprattutto in fase di redazione del Piano Regolatore Generale, con l'imposizione di vincoli di tipo urbanistico, l'emanazione di mirate regolamentazioni edilizie, la scelta di una idonea disciplina circa l'uso del territorio nelle aree maggiormente vulnerabili. Queste soluzioni possono essere integrate dall'applicazione di vincoli e prescrizioni riguardo alle pratiche agricole e alle modalità d'uso agro forestale del suolo.

Non ultima, è opportuna e decisiva anche una maggiore responsabilizzazione dei privati cittadini nella corretta localizzazione dei manufatti da inserire nel territorio.

 

I Programmi di previsione e prevenzione nazionale, regionali e provinciali sono i documenti programmatici che, sulla base della ricognizione delle situazioni di rischio presenti sul territorio, definiscono le azioni di Protezione Civile finalizzate alla riduzione del rischio. Essi devono costituire il punto di riferimento per la determinazione delle priorità e delle gradualità temporali degli interventi e per la identificazione dei fabbisogni finanziari. Alla attuazione dei Programmi provvedono, per quanto di loro competenza, diversi Soggetti (Il Dipartimento di Protezione Civile, i Servizi Tecnici Nazionali, le Autorità di Bacino Nazionali, le Regioni e le Province), contribuiscono inoltre per la parte di loro competenza alcuni Enti subregionali, l'ANAS, l'ENEL, le FF.SS ed altri enti territoriali.

 

È però evidente che la politica dei due tempi (vale a dire la predisposizione, prima, di una completa e dettagliata ricognizione delle situazioni di rischio, e solo successivamente, della programmazione degli interventi) appare poco efficace, sia per i ritardi che possono in tale prospettiva accumularsi, sia perché nei fatti in tutto il territorio nazionale la conoscenza del rischio idrogeologico, anche se non sempre sufficientemente organizzata, è ampia, e può consentire un primo livello di programmazione degli interventi.

Ne deriva la necessità di procedere per fasi successive, con una programmazione dinamica, che in una prima fase oltre a realizzare gli elaborati sulla base delle conoscenze disponibili, programmi anche le indagini e gli approfondimenti necessari ad una migliore conoscenza delle situazioni di rischio che possa servire da base per i successivi approfondimenti.

 

Questa esigenza di periodici aggiornamenti deriva anche dal fatto che il quadro del rischio idrogeologico subisce frequenti modifiche sia perché cambiano i livelli di antropizzazione e si realizzano sempre nuovi interventi di sistemazione, sia perché aumenta progressivamente il grado di conoscenza del territorio.

 

 

 

Basilica di San Petronio, Bologna     

MERIDIANA COSTRUITA DA GIOVANNI DOMENICO CASSINI, STRUMENTO ASTRONOMICO SUL PAVIMENTO DELLA BASILICA.

Intervento di restauro ed alcune osservazioni sui

problemi di conservazione

di Camillo Tarozzi

 

La Meridiana di San Petronio è un complesso di opere che costruiscono nella Basilica  uno strumento heliometrico, utile cioè alla visualizzazione dei movimenti solari ed alla misura dei suoi spostamenti, seguiti sulla proiezione dei raggi solari, che dal foro aperto sulla volta laterale si proiettano sul pavimento lungo il tracciato predisposto.

Il restauro di uno strumento di tale importanza  storica dovrà tener conto di varie necessità inerenti alle esigenze di conoscenza, studio e precisione che la comunità scientifica richiede.

 

Lo stato di fatto

La linea meridiana, che si prolunga per 67 metri, è una sottile lista  di ottone inserita nella fessura mediana di lastre di marmo poste in sequenza rettilinea, costituite da una pietra veronese di colore tendente al giallo, levigata ed incisa a scalpello di precisione con decori di carattere astronomico e misurazioni dello spazio espresse in cifre, punti e numeri romani ed arabi. Questa opera è verisimilmente quella posta da Eustachio Zanotti nel 1776. I decori che paiono di forma iconograficamente più antica potrebbero essere stati ripresi con punta di scalpello in quella data.

 

Uno scavo appositamente eseguito nel novembre 2004 all’altezza della Cappella Bolognini ha consentito di misurare lo spessore della pietra in mm. 88 circa. La faccia verso l’alto è stata levigata e lucidata al contrario di quella immersa nella malta di coccio e calce. A suo contorno e a sostegno della immutabilità della sua collocazione è una seconda fascia di marmo rosso di Verona che la stringe ai lati.

 

Lo stesso marmo, ed  in misura appena minore il marmo giallo reale delle montagne vicentine, che poi viene estratto in monti vicini alle due città, ha la caratteristica di offrire in larga misura e piena evidenza l’intera serie di inconvenienti indotti dalla esposizione agli agenti atmosferici. Le  sollecitazioni di tipo meccanico dovute al passaggio del pubblico non possono che enfatizzare i processi di normale alterazione, che non è bastata una colata approssimativa di resina, posta di recente, a fermare.

 

Si ricorda che la struttura granuloblastica del marmo è costituita da cristalli che si trovano intimamente collegati senza un legante specifico, tenuti insieme da forze di interazione derivate dalla tipologia genetica di  formazione. Ogni stress meccanico, fisico o chimico si trova ad aggredire la compattezza della struttura là dove elementi di discontinuità materica, quel cangiare dei colori che rende peraltro il marmo così apprezzato, e quindi la presenza di umidità che si dirama a ragnatela nelle microfessure, compone nuovi e rinnovati disegni che si evidenziano dapprima con piccole esfoliazioni e poi con sempre più larghe lacune.  Le operazioni di finitura, levigatura e verniciatura, dovrebbero di solito ovviare alla gran parte delle micro e macrofratture che danno inizio al deterioramento, ma il calpestio ed il riprodursi di circostanze chimicamente modificatrici ( primo fra tutti il formarsi di granuli e strati gessosi) ripropone solitamente un fenomeno disgregativo pressoché costante nel tempo.

 

Nel nostro caso la parte solida dell’agglomerato, più chiara e resistente allo scalpello, si alterna  a parti in cui il componente povero ed incongruo, per essere costituito da solfati ed  argille debolmente compattate, minerali ferrosi e pomici sabbiose, si sgretola a vista, scalzato dai tacchi e dallo strofinamento dei piedi aiutato dall’umidità emergente e dai materiali chimici usati per la pulizia.

La granulometria così scomposta e caratteristica dipinge la pietra ammonitica di Verona con disegni che la fanno variegata ed incantevole ma con caratteristiche che la confinano alle lastricature di grandi superfici: ad essa manca la solidità della pietra compatta, e la sua durata nel tempo in perfette condizioni è proporzionale alla resistenza delle sue parti deboli, le più rosse  e cariche di ferro. .

 

 

Nella parte con decori incisi con punta di metallo sottile, le figure sono in parte irriconoscibili ove il segno dello scalpello è stato levigato dallo sfregamento da calpestio o da antichi trattamenti di pomiciatura e levigatura.

Malauguratamente  le antiche raffigurazioni dei decori della Meridiana del Cassini, belle incisioni coeve e di poco posteriori, mancano della necessaria fedeltà alla esecuzione di una copia esatta dei segni mancanti, ed allo stesso tempo non è reperibile una loro adeguata documentazione fotografica. Il calpestio cui è in continuo sottoposta ha con il tempo enfatizzato la debolezza intrinseca della superficie della  pietra, e in molti punti non sempre l’incisione che resta è totalmente visibile. L’attuale intervento ha quindi approfondito lo scavo delle lettere, dei numeri e dei disegni e dei punti di riferimento, fino ad evidenziarli  come in origine con il contrasto del colore scuro.

 

Solo nella fase finale dei lavori è stato possibile quella insistenza  nella esecuzione di nuovi segni laddove non si riconosca più il corso del disegno: che in fase di impostazione sono  certo da limitare, per via del rigore filologico con il quale si è cercato di impostare l’intero intervento.

I numeri invece sono stati tutti ripresi nella loro forma e profondità con scalpelli acuminati in acciaio temprato a mano, una sorta di “ferro forgiato” all’antica che tenga a sufficienza l’affilatura, ma al contempo non possa sbrecciare una pietra così disomogenea quale quella veronese, come ahimè fanno i moderni scalpelli in acciaio, diamante  e tungsteno.

 

 

Il trattamento è stato preceduto da una attenta perlustrazione analitica e fisica dei componenti strutturali delle pietre e del loro sistema di alterazione, dal momento che ad occhio è già possibile verificare, e quindi ridurre in schema grafico, l’entità del degrado e la sua distribuzione.

 

La pulitura viene eseguita con impacchi di cellulosa e tensioattivo (desogen) come solitamente intesa per asportare cere ed oli , ciò che aiuta l’effetto ottenibile con acqua distillata, e con una asportazione di sali minerali incongrui e dannosi,  solubili in acqua e quindi parzialmente estraibili.

Soltanto con piccoli scalpelli è stato possibile eliminare le incongrue stuccature eseguite in passato con colate di resina epossidica, e prima ancora in altri interventi di rattoppatura, con stuccature di malta cementizia integrata da coccio pesto ( quelle a calce sono già nel frattempo scomparse per polverizzazione da calpestio).

 

Le lacune di grande dimensione o di evidente impatto visivo sono state , una volta ripulite, riempite con frammenti della stessa pietra ancorati con resina epossidica  e stuccate con inerte adatta all’ottenimento di un colore e di una granulometria identica a quella circostante punto per punto, una sorta di integrazione pittorica volta a ricostruire unitarietà alla superficie colpita. Con l’intento beninteso di rifinire con una levigatura a mano le aree lavorate, e con la decisione di operare con lo scalpello fine ed acuminato alla ripresa delle decorazioni scomparse. Si è messa in atto  la stessa logica operativa con cui sono condotti i lavori in corso sul pavimento lapideo del Duomo di Siena, in quello di San Pietro in Vaticano ed in Santa Maria Maggiore a Roma.

Per rendere meglio conto del tipo di lavorazione, si ricorda l’operato del dentista che ripara lo smalto del dente con una otturazione  che si ancora nel profondo delle cavità, e poi appiana in superficie fino ad imitare il colore dello smalto circostante con un impasto colorato ed intonato di resine bicomponenti che contiene polvere di  marmo  finemente tritato, reso liscio con piccoli strumenti abrasivi, indurito con emissioni di raggi UV e lucidato con testine diamantate finissime, fino ad ottenere una integrazione che scompare nel colore del dente risanato.

 

Benché appaia strambo il paragone fra professioni tanto diverse, è motivo di orgoglio, oltre che utile, ricordare che il naso della Madonna nella  Pietà di Michelangelo,  distrutto dalla martellata di un pazzo, è stato ricomposto con la stessa materia e la stessa tecnologia con cui sono state  rassettate le cavità del piano di lettura “ cariato”della nostra meridiana.

 

Già si potrà pensare ad un piano conservativo per il futuro che imponga ai visitatori un rispetto per questo strumento scientifico che per propria naturale disposizione costituisce il piano di calpestio. Per ora ci si limita a richiedere l’apposizione di cordoni che possano ordinare il passaggio, con il suggerimento o l’ordine esposto di non calpestare il manufatto.

 

Si è posto il problema, su alcune zone particolarmente degradate nelle fasce esterne in rosso di Verona, di intervenire distaccando  la parte superficiale di intere lastre per uno spessore di 22 millimetri e sostituendole con lastre identiche tagliate ad hoc da pezzature antichizzate, con procedimenti manuali ed artifizi tradizionali volti ad ottenere l’imitazione della superficie originale. Tale trattamento impone la rimozione di piccole parti del pavimento “acciottolato “ circostante, intervento che dovrà comunque essere nei programmi di restauro complessivo della Basilica.

 

Direttore dei lavori l’ing. Domenico Rivalta

Sovrintendente per i beni Architettonici e del Paesaggio Arch. Sabina Ferrari

Hanno collaborato Marta Parmigiani, Marco Pasqualicchio, Mattia Satta, Laura Danti

Il finanziamento è sostenuto dalla  Fondazione Carisbo

 

 

 

 

NICCOLÒ  PERRONE

di Luigi Paternostro

 

L’abate Niccolò Perrone fu uno dei più eleganti latinisti italiani del XIX secolo.

 

Nacque  a Mormanno il 20 gennaio 1819.  Suo padre, Flavio, era medico reputatissimo in quella terra, nella quale aveva ben meritato il Parroco Isidoro Perrone per carità di animo, ed eransi distinti per virtù d’ingegno Nicolò Perrone seniore che fu Arcidiacono della Cattedrale di Cassano Ionio, e Pietro Perrone, frate domenicano , che professò matematiche nei seminari di Bojano e d’Isernia. A quel tempo la scuola era vivificata dall’ambiente purissimo e benefico della famiglia, nel grembo della quale spesso sorgeva. Il Perrone durò, in tutta la sua gioventù, lo studio delle buone lettere presso suo padre[1].

Studiò poi nel seminario di Boiano e in quello di Cassano. Qui fu ordinato sacerdote il 21 settembre 1841.

 

Nel 1847 si trasferì a Napoli. Nell’aprile dell’anno successivo, presentato da Luigi Settembrini, ebbe il posto di insegnante in una scuola pubblica.

Sorpreso dagli avvenimenti del 1848 e soprattutto dalle fucilate del 15 maggio dirette dai mercenari svizzeri ai deputati e al popolo in tumulto, per non subire persecuzioni, reazioni e processi[2] l’anno successivo, si recò, o meglio fuggì, a Mormanno. Risultava, come oggi si dice “un sorvegliato speciale” sia per amicizie urbane sia per i rapporti con letterati lucani cui aveva indirizzato una Risposta sull’ Arpa Lucana.

Nel 1860 ritorna a Napoli e riprende ad insegnare latino, senza nulla chiedere e nulla ottenere dagli amici del ’48 . 

Nel 1862 fece un giro nell’Italia superiore, ripetendolo poi nel 1870. In questi viaggi conobbe i letterati più rappresentativi della cultura italiana. Da essi fu conosciuto, apprezzato e stimato.

    

Furono: Tommaso Vallauri[3], Atto Vannucci[4], Niccolò Tommaseo, Andrea (conte) Maffei[5], Aleardo Aleardi, Terenzio Mamiani Della Rovere,  Alessandro Manzoni.

Il Mamiani riteneva i suoi versi gemme di squisita eleganza latina e il Manzoni, in una lettera a lui indirizzata, gli scriveva tra l’altro:

Ella mantiene all’Italia il pregio di essere ancora maestra alle altre nazioni per tener vivo e fiorito il bel sermone dei suoi gloriosi antenati.

Pochissimi in Italia scrivono latinamente com’Ella scrive; pensando latino, non vestendo di pannucci latini concetti e forme meramente italiane  ”.

Nel 1870, il Nostro concorre insieme a molti altri per un posto di professore pareggiato presso la cattedra di letteratura latina della Regia Università di Napoli. Vincitore, insieme al posto, gli fu pure assegnata, motuproprio, dal Re Vittorio Emanuele II, la Croce di Cavaliere in considerazione dei particolari requisiti letterari.

 

Nonostante gli onori ed il valore professionale, non avendo adeguati proventi che gli potessero consentire una vita dignitosa, si costrinse a vivere nell’angolo di una soffitta.

Non gli venne meno tuttavia quello spirto guerrier di alfieriana memoria, né quella insita capacità, quasi connaturata, di poetare in latino, improvvisando secondo l’estro ed il momento.

Guardando nel buio di una fredda sera invernale la pergamena della conferita onorificenza, preso da uno slancio improvviso, vi scrisse a margine i seguenti distici:

 

Das crucem misero, Caesar, mihi cruce levando?

Dai la croce al misero, o Cesare, innalzandomi in croce

Ferrea, quam porto, non satis esse putas?

Non credi che sia abbastanza ferrea quella che sopporto?

Pectoribus roseis bullas felicius apta,

Attacca con più gioia borchie ai rosei petti[6]

At memorem sortis te precor esse meae.

Mentre ti prego di ricordare la mia situazione

Incubuit crux una mihi, tunditque, teritque,

Sono sovrastato da una croce che mi schiaccia e consuma

Impar huic, potero sustinuisse duas?

In queste condizioni di inferiorità potrò sopportarne due?

Et, si sustineam, quos risus nostra movebit

E se lo farò, quale gioia provocherà

Cruce palatina trita lucerna micans?

La mia croce palatina[7] davanti ad una tremolante e consunta lucerna?[8]

Sperando di migliorare le sue condizioni, nonostante la sua preparazione ed il suo valore, nel 1876 accettò un posto di insegnante nel ginnasio di Rotonda (a Mormanno a quel tempo non esisteva un Ginnasio!).

La vita cominciò a divenire desolata per lui. Una serie di avventure specialmente una grave infermità lo costrinsero a partire esule volontario per Rotonda, paesello di tremila abitanti, posto nell’estrema Basilicata, a piè della nevosa gola di Sammartino, dove per opera di Mr. Giuseppe Salviati, sorse un Ginnasio nel quale ebbe ospizio come maestro l’insigne e valoroso latinista dell’Ateneo napoletano. Il Perrone si ricorda del mestissimo vate esule al Ponto (Ovidio n.d.r.) e in quel montuoso luogo della Lucania sembra aver trovato la sua piccola Tomi. Così scrive:

 

 

Gensque tenet Scythicis aequiparanda Getis

La gente del posto si può paragonare agli scitici Geti[9]

Hirsuti cives, hirsutis rupibus haerent.

I rozzi cittadini sono immabili come le irte rupi

Hic aer nimbosus, hiems glaciesque perennis,

Qui l’aria è tempestosa,  perenne è l‘inverno ed il ghiaccio

Nubilus hic Boreas pertetuusque furit.

Qui furoreggia Borea e il cielo è sempre pieno di nuvole.

 

E come Orazio ride del suo scriba di Fondi - Fundos Aufidio Lusco…insanis ridentes… - così il Nostro Niccolò, ride “di alcune lettere che Rotonda crede poter, quasi figlia di Roma, segnare sul suo stemma. Egli chiama Rotonda Siopoli,  ed invece di senatus  legge sus, ciò perché colà in ogni famiglia vi sono maiali.

 

Susque domi potior,  coniux venit inde seconda:

La cosa più importante della casa è il maiale; al secondo posto viene la moglie

Virque, cubans,  medium inter utrumque iacet.

L’uomo dormendo sta sdraiato tra l’uno e l’altra.

Nec stupeas! Stirpem, mores et nomina genti

Non stupire! Stirpe, costume e nomi

Sus dedid…

ha dato il maiale…

Stemmata sculpta monent

Gli stemmi scolpiti lo ricordano…

 

Sempre a Rotonda, osserva che il vino e le carte da gioco sono la palestra abituale degli abitanti:

 

….vinaria cella ministrat

... la cantina governa

Vim mentis; digiti sunt quibus arma micant.

la forza della mente; giocano alla morra usando le dita come armi.

 

La permanenza, protrattasi per due anni, “sulla terra fosca e inaridita (ove) è condannato a trascinar la vita” causò al Perrone una serie di malanni per curare i quali ritornò a Napoli ove lo troviamo fin dall’inizio del 1878 “ su di un misero letto, in poverissima casa, quasi muto, gramo, scheletrito; pareva un sepolto vivo. Era il tempo in cui lungi da sua famiglia, vittima di morbosa letargia, veniva spogliato da falsi amici, nonché di ogni sua roba frutto di sudato insegnamento, anche dei prodotti del suo pensiero, vita della vita di lui”

 

Et rapuere meos memorantes facta libellos

E rapinarono le mie sudate carte e i miei diari

(O soboles patris sparsa cruore tui!)

(O figli dispersi e intrisi con il sangue di tuo padre)[10]

Quodque vigil calamus bis denis scripseram annis,

Tutto quel che l’attenta  penna aveva scritto in più di vent’anni

Quasque labor modicas evigilarat opes

e le cose più modeste nate  pur rubando ore al sonno

Diripuere simul, nex parvula queque suppellex

mi furono saccheggiate insieme, la sola piccola suppellettile

Effugit.

Sfuggì al danno.

 

Verso la fine dello stesso anno  si trasferì a Roma ove gli fu assegnato un posto di impiegato presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele. Non vi restò a lungo. La sua salute peggiorava. Cominciò a perdere la vista.

Dopo tre anni ritornò a Napoli ove si diede di nuovo all’insegnamento.

Nel novembre del 1882, ormai completamente cieco, l’Università  gli affidò un corso di Letteratura Latina.

 

Qui continuò ad insegnare per altri sei anni. Gli studenti, a turno, leggevano i testi che lui commentava dettandone poi la traduzione. Ormai era rimasto solo. Gli amici del 1847, Aula, Ignara, Maiello, Marzocchi, erano tutti morti.  Si sente peregrinus in urbe. Del Gaizo ricorda Scherillo, Guanciali, Mirabelli e Perrone come le colonne dell’ultimo classicismo napoletano.

 

Una sua prolusione del 1887 Latinus sermo vere libertatis et patrii amoris interpres et  magister  è riportata in un volume di  Scritti Varii  raccolti e pubblicati dal tipografo Michele De Rubertis, Napoli 1882-1886.

Don Niccolò Perrone, abbandonato anche dai tanti suoi vecchi amici, povero e solo morì in Napoli il 28 giugno del 1888.

 

“Non solo fu eccellente cittadino e maestro ma buon sacerdote: spesso era alla porta dei più insigni suoi amici per chiedere la carità per le povere orfanelle di un asilo delle quali era diventato qui in Napoli benefico protettore. Ci lasciò egli scritto che il genio che solo possiede il segreto delle grandi cose, è il Genio della Fede”

Quando odo il Perrone divenuto velut umbra sui;; quando veggo lui cantare presso la culla di un fanciullo figliolo di un suo amico  o poetare della folgore che ha colpito la giovane pianta che era a fianco della sua casa in Mormanno; quando io lo seguo sulle ali del pensiero mentre ei vuol portare a Dogali un cipresso e una croce e porli sull’immane fossa dei nostri valorosi soldati; quando lo odo cantare il lamento di una povera madre la quale al tornare della primavera aspetta invano il ritorno di un figlioletto rapitole l’anno prima, come aspetta invano il poeta rivedere la luce, io veggo in lui qualche cosa che mi ricorda Gioviano Pontano; io non so non riconoscerlo degno della famiglia artistica di questo sommo poeta, il quale se fu grande nel cantare degli astri, fu grandissimo nel cantare felice le nenie ai suoi figlioli, e nel meditare, nel tempo della sventura, i versi per i tumuli dei più cari di sua famiglia

 

Occupiamoci ora delle altre sue opere.

Esse possono essere così catalogate:

 

·         scritti e componimenti in latino

·         scritti e componimenti in italiano

 

Tra i primi sono da ricordare poesie latine molte delle quali in possesso di tanti suoi discepoli e di amici, oggi tutte disperse.

 

Tra esse vi erano quelle indirizzate al Bovio, al Mariani, al Correnti, al Manzoni, al Baccelli, al De Sanctis, al Minervini[11], al Ranieri, al Sanfelice, a Leone XIII, e ad altri.

 

Tra i componimenti in italiano, contenuti nell’introvabile volume del De Rubertis, vi erano, inni, canzoni, ottave, sonetti.

Degni di nota due inni:

·         il 9 gennaio 1878 dedicato a Vittorio Emanuele II;

·         il Ramo d’Olivo  alla Regina Margherita.

 

Essi sono pregevoli e per i sentimenti religiosi e per quelli d’amor patrio che il Perrone, nonostante le sue disavventure, conservò integri come quando giovane prete si affacciava alla vita  considerandola una missione.

Va pure ricordato il suo modo incisivo, lapidario, conciso, quasi epigrafico con cui sapeva condensare in poche battute tratti della vita o  avvenimenti.

Anche questa produzione, purtroppo non esiste più.

Si ricorda che in un periodico L’Ateneo n. 6,7,8  (di cui si ignora chi sia stato a stamparlo, il luogo e la data) ne vennero pubblicate due per tale Liborio Romano.

Gli scritti del Perrone, non sono che la minima parte di quelli pubblicati dal De Rubertis.

Un suo biografo, tale G. Caivano ricorda:

·         insieme all’abate Saverio Bloise scrisse un Vocabolario latino-italiano edito in Napoli dalla tipografia Vanni nel 1865[12];

·         dieci orazioni sacre e quattro funebri;

·         un corso di grammatica latina;

·         un trattato di lessico secondo il quale da una sola radice possono derivare più di mille parole;

·         duecento epigrammi;

·         la manzoniana 5 maggio riscritta in metro alcaico pubblicata postuma in Messina dallo stabilimento tipografico Alicò nel 1913, nella rivista Scrittori Calabresi;

·         due odi alcaiche al Manzoni;

·         molte elegie latine;

·         molte poesie italiane raggruppate in un testo dal titolo Corona di Spine tutte satiriche come quelle del Giusti;

·         altre Bazzecole lette ai soci dei Letterati ed artisti napoletani  di cui era vice presidente.

 

Fra gli atti dell’Accademia Pontaniana si trovano i seguenti altri scritti:

·         Ad Modestinum del Gaizo 1885

·         Ode ad Franciscum Florinum 1887

·         Ode alcaica: triunfalis cupressus in Dogalis saltibus consita. Ad AcademiaePontanianae sodales 1887[13]

·         Per il monumento di V. Bellini[14]


 

UN ESEMPIO DEL SUO POETARE IN LATINO

 

Trimphalis cupressus in Dogalis[15] saltibus condita

Ad Academiae Pontanianae sodales

 

ODE ALCAICA

Recitata nella tornata dell’8 aprile 1887

 

Quo vos superno nomine consecrem

O gnava pubes, o patriae decus,

Quos nunc triumphalis cupressi

Gnatus honor redimit corona?

 

Per quos in Afris Italiane jubar

Thermopylarum sidere clarius

Effulsit, heroumque caedes

Splendidior micuit triumpho?

 

Et vos, Pontanae Pieridis chorus

Quae trado, doctis scribite paginis,

Gratumque promendum puellis

Et pueris, properate  carmen.

 

 

Substat Dogàlis cautibus horrida

Vallis, latronum pervia fraudibus,

Haec saxa quingentùm manipulus

Jussus adit…perimendus hospes!

 

Parvam virorum despiciens manum,

Astu, latebris et numero potens,

Alùla quingentis cruentum

Impavidis tumulum paràrat.

 

Iam jamque vallis fulmineis repens

Inardet armis, plumbea glandium

Fit grando praeceps et ruente

Vulnipero fremit aura nimbo.

 

Quis mortis horror! Quae facies!  humum

Confossus Afer mordet et infremit,

Dum noster heu!  miles salutat

Italiae moriturus ocas.

 

Iam defit ignis esca, tonantia

Tormentata cessant; iam simul hostium

Millena, quae caelant, dolosae

Visceribus removunt cavernae.

 

Tun sica sicae, spicula spiculis,

dextraeque dextris, et pedibus pedes,

et tela responsare telis,

et gladii gladiis retundi.

 

Fit caedis agger, myrias hostium

Jam strata, cingit corpora fortium

Quincenta, vix deni supersunt

Ex Italo juvenum maniplo.

 

Tum dux “Eamus relliquiae virum:

vitate pugnant non numero viri.[16]

Reddamus hic caesis honores.

Hisque pares moriamur” inquit.

 

Deliberata morte ferocior

Tunc dena pubes irruit, impetit,

claustrumque Dogalis cadentum

caede nova, cumulique sternuit.

 

At septa, tamquam vortice tigrium,

Quo quisque pugnat ordine concidit.

Sic vidit instratos. Stupensque

Horret atrox refugitque Alùlas.

 

At feminarum turma furentium

Nudat jacentes, tegmina diripit,

Et frendit amens, et sorores

Dente studet superare hyaenas;

 

Namque et cruentis corpora morsibus

Scerpunt, et haustu sanguinis ebriae

Bacchantur, obscenaeque circum

Nuda virium mutilata saltant.

 

Miserta, pennas Gloria discutit

Et pandit alas corpora subtengens.

Haec vitta quingentos amixit,

fortibus hoc patuit sepulcrum!

 

Mox et volumen , quod gerit, inclytum

Quingenta monstrat nomina militum.

Quos inter heroum priores

Cristoforis sociique fulgent.

 

O digna priscis nomina saeculis.

O gnava pubes! Quis patrius nova

Tyrtaeus aeternet camoena

Serta ducis, juvenunque lauros?

 

O signa surgant in Capitolio,

Haec quae perennent gesta nepotibus!

Haec signa (nec frustra!) quotannis

Nos roseo retegemus imbri.

 

L’ode  è scritta ad appena tre mesi dall’avvenimento.

Non ne propongo una mia traduzione, benché fortemente tentato, perché, ne sono certo, dovrei usare, a fronte di un contesto dalla stringata e suggestiva classicità, delle brutte e stucchevoli perifrasi.

Se la goda così il benevolo lettore, dando al suo sensibile animo la libertà di interpretare e sentire come propri i sentimenti espressi.

La furente turma delle donne, i loro morsi più feroci di quelle delle iene, il baccanale osceno sui corpi nudi degli uomini  non vi ricordano le pennellate di Michelangelo, le orride tregende dei gironi danteschi, le antiche e sanguinose battaglie ove nulla era più feroce di una morte voluta e assaporata? Godiamocelo! E’ veramente bravo !

 

 

 UN ESEMPIO DEL SUO POETARE IN ITALIANO

 

Ad una amica gravemente inferma

 

Lina pietosa, come dirti addio,

or che un istante a dirti addio mi resta?

Parola estrema, ch’io ti volgo è questa…

Gelida voce  in cor mel dice: or io

Lina pietosa, come dirti addio

 

Quando, sepolto in fosco tenebrio,

cominciava la mia notte funesta,

tu sorreggevi l’egro spirto, e mesta

tu mescevi il tuo pianto al pianto mio.

Lina pietosa, come dirti addio ?

 

Sederò solitario e gemebondo

Sotto il castagno di Morman selvosa;[17]

pellegrino alla vita, in odio al mondo,

sederò solitario e gemebondo.

 

Quando di me ti sovverrai pietosa,

pregami requie; poserà il mio capo

polve sol del tuo pianto sospirosa,

quando di me ti sovverrai pietosa! [18]

 

 

 

 

 

NOTIZIE DAL BRASILE
In una piacevole intervista, il giornalista della RAI e professore d’italiano Stefano Barbi Cinti racconta un po’ della sua vita in Sudamerica, commenta il mito del “Brasile dei sogni” e parla della sua identità italo-baiana.

di Ricardo Sangiovanni

 

 

Dietro alle notizie che arrivano dal Brasile al Tg 1 della RAI, si nasconde una bella storia di vita. In questa intervista a FARONOTIZIE.it, il giornalista italiano Stefano Barbi Cinti racconta un po’ del suo percorso di vita. Laureato in medicina in Italia, dall’età di 24 anni, con un promettente futuro davanti a sé, Stefano non si sentiva felice. “Fare il medico, però, non era quello che avevo sognato. Troppe malattie da trasformare in denaro e poca salute da dare”.

 

A 28 anni, sposato ed impegnato col lavoro vicino alla sua città d’origine – l’eterna Roma – Stefano ha deciso d’abbandonare la professione ed andare via. Lavorare nella sanità gli stava rubando la salute. L’anno era il  1978 e lui, insieme alla sua moglie brasiliana, è partito per il  Brasile con  l’obbiettivo di cominciare  una nuova  vita.

 

Ne aveva ancora di tempo. Stefano ha oggi 56 anni, abita sempre a Salvador di Bahia,. Qui si è sposato un’altra volta, con un’altra brasiliana. Ha avuto  tre figli che ha visto crescere, oggi di 27, 21 e 17 anni. E’ divenuto giornalista e professore d’italiano – ha fondato ed è ancora direttore dell’Associazione Italia Amica, la più famosa scuola d’italiano di Salvador - , oltre che un esperto del beach volley. Lettore di romanzi e appassionato delle ‘cose belle del cinema’, piacere e lavoro per Stefano sembrano essere cose sempre vicine. “Adoro andare in giro a convincere le persone a raccontare la loro storia, a scriverla, a trasformarla in video, in film”.

 

Questa volta, l’abbiamo convinto noi a raccontare la sua. Ed eccola, in questa intervista.

 

FARONOTIZIE - Come hai avuto l'idea di venire in Brasile? Qual era la tua relazione col Brasile prima di venire ad abitare qui?

 

Stefano Barbi Cinti - Mia moglie era brasiliana ed allora scelsi Brasile per ricominciare. Decidemmo di cominciare da Salvador, dove spesso passavamo le vacanze d'estate. Son venuto con una chitarra, una macchina fotografica e un quadernetto di annotazioni. Anche un po’ di soldi, è vero, che avevamo messi insieme per non esser costretti a trovare un lavoro subito.

 

Già in Brasile, dopo il carnevale mi ammalai. Epatite virale. Troppi giorni a letto. Mi misero una tv in camera, ma non la sopportavo! Non riuscivo a trovare un libro che mi interessasse. Cominciai a scrivere. Scrissi un romanzo, credo che avesse anche un titolo, ma sicuramente non ebbe fortuna, o forse meglio competenza per aver fortuna. Quando alcuni anni dopo lo portai in Italia in cerca di casa editrice, ricevetti alcune pagine di tiepidi elogi e molte, molte pagine di motivi che ne sconsigliavano la pubblicazione.

 

In realtà non è che avessi molte speranze... eppure quel mese di intensa attività "letteraria" mi fu utilissimo per capire che quello mi piaceva. Anche gli inutili giri per cercare un editore mi servirono per conoscere gente. Con me infatti avevo anche qualche articolo che avevo scritto sul mio libretto di annotazioni su un paese praticamente sconosciuto, patria di Pelè, del fantastico Santos, e di tante fantasie sudamericane che venivano alla luce tra i personaggi di Gabo Marquez, Jorge Amado, i versi di Pablo Neruda, i miti del Che...

 

Così cominciai a scrivere per la pagina letteraria del Messaggero, poi per qualche settimanale. Non guadagnavo quasi niente, ma mi divertivo da matti. Poi la macchina fotografica si trasformò in super 8, più tardi in 16 millimetri, poi in video. Migliaia di chilometri di strada e di metri di pellicole in Brasile, Venezuela, Colombia....La mia nuova vita è inziata così e così continua...

 

F - Quali sono le principale differenze, secondo te, tra il Brasile che hai trovato quando sei arrivato ed il Brasile di oggi?

 

SB - Quello era il Brasile dei sogni, bellissimo, meraviglioso, colorato, oggi ci vivo e quindi è il Brasile della realtà, sempre ben più triste, spesso irritante. Irritante e sconvolgente è soprattutto la differenza tra quello che potrebbe essere e quello che è. Il Brasile sembra sempre nuotare vigorosamente ma non si muove mai. Schiavo com'è dei privilegi che ha distribuito e continua a distribuire ai già privilegiati. Vincere privilegi è sempre difficile, ma qui sembra davvero impossibile. Qui non si vincono i privilegi, ma si vince per assumere i privilegi.

 

F – E adesso, quali sono i tuoi progetti di lavoro?

 

SB - Non faccio mai grossi progetti, lavoro giorno per giorno. Alla sei comincia il progetto. Alle dieci di sera finisce. Ora son le sei, tra un po' comincio a montare un servizio, poi devo preparare una lezione (la preparo sempre anche se è la prima lezione del primo semestre. La vedo sempre come un film. Penso quando gli alunni si stancheranno. Stop. Cambio. Altro e via), più tardi, se ce la faccio vado a camminare e correre sulla spiaggia. Poi magari do un'occhiata in internet per cercare idee, per rinnovare le attività dei vari semestri. Nel pomeriggio vado a terminare di filmare un servizio a Liberdade (quartiere di Salvador). Poi una riunione a Cajazeiras (altro quartiere), non so che numero... (si riferisce qui a un suo progetto, di realizzazione di workshops di video con le comunità della periferia di Salvador). Se telefonano dalla RAI poi, devo smetter tutto e "correr dietro" fino a finire il pezzo da mandare via satellite! 

 

F – Sei anche professore d’italiano. Che cos'è e come funziona l'Associazione Italia Amica? Lo Stato Italiano vi da alcun tipo di aiuto?

 

SB – Anche Italia Amica è un piccolo sogno. Che cos'è? Boh! Sicuramente è una scuola d'italiano in cui si fa di tutto per far in modo che le persone imparino a comunicare più rapidamente possibile. Siamo convinti che il centro e il motore di tutto questo sia lo studente. Il professore deve solo (!!!) metter benzina, motivazione, la macchina deve andar da sola. Cerchiamo di usare più materiale autentico (film, canzoni, siti, libri, riviste, telegiornali ecc.) possibile e trasformarlo didatticamente per stimolare una ricerca autonoma in biblioteca o fuori dalla scuola sui siti italiani ovunque. Il percorso dell'apprendimento noi vogliamo solo delinearlo, gli alunni lo riempiranno se saremo riusciti a stimolarli. Sicuramente è un programma ambizioso e per certi versi pericoloso. Ma è stato, mi pare, un baiano a dire “Tutto é pericoloso, tutto è divino meraviglioso", o no? So che molti lo considerano un po' vecchio, ma anch'io lo sono e con un certo orgoglio. (Stefano si riferisci al cantautore Belchior, nato nello stato di Ceará, ma molto famoso dappertutto in Brasile).

 

Insomma diamo aule di italiano a discendenti di italiani (e riceviamo un contributo per questo dal Ministero degli Affari Esteri) e non. Il contributo ultimamente è diminuito moltissimo e questo ha creato grossissimi problemi alla scuola, che ha dovuto ridimensionare al massimo obbiettivi e potenzialità.

 

F – Spesso si dice che l'italiano è una "lingua morta", per non essere parlato in molti luoghi fuori d'Italia. Cosa si può dire per incoraggiare qualcuno a iniziare a imparare l'italiano?

 

SB – Morta non direi. Se no che ci stavamo a fare lì. Poco usata è vero. Ma questo è anche un vantaggio. Se pochi la conoscono diventa un buon differenziale per loro, no?

 

Poi aiuta molto in alcune attività dove l'italiano è lingua maestra: per esempio, oltre al turismo (mamma mia quanti italiani!) arte, architettura, moda, design, sport, diritto ecc.

 

Ancora: studiare una lingua è un ottimo attivatore e rigeneratore cerebrale: è come andare in palestra per il fisico. Oltretutto il contatto con altri studenti di varie età e le attività di gruppo che cerchiamo sempre di incentivare aiutano a migliorare le interazioni sociali e sono un eccellente equilibratore psichico . Quanti nostri alunni spesso ci hanno detto che una nostra aula è meglio che una seduta di psicanalisi!

 

F – Uno, quando abita fuori 'casa', sia per poco, sia per molto tempo come te, sempre assorbe qualcosa della città e del paese dove abita. Ti senti più brasiliano – forse sarebbe meglio dire baiano – dopo tanti anni qui? Cosa fare per non perdere la relazione con l’Italia?

 

SB – Ho scoperto che sono un anno più baiano che romano (29 a 28). Ma io ho cominciato a diventare un po' baiano da quando sono arrivato. Non vivo mai  di nostalgie. La mia nostalgia è sempre nel futuro. E il mio futuro da allora era ben chiaramente brasiliano. In una macchina romana però, è chiaro. Sono molto brasiliano, e ammiro il mio esser brasiliano, ma per gli altri continuo ad essere sempre molto (a volte troppo) italiano! Mah... è la vita!

 

 

Ma la macchina, come ti dicevo, è italiana e non si dimentica. Modi di ridere, di piangere, di scrivere notizie, di ironizzare, di gridare, di camminare, di cantare. Oggi poi il non perdere contatto è molto più facile di qualche anno fa.... basta un dito, nè!

 

E poi non posso perderlo, se no come faccio a lavorare: tutto o quasi quello che faccio ha legami, oltre che con il Brasile, con l'Italia, quindi è un must del mio lavoro. E poi io son venuto via a 28 anni, mica a due!

 

 

NANCY

di Francesco M. T. Tarantino

 

Controversa emancipata e perdente

Bellezza di un passato remoto

Desiderata nonostante decadente

Da chi ti memoriava con una foto

 

Sei stata di sicuro anticonformista

Non ti sei persa in considerazioni

Se di centro di destra o comunista

In divisa in borghese o con milioni

 

Hai amato per passione o per altro

Hai scandito il tempo con alterigia

Senza cadere in trappole da scaltro:

Un amore ostentato oltre le vestigia

 

Accompagnata dagli sguardi furiosi

Nelle tue lunghe passeggiate serali

Per un rifiuto che li rendeva rabbiosi

Ti guardavano pungenti come strali

 

Trascinavi il carrellino della spesa

Sempre con occhi acuti e guardinghi

Snob al punto da non esser vilipesa

Con la mente che andava ai vichinghi

 

E non ci furono amanti a consolarti

Solo l’usuraio che ti doveva milioni

Si augurava la tua fine senza guardarti

Per paura che si scoprissero i covoni

 

Di un desiderio perverso senza carezze

Un amore scambiato per soldi e bugie

Con la vendetta consumata in bassezze

E tu cadevi memore delle tue nostalgie

 

Un ciao anche a te senza alcuna ipocrisia

Al tuo ruolo smarrito in questo tempo

A te che rivivi ancora nella pia fantasia

Di chi restò fascinato e non ebbe scampo

* Francesco M. T. Tarantino ha di recente pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “Cose Mie”, MEF - L’Autore Libri Firenze.


 

 

STOCCARDA, LA FESTA DELLA BIRRA

di Giorgio Rinaldi

 

E’ come essere finiti in mezzo ad una sagra di paese.

O sul lungomare di Rimini, o di qualsiasi altra cittadina balneare.

Un gigantesco luna-park: montagne russe, la ruota panoramica, il castello delle streghe, i venditori di peluches.

E immensi capannoni capaci di ospitare quattro o cinquemila persone ognuno.

Tutte con il loro bravo boccale di birra da un litro (mass)  in mano e mezzo pollo arrostito davanti.

Al centro del capannone, su un palco, cantanti, musicanti, bravi presentatori a dirigere la bolgia e a dare l’imput per balli, slogan e canzoni.

 

Ogni capannone è sponsorizzato da una marca di birra.

Quelle più rinomate costringono i capannoni dove campeggia il loro marchio a chiudere i battenti già dalle prime ore del pomeriggio, perché i posti a sedere si esauriscono in un batter d’occhio.

Dalle quattro o le cinque del pomeriggio e sino a mezzanotte è normale bere tre o quattro litri di birra, e l’alcool contenuto, seppur in quantità minore del vino, mette allegria e spinge a socializzare.

Man mano che le bevute aumentano, le persone salgono sulle panche ed iniziano a ballare.

Ci si diverte veramente con poco, come i bambini.

Tra i tavoli girano ragazzine che, a richiesta, ti fanno l’esame alcolimetrico.

 

E’ solo un gioco, perché nessuno si azzarderebbe a mettersi alla guida dopo aver bevuto, tanto o poco che sia.

La polizia se ti becca che sei un po’ alticcio ti fa passare la voglia di guidare per qualche anno.

E, allora, è meglio che ti fai venire a prendere da qualche amico  o parente, o chiami un taxi, o ti servi dei mezzi pubblici.

La festa della birra di Stoccarda, la Cannstatter FolksFest, è per importanza la seconda della Germania, anche se per dimensione e durata batte la prima e più famosa OctoberFest di Monaco di Baviera.

Quella che si è tenuta quest’anno (dal 23 settembre all’8 ottobre) è la 161^ dalla sua istituzione, che risale alla volontà di Guglielmo I° come fiera e mercato di bestiame e, successivamente, come festa di ringraziamento per la fine di una delle tante carestie.

Stoccarda è una bella città di oltre mezzo milione di abitanti, circondata da tanto verde, attraversata dal fiume Neckar e porta della Foresta Nera.

Noti subito dov’è perché da chilometri vedi la torre della televisione, alta ben 200 metri, che ospita ad una quota solo un po’ inferiore anche un ristorante panoramico.

Dire Stoccarda è dire Mercedes: qui si costruiscono le auto del più antico e blasonato marchio tedesco.

La “stella a tre punte” domina la vita della più grande città e capitale del Baden Wurttemberg.

Nel centro di Stoccarda, sulla torre del palazzo della stazione, svetta il simbolo della Mercedes.

A nessun altro sarebbe stato consentito di installare un marchio commerciale sulle linde vestigia cittadine, ma –almeno in questo caso- il delitto paga.

 

 

 

 

DONNE O CAVALLE ?

di Mirella Santamato

 

 

Oggi più che mai si pone la questione delle diversità e delle minoranze. Siamo sicuri che non si tratti di enormi inganni perpetrati da secoli a nostro danno, da cui potremmo facilmente liberarci, comprendendoli?

 

Minoranze, Minorati, Minorenni: tutte parole che sottendono un “ minus habet” che fa paura. Chi si arroga il diritto di definire milioni di individui con  queste tristi etichette? E, soprattutto, in base a quali criteri?

Oggi, in clima politico, si fa un gran parlare di “ rispetto delle minoranze”, ma siete sicuri che questo sia vero? Guardiamo da vicino: da sempre le minoranze sono considerate le donne ( il 51% della popolazione) poi i vecchi e i bambini ( un altro 15%,) i disabili ( circa il 10%) gli extracomunitari ( un altro 15%) e i malati ( almeno il 5%). Se siete bravi in matematica, provate a sommare queste cosiddette “minoranze” e avrete la spaventosa cifra del 95%.

 

Il novantacinque per cento della popolazione mondiale é considerata politicamente e socialmente “minoranza”. Cominciate a rendervi conto dell’inganno?

 

Chi sarebbe allora la supposta “maggioranza”? Ovviamente quelli che non sono donne, bambini, vecchi, disabili, extracomunitari e malati: il soggetto che ci interesse deve essere quindi Maschio, Giovane, Atletico e di Razza Bianca. Vi ricordano qualcosa storicamente, in un passato recente, questi aggettivi?  La cosiddetta “maggioranza” conta, nei numeri oggettivi, circa il 5% della popolazione, ma pure viene universalmente riconosciuta come tale. Come mai?

 

La risposta si annida nelle migliaia di anni di ignoranza dei meccanismi profondi della mente umana. La mente umana, per sua caratteristica intrinseca, é malleabile, manipolabile e soggetta a paure. Su queste paure e ignoranze si fonda tutto l’inganno di cui abbiamo parlato.

 

Sono anni e  anni che sono alla ricerca dell’ "origine del problema", di quel famoso " sassolino" in cima alla montagna del Tempo che ha dato origine a tutta la valanga  disastrosa che oggi, a valle, siamo costretti a vedere.

Dopo tante analisi e prove e controprove, sono riuscita ad individuare il piccolo "pensiero" da cui ha origine tutto il cataclisma. E' il fatto più vicino a noi, anzi l'ingiustizia primaria da cui originano, a pioggia, tutte le altre.

La vita e l’ingiustizia hanno la stessa origine e cominciano nello stesso momento, cioè al primo vagito, ovvero dalla prima ecografia. Appena

apriamo gli occhi sul mondo siamo etichettati da una forma di ingiustizia primaria che deriva dalla differenza di considerazione tra i sessi.

Non importa se viene considerato inferiore il Maschile o il Femminile, l'importante che uno dei due sia considerato INFERIORE (un  minus habet, appunto) all'altro.

 

Storicamente é stato considerato inferiore il Femminile, ma l’inversione dei fattori, attualmente molto di moda, non cambia il risultato. Questo dislivello impedisce l'Amore, che si crea solo tra pari,  e dà agio al Potere di esistere.

 

Sulla primaria ingiustizia ( siamo prima maschi e femmine, che negri o bianchi, cristiani o musulmani) si fondano tutte le altre.

Ecco perché le persone fanno molta fatica a parlare di sessualità. Siamo molto bravi a parlare di problemi “ periferici”, conferendo loro grande importanza nazionale e internazionale, proprio per nascondere, soprattutto a noi stessi, che il vero problema, la primaria ingiustizia, si trova nel centro nel nostro corpo, come l’Uomo di Vitruvio di Leonardo ci indica da sempre.

 

Vi siete mai chiesti perché Dante accetta una guida maschile ( Virgilio) per attraversare l’Inferno e il Purgatorio, ma sa che, per arrivare in Paradiso, dovrà essere guidato da una Donna? perché Dante, come tutti i Grandi, conosceva la verità.

Noi questa strada luminosa l’abbiamo persa e continuiamo a perderla tutti i giorni.

Preferiamo  indire Convenzioni internazionali, Congressi mondiali, Meeting ad alto livello che, nei secoli, hanno dato evidenti, scarsissimi risultati, e mai affrontare il problema dal centro di noi stessi.

Se non risolviamo prima le nostre singole esistenze, non potremo essere di nessuna utilità per risolvere il mondo. Semplicemente produrremo dell'altra " aria fritta", come hanno fatto gli uomini che ci hanno preceduto nella storia.

 

Il pensiero Patriarcale é stato, per millenni, l’unico punto di vista dell’umanità e continua ad esserlo. Le donne sono viste ancora ( e solo) come “contenitori del seme maschile”, e perciò devono abbellire il “vaso”, e renderlo il più attraente possibile per gli occhi maschili. Del “contenuto” nessuno si occupa e tutto questo viene considerato tragicamente ‘” normale”, quindi “giusto”.

“E’ sempre stato così e sempre sarà” dicevano le nostre nonne alle nostre mamme e noi non abbiamo cambiato pensiero.

Le donne, quindi, sono scelte solo in base alla bellezza del “ vaso”, in altre parole, in base alla loro salute, elasticità delle membra e alla larghezza del loro bacino. Le cavalle da monta vengono scelte, più o meno, secondo gli stessi parametri: denti cariati in bocca e muscoli nei garretti.

Le donne non solo accettano questo pensiero, ma se ne fanno garanti, andando a gonfiare i seni, a smagrire le cosce e a tagliarsi fette di pancia.

Il pensiero crea la realtà e solo se riusciamo a modellare un pensiero diverso da quello antico, potremo evolvere.


Per avere un Mondo Nuovo dobbiamo formulare pensieri Nuovi.

Nessuno ancora lo fatto, né maschi né femmine.

I ragazzi in discoteca, anche giovanissimi,  devono ricorrere a farmaci per “divertirsi”, a farmaci “ per eccitarsi”, a farmaci per “fare l’amore”, a farmaci per “dormire” e a farmaci per “svegliarsi”.
Non pensate che ci sia qualcosa che non va?

Possibile che le donne stesse non abbiano ancora capito che il problema scaturisce da quell’unico ancestrale Pensiero di Potere, condiviso da entrambi i sessi, che ci impedisce di conoscere Eros, cioé Amore?

L' ingiustizia primaria, che impedisce la parità tra gli esseri umani, impedisce la guarigione del mondo.

Il mondo é ammalato per mancanza d'Amore.

Dobbiamo inventare un nuovo modo di amare per invertire la rotta.

                                                                          

 

 

Per chi volesse approfondire i temi trattati in questo articolo: http://www.mirellasantamato.net

 

 

A POTENZA,  UNO SPACCATO DI “REALIDAD”

di Paola Saraceno

 

Posta sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica Italiana, la mostra “Realidad. Arte spagnola della realtà”, curata da Laura Gavioli, è visitabile a Potenza, presso la Galleria Civica del seicentesco Palazzo Loffredo, fino 14 gennaio 2007.

 

L’arte spagnola della realtà è in mostra a Potenza fino al 14 gennaio 2007. Nella splendida cornice di Palazzo Loffredo è ritornata la grande arte per accreditare il capoluogo lucano come città-cultura. Una bella occasione per conoscere ed apprezzare in maniera organica opere, artisti e filosofia ispiratrice di uno dei filoni delle arti figurative contemporanee di maggiore rilevanza mondiale: il realismo spagnolo.

Quello che vedo, quello che sento, quello che sono …esattamente questo è la realtà per Antonio Lopez Garcia, fondatore della Escuela realista madrileña. Figura singolare e carismatica che ha approfondito gli aspetti illusionistici dell'immagine per poter arrivare alla realtà ultima delle cose.

Accesi i riflettori su una generazione di artisti  maturata negli anni ’60 all'Accademia di San Fernando a Madrid, dove proprio Antonio López García e un gruppo di suoi coetanei come Francisco López, Isabel Quintanilla, Julio López Hernández, Amalia Avia, Maria Moreno e Carmen Laffón, hanno studiato ed, in alcuni casi, insegnato alle generazioni successive come guardare la realtà, coniugando la lezione dei maestri spagnoli, dei caravaggeschi, di Goya, con le istanze della modernità.

L’ossessione per la luce, considerata strumento conoscitivo per eccellenza della realtà, fa da comune denominatore alla produzione dei maggiori esponenti del movimento, pur nella diversità dei soggetti prescelti.

Realidad. L’arte Spagnola della Realtà è una magnificata esposizione collettiva di oltre trenta artisti, curata da Laura Gavioli, già richiesta in altre città italiane. Con più di cento opere tra dipinti, sculture e disegni, provenienti da musei come il Prado e il Reina Sofía, testimonia la stagione del realismo spagnolo, capitolo tra i più rilevanti nel panorama dell'arte mondiale del secondo novecento.

 

La rassegna documenta, attraverso la straordinaria scelta delle opere che spaziano dagli interni domestici alle nature morte, agli scorci cittadini, il processo creativo delle diverse personalità che sono rappresentate nelle tre sezioni della mostra: il gruppo storico dei realisti spagnoli, composto da artisti nati negli anni trenta, il gruppo di artisti che rappresentano la continuità del realismo e i grandi antecedenti. 

Il percorso espositivo guida il visitatore alla scoperta dei maestri del gruppo storico, poi alla discendenza dalla lezione dei maestri, aggiornata ad ulteriori suggestioni del reale, che toccano particolari atmosfere di sospensione e visionarietà, con opere di Arguello, Mezquita, Muyor, Mora, Quetglas, Rodirigo ed altri.  Infine, nella terza sezione della mostra, ad un parallelo con alcune opere emblematiche dei protagonisti degli antecedenti storici del realismo nell'arte spagnola, da Zurbaran a Ribera, da Goya a Sorolla e Zuloaga.

 

Un evento culturale di grande portata, posto sotto l’Alto patronato della Presidenza della Repubblica Italiana. In un momento storico nel quale il Mediterraneo, forte delle proprie radici culturali e delle grandi potenzialità geografiche ed ambientali, torna a proporsi come luogo privilegiato per una reale prospettiva di coesione e sviluppo delle popolazioni che si affacciano su di esso, “Realidad” è occasione per guardare al Mare Nostrum e per un ricongiungimento culturale con una civiltà, quella Spagnola, che molto ha segnato la storia del Mezzogiorno d’Italia nei decenni pre-unitari del nostro Paese.

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PARTONO ANCORA LE RONDINI !

di Luigi Paternostro

 

Smorzato l’eco della guerra, che a Mormanno si concluse con un polverone durato da agosto a settembre del ’43 che scarnificò la vecchia strada statale19 per il passaggio dell’armata tedesca in ritirata verso Salerno, con una o due mitragliate scambiate tra aerei anglo americani e  postazioni mobili sistemate sui pianori della Carrosa, con un carro armato lasciato in piazza e la distruzione del ponte di Minnarra,  si cominciarono a curare le  ferite.

 

Si piansero i morti rimasti con le braccia in croce sui ghiacci della Russia, tra le montagne di Grecia[19] e di Albania, sugli assolati e aridi campi dell’Africa Orientale e della Libia. Arrivavano intanto  gli ex prigionieri dei lager nazisti, quelli della guerra d’Abissinia che Alexander aveva trascinato per i campi della Cirenaica e della Tripolitania o mandato negli  Usa, tutti i soldati del servizio territoriale, la maggior parte richiamati impiegati come cuochi, calzolai, addetti ai servizi di sussistenza. Qui ne ricordo qualcuno, anche e  solamente per mia memoria, dal momento che la privacy mi impedisce di riportarne il cognome. Sono: Armando, Antonio, Luigi, Peppino, Nicola, Francesco

 

I pochi superstiti, compresi tra gli ottanta e i novant’anni, si contano ormai sulla punta delle dita. Aldo, Nicola, Pasquale, Francesco, Giuseppe.

Vediamo la situazione mormannese dell’immediato dopoguerra dal punto di vista economico,

 

Alcuni commercianti avevano tratto profitto dagli avvenimenti. Il resto era sopravvissuto o per via del lavoro agricolo sia quello in proprio che quello fatto come manovalanza,  o perché piccoli artigiani, o perché segantini. Nel ceto medio erano considerati benestanti i pochi impiegati comunali, gli insegnati elementari,  l’esattore del dazio, i carabinieri della locale stazione, il pretore, i medici  (allora senza convenzione), i sacerdoti. Diffuso come un’epidemia apparve e prosperò anche il mercato nero. Sulla Littorina viaggiavano, insieme agli studenti che andavano a Castrovillari o a Lagonegro, anche venditori di uova, salami, stoffe, scampoli, vestiti e scarpe dei soldati americani della flotta ancorata a Napoli. Dove siamo, Zu Nà, chiedevano al vecchio che guardava a vista un cestino pieno di uova destinato alle pasticcerie castrovillaresi, dove siamo? Sul binario, figlio, rispondeva.

I reduci di guerra, arrivati con la sola pelle addosso, (ne ho visti molti in pantaloncini e senza scarpe, fasciati i piedi da stracci tenuti con ginestra) si trovarono tra le mani la delusione per la fine ingloriosa dell’avventura bellica e difficile fu il

rimettere in moto altri entusiasmi e speranze. Pur facendo a gomitate lo spazio era ristretto. Quel poco di professionalità era andata a farsi benedire e una realtà non incoraggiante era lì davanti con tutta la sua crudezza. Si dovette riconsiderare che una avventura migratoria era ancora una soluzione

 

Dall’America ricca, gli USA, insieme ai pacchi di vestiario arrivava  qualche dollaro il cui valore oscurava quello delle AM LIRE ancora in uso, e, soprattutto qualche lettera di  richiamo[20].

 

Avveniva pure una fitta corrispondenza tra amici e parenti dell’Argentina e del Brasile. Come ve la passate? Possiamo venire? Qualche volta le lettere dovevano essere lette, come quelle di mezzo secolo prima, dalla comare o dal compare letterato. Che dice? Qui ce la siamo vista nera durante la guerra. Noi, figli degli emigrati degli anni 20 e 30 abbiamo faticato moltissimo. Mio padre faceva il lattaio a domicilio, il mio il guardiano delle tranvie, il mio il fruttivendolo, il mio era carceriere nella Terra del Fuoco, il mio cuciva pantaloni. A Buenos Aires molti  di noi furono impiegati nelle tramvie e nelle ferrovie dal signor Giuseppe Galtieri già da tempo in Argentina ove aveva aperto un negozio divenuto poi ditta che confezionava uniformi di tranviere e ferroviere. Io me la passo ancora male, scriveva qualcuno e si può morire senza mai rivederci, eppure viviamo nello stesso mondo. Se volete venire, scriveva un altro, qualcosa si trova da fare. Importante fu questo appoggio fornito dalla rete di relazioni con i compaesani.

 

Si vendettero con prezzi da strozzino la case, la vigna e l’asino e si prepararono i bauli pieni di stracci e soprattutto di pianti e ricordi. Napoli si raggiungeva in treno da Lagonegro ove si arrivava con la Littorina. L’entusiasmo per queste partenze coinvolse anche molti altri sopravvissuti alla guerra: Erano calzolai, barbieri, piccoli commercianti che partivano con il cuore gonfio di lacrime e di speranza. La destinazione fu rivolta prevalentemente all’ Argentina e soprattutto la città di Buenos Aires. A volte restavano le mogli e i figli. Nel 1953 una delle prime inchieste di quell’apprezzato cronista che è stato  Sergio Zavoli ci ricorda partenze con i piroscafi Santa e Venditor. Vado a trovare mio marito che non vedo da 27 anni, diceva Rosina!

 

In quegli anni  vi fu anche un rientro, se pur di pochi. Erano gli americani partiti ai primi del secolo o al massimo negli anni tra il 1910 e il 1914. Essi avevano lavorato con onore e costanza. Gratificati da una pensione in dollari avevano messo in atto quel desiderio nutrito per anni di volersi rifare la casa. Qualcuno per potervi accedere sistemò anche la strada adiacente. Su un angolo di via Santa Caterina ancora oggi in una targa si legge: strada riparata dal signor Per……... Qualche altro, come Zio John, si dedicò ad organizzare e finanziare quasi interamente alcune feste religiose. Erano personaggi simpatici. Raccontavano come affabulatori la loro vita di cui ricordavano episodi salienti ed esperienze. Avevano, soprattutto le prime volte che apparvero in pubblico, un indice di ascolto, come oggi si dice, elevato. Le loro imprese si diffusero nel paese che ne caldeggiò la presenza e assicurò quel clima di benevolenza che li gratificava e sosteneva nei loro ultimi anni di vita.

 

Le rondini partono ancora.

La famiglia Galtieri. Minuccia, Francesco, Pietro e Maria, vengono a sapere di Leopoldo Fortunato. Ma arrivati a Buenos Aires lo trovano impegnato a costruirsi la carriera che porterà un mormannese a diventare Presidente della Repubblica Argentina.

Pietro si compra un collettivo (un autobus) che manda su e giù per le strade. Francesco, che non conosceva una parola di spagnolo e credeva che il vino tinto de mesa  fosse preparato con colori, divenne vigilantes. E pensare che era uno degli apprezzati segantini di Mormanno. Qui ritornò con la moglie e con dignità e sacrificio divenne spazzino come allora si diceva.

 

Biagio arriva e compra un barco che va su e giù per le limacciose acque del Rio de La Plata e cha alla fine lo manderà in rovina. E così si potrebbe continuare.

 

Si salvano quelli che hanno approdato negli Usa, che si sono ritrovati alle spalle una famiglia già affermata.

 

 

 (Continua)


 

CAMMINO DI SANTIAGO
2A TAPPA DEL PERCORSO FINALE

di Antonio Penzo

 

Come previsto, la mattina del secondo giorno, alle ore sette, siamo già pronti per ripartire. La colazione la facciamo nella sala ristorante, dove l’albergatore, prima di chiudere ha posto tre termos con latte caldo, caffé e the e qualche fetta di dolce, il tutto come prima colazione. In Spagna prima delle nove non si trovano aperti i bar e solo lungo il Cammino si riesce a trovare qualcosa che apre prima, stante la frequentazione dei pellegrini. La notte si è dormito nonostante la lunghezza dei letti che lasciavano fuori la parte terminale delle gambe ed i piedi. Ma la stanchezza aveva avuto il sopravvento sulle comodità.

Il tempo è nuvolo ed indossiamo la giacchettina per tenerci caldi. Uno di noi ha le racchette del camminatore e oggi vuole effettuare il percorso a passo cadenzato e quindi rimarrà indietro per poi raggiungerci più avanti quando noi saremo stanchi.

I primi chilometri si svolgono sull’asfalto e camminiamo di buona lena. Dopo circa un’ora veniamo raggiunti dalla perugina, che ci racconta che il marito ha già avuto a che dire con il barista dell’unico bar aperto, nei pressi dell’albergo dei pellegrini, il quale non gli vendeva il pane intero, ma solo tagliato, essendo queste le prescrizioni commerciali del luogo. Ora dovrebbe essere davanti a noi. Il tempo è migliorato ed i raggi del sole iniziano a scaldare l’aria e noi a toglierci la giacchetta, per non sudare. Si incontrano alcune persone, già viste il giorno prima, e si scambiano pareri. C’è chi fotografa il paesaggio e alcune edifici caratteristici, a ricordo del viaggio.

Lungo il percorso, in alcuni bar che aprono solo in questo periodo estivo, ci dissetiamo e mangiamo la frutta comperata la sera prima. Il sole si fa caldo e il percorso è più duro. Non facciamo il pranzo, rinviandolo all’arrivo. I chilometri da farsi sono ancora molti e non si vede la meta. Il paesaggio è collinare, molto boscoso e verso le due si raggiunge finalmente una collina, che riteniamo prossima all’arrivo. La costeggiamo, mentre sulla destra si sentono dei botti ed in effetti vengono sparati dei fuochi d’artificio, ma non sappiamo il perché, essendo mezzogiorno passato. Un ristorante sul percorso ci fa venire l’acquolina in bocca; stanno cuocendo alla brace costoline di maiale, braciole e bistecche e per degli affamati la tentazione è fortissima; i tavoli sono tutti occupati e ci dicono che prima di mezz’ora non ci potranno servire. Riprendiamo il percorso e, lungo la discesa verso Palais do Rey, superiamo un villaggio attrezzato per i giovani, tenuto dalla parrocchia locale. Molti sono gli italiani che vi stanno facendo la sosta giornaliera.

Quando arriviamo alla meta, dall’albergatore ci viene detto che la prenotazione effettuata la sera prima telefonicamente non è stata accettata. Nel concitato conciliabolo, pronunciato in lingue diverse, ci si riesce a capirsi e alla fine strappiamo tre stanze matrimoniali ma non a letti separati, come richiesto. Però hanno il bagno e così chiudiamo la seconda tappa dopo avere apposto il “sello” sulla credenziale, effettuata la doccia e riposati sul letto.

 

La sera ci rechiamo a cenare in una pulperia locale: il polpo gallego è un piatto caratteristico locale. Si fa la fila all’ingresso per il piatto di polpo gallego, che viene estratto da un pentolone di rame dove viene bollito, assieme ad altri, per quindici minuti; poi viene tagliato con le forbici e posto su piatti di legno, irrorato con olio e polvere piccante. Non esistono tavoli, ma tavoloni da dodici posti con panche. Il piatto viene pagato subito, all’ingresso, poi si prende posto nei posti liberi lungo i tavoloni, assieme agli altri commensali. Nel prezzo è compresa una brocca di vino e del pane. I bicchieri sono delle tazze di terracotta. Per altre portate, patate lesse ed insalata o chi vuole salumi, ci si deve rivolgere al banco; per mangiare il polpo occorre usare uno stuzzicadente grosso romboidale, non c’è forchetta. L’atmosfera è molto simpatica e gioiosa, ne siamo coinvolti e scambiamo notizie ed informazioni con i locali ed altri pellegrini. Terminata la cena acquistiamo la frutta e l’acqua per il giorno dopo e rientriamo a dormire. I più alti devono sincronizzare i movimenti nel letto matrimoniale per non sovrapporsi.


 

 

W  L’ARADIO

di Ferdinando Paternostro

 

 

La prima emittente  privata mormannese che ricordo (siamo all’inizio degli anni ’80) si chiamava Radio Ph 7 Centrale, trasmetteva da un magazzino senza finestre, insonorizzato riciclando polistirolo e scatole di uova. La console era fatta da due sgangherati registratori che, con un semplice interruttore, alternavano la riproduzione di altrettanto improbabili ed artigianali bobine.

Si  trasmetteva  miracolosamente grazie a valvole e transistor messe su da Piero Sciarra, nostrano Marconi con l’elettronica nel DNA,  che quotidianamente tarava,  regolava, amplificava.

Avevamo 14, 15, 16 anni:  la nostra musica si sentiva nelle case di quasi tutto il paese… chi non si sintonizzava era “out” !  

 

Alessio Fasanella , alias Fox in the night, fu invece la prima voce “cult”, un vero DJ, il primo carismatico comunicatore. Trasmetteva la sua sterminata collezione di vinile dal riadattato stereo di casa, ove la malattia, che ce l’ ha tolto, lo costringeva.
Gli amici andavano a fargli compagnia  e si ritrovavano catapultati dal suo salotto nelle onde dell’etere di Radio Centro Città.

 

Venne poi Tele Radio Faro, che nasceva come strumento di  aggregazione attorno alla sezione giovanile della Democrazia Cristiana.
Il progetto era ambizioso: grazie all’iniziativa del compianto Fedele Alberti furono arredati  gli studi e la redazione. Si creò un palinsesto e in tanti ci alternavamo in onda,  ciascuno con  rubriche, musica ed invenzioni più o meno scopiazzate alle radio libere che intanto ascoltavamo in città.

Vi ricordate di Antonello Belloni,  Ezio Centi,  Mc Losa, Federico Renzetti ?
Negli studi c’era sempre movimento, di giorno e di notte. Qualcuno, particolarmente entusiasta, incise sulla spalliera di una sedia “W l’aradio”, che divenne il nostro tormentone.

Ovviamente scattò subito la rivalità con quelli di Radio Centro Città, con i quali dividevamo l’audience locale, e con un’altra  emittente  attiva nella stessa vallata, Radio Castelluccio, con la quale finimmo per gemellarci.

 

La febbre della radio cresceva: gli aspiranti speaker e DJ si moltiplicavano: da un’altra “casa[21]” del paese iniziò a farsi sentire Radio Genesi, (Francesco G. , Domenico S. , Luigi P., Nicola A., il Màgj ).

 

Aveva una ottima programmazione musicale ma il difetto non trascurabile di un  trasmettitore sui generis  che continuamente variava la lunghezza d’onda in emissione. Nacque così  il mito della “radio pirata” che faceva incursione su tutte le altre frequenze,  la prima radio “interattiva”  che evitava all’ascoltatore la fatica di sintonizzarsi … “Accendete l’apparecchio – diceva lo speaker – prima o poi passiamo !”

 

Tra la fine degli anni ottanta e primi anni novanta queste voci si spensero, ma non venne meno in tanti  la voglia di comunicare con le parole e le canzoni: nacque Radio Aloha, che aveva come pregio (e limite) quello essere, tra Calabria e Basilicata, l’emittente di riferimento dei Pooh.

Piero S., Peppe S.,  Pino P., Luca V., Aldo B., Emilia P., Goffredo B, Antonio R., Rocco D. ne furono gli animatori.

 

 

Anche oggi gli adolescenti mormannesi, come i loro coetanei di ogni altra parte del mondo, hanno l’esigenza di sentirsi  parte di un gruppo, di condividere sentimenti e vissuto, di  confrontarsi per crescere.

Le loro voci non si ascoltano nell’etere, come un tempo le nostre,  ma i loro pensieri, le loro ansie, le sconfitte ed i successi sono on line, negli spazi virtuali sul web.

·        http://mormannorinasce.blog.tiscali.it/

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·        http://claudialove87.spaces.live.com/

·        http://marianunziasola1987italy.spaces.live.com/

 

Quando l’altra sera, per caso,  li ho “scoperti” su internet ho capito, con gioia, che tra una generazione e l’altra il testimone era stato passato.

 

 

PRIMA DI COMPRARLE FORSE….DOVREMO PESARLE !  

di Stefano Ferriani

 

                                                                                                         

Tanto per cambiare anche questa nuova finanziaria prevede tagli e sanzioni in materia automobilistica.                                                                                                             

A titolo puramente informativo comunichiamo che il maggiore gettito che ne deriverà          

(dalla finanziaria) sarà dovuto proprio alle modifiche e alle sanzioni previste in questo        

settore, da sempre il più tartassato (mi si conceda l’analogia) in termine di tassazioni.         

Pare (uso il condizionale perché alla data odierna non è ancora certo) che tra le altre, esista la possibilità che i possessori di SUV (fuoristrada) debbano pagare una sovrattassa,in funzione (udite,udite) del peso!                                                                     

Se cosi fosse da oggi sarebbe necessario procedere prima dell’acquisto all’operazione di pesaggio onde determinare l’importo della sovrattassa.                                                  

Inutile ribadire che si tratta della ennesima sciocchezza partorita da cervelli che saranno     forse eccellenti per pratiche economiche e umanitarie ma in materia automobilistica  dimostrano di essere completamente a digiuno!                                                                    

La ragione per la quale verrebbero tassati i SUV sarebbe quella secondo la quale questi mezzi risulterebbero fortemente inquinanti ed eccessivi nel consumo di carburante.

Riteniamo doverose e opportune a questo punto alcune precisazioni tecniche  chiarificatrici precisando che comunque non serviranno per cambiare lo stato di fatto delle cose.                                                                                                                                      

I SUV sono quasi tutti motorizzati con propulsori utilizzati anche sulle autovetture, pertanto la percentuale emessa di CO2 (g/km) è circa la stessa,la minima differenza di emissione allo scarico può essere determinata dal maggiore peso dei SUV (mediamente il 20% rispetto

una normale berlina della medesima cilindrata) e dalla maggiore resistenza che oppongono all’aria (coefficiente aerodinamico).                                                                                             

Per fare un esempio pratico prendiamo in esame uno dei SUV più venduti in Italia: la BMW X5 rapportandone i valori con la berlina della casa Bavarese della medesima cilindrata ovvero la BMW 530 D.              

Entrambe montano un propulsore 6 cilindri  in linea di 2993 cc 218 cv per il SUV, 231 per la berlina,2105 kg di peso per il SUV, 1595 per la berlina, 250 g/km di CO2 l’emissione del SUV, 180 g/km per la berlina, circa 8 km di percorrenza con un litro di gasolio per il SUV ,10 km per la berlina.                                                                                               

Questi i numeri,le differenze ci sono ma limitate a tal punto a nostro parere da non giustificare una sovrattassa.                                                                                                         

Probabilmente si è voluto colpire un prodotto che secondo noi ha come principale difetto quello di essere considerato un simbol e di venire utilizzato di conseguenza più per virtù che per necessità.                                                                                  

Giudicate Voi!


 

 

MARRAMALDO O MARRAMALDI

di Francesco Regina

 

Nel turbolento scenario della dominazione spagnola in Italia, la famiglia Marramaldi conobbe in Mormanno il suo momento di massimo splendore: era annoverata tra le magnatizie e godeva dei privilegi riservati solo a chi viveva more nobilium[22].

 

Il cognome Marramaldo[23] è principalmente associato ad un famoso uomo d’armi o Capitano di Ventura, che prese parte al sacco Roma (1527) ed uccise il fiorentino Francesco Ferrucci il 3 agosto 1530 nella battaglia di Gavinana[24]: ci riferiamo a Fabrizio Marramaldo.

           

Diversi autori si sono attardati nel narrare le sue gesta, ma resta irrisolto l’arcano riguardo il paese che gli avrebbe dato i natali.

           

Il Guerrazzi ( vit. di Ferruccio T. II, pg. 213), smentendo a sua volta Jeno de’ Coronei che voleva il nostro nativo di Tortora, afferma che Fabrizio Marramaldo nacque in Calabria il 28 ottobre 1494[25] e non ebbe eredi maschi dalla moglie Porzia Cantelmo, bensì due figlie, “non avendo lasciato – scrive il Summonte (I, 185) di lui altro che un figlio naturale, in cui la famiglia Maramalda si spense[26]

           

Alla luce di quanto trovasi nel nostro archivio parrocchiale, benché impossibilitati a fornire una dimostrazione  rigorosa della nascita del Marramaldo a Mormanno, sentiamo tuttavia di non condividere affatto le affermazioni sopra riportate.

           

Dopo i primi nominativi riguardanti un tale Pompeo Marramaldo nato nel 1535 ed i germani Ettore, Ferdinando e Fabrizio figli del nobile

Marcantonio, ecco comparire nell’anno 1591 un figlio del magnifico Fabrizio Marramaldo e della magnifica Clarice de Rinaldi nomato Lelio.[27]

Dal medesimo ebbe luogo una prolifica discendenza che si estinse nello scorso secolo nella persona del Signor Francesco Marramaldi                      ( *12.11.1819 + 16.01.1901), il quale si spense nell’ultima dimora rimasta alla ricaduta famiglia, sita nella strada Sant’Onorato[28].

           

Non è pertanto da escludere, anzi da avvalorare pienamente, l’ipotesi secondo cui la discendenza in linea retta e collaterale si sia snodata come di seguito riportato; la qual cosa ove dimostrata demolirebbe dalle fondamenta ogni teoria discostante a riguardo convalidando così l’avvenuta nascita del Marramaldo nel nostro paese.

 

Genealogia presunta

Fabrizio senior

* 28.10.1494

 
 


Fabrizio senior

 
                                                                                                                                                 

                                                                                                                                    

 

 

 

 

 

 


           

 


Lelio

* 06.04.1591

 
           

           

 

           

Il grado di probabilità da conferire alla suddetta genealogia è a nostro avviso altissimo: visto che si tratta di attribuire soltanto lo stipite cui agganciare la ramificazione della famiglia di Marcantonio, sulla quale abbiamo assoluta certezza in tutto e per tutto, sulla scorta di osservazioni e correlazioni topiche più volte comprovate circa i nomi dati ai primogeniti nelle seguenti generazioni, possiamo senza tema di sbagliare riconoscere in Fabrizio Marramaldo la persona da cui ebbe origine il ramo mormannese.

Del febbraio 1616 è una ricevuta di ducati duecento fatta dall’allora Barone della Giurisdizione Criminale locale, D. Luca Antonio Rende, a favore del citato Lelio Marramaldi per la transazione della sua inquisizione per un omicidio commesso, pagati dal Magnifico Fabrizio Marramaldi suo padre (… omissis)[29]

           

Benché in una epigrafe[30] collocata nella parete sinistra della Cappella di San Nicola si faccia menzione di tre benemeriti gentiluomini seicenteschi appartenenti alla famiglia Giliberti[31] quali fautori dell’edificazione della medesima e del contiguo palazzo, è certo come nel ‘700 la famiglia  del Signor Nicola Marramaldi risiedesse nella strada di Santo Nicola e fosse giuspatrona dell’anzidetta cappella, nel cui soccorpo trovavasi la loro sepoltura gentilizia.[32]                                                                                 

 

Ricordiamo infine, tra i vari sacerdoti benemeriti che si sono avvicendati in famiglia, il Reverendo Arciprete D. Pietro Felice Marramaldi senior, Dottore di Sacra Teologia e Protonotario Apostolico passato da questa vita nell’anno 1761.

 


LA RIBOLLITA

di  Monica Rigo                                                                       

 

Dopo la bistecca alla fiorentina la ribollita è forse il piatto più noto della cucina toscana.

E’ una tipica pietanza da “slow food”, che dopo  una lunga e paziente preparazione va assaporata con calma,  magari con tanti amici, centellinando un Chianti Gallo Nero d’annata.

 

Nasce nella civiltà contadina toscana  come piatto “di riciclo” delle verdure cotte nei giorni precedenti, che venivano “ribollite” (da qui il nome) , ottenendo  con l’aggiunta di pochi e “poveri” ingredienti un  piatto davvero saporito e gustoso, oggi ricercatissimo.

 

La ribollita si ottiene dunque da una minestra di verdure, fatte stufare a lungo in un soffritto di cipolla e aglio, con aggiunta di olio extravergine di oliva. Per dare sapore c’è chi aggiunge  cotenna di prosciutto o osso spolpato. Secondo i puristi è indispensabile il  timo, conosciuto in Toscana con il nome di pepolino.

Una volta terminata la cottura  entra in scena un altro ingrediente “di recupero”: il pane raffermo (meglio toscano non salato, ovviamente), tagliato a fette sottili. Poi  parte la seconda bollitura, a fuoco dolce, fino a che la minestra non si trasforma in una crema morbida ed omogenea.

Nel piatto la ribollita  “muore” con le  cipolline fresche tagliate sottili, un filo di olio a crudo e il pepe nero macinato al momento.

 

Qual è la vera ricetta della ribollita ? Parlando di piatti popolari è  davvero difficile districarsi tra le mille versioni “familiari” e le altrettante numerose varianti da ristorante.

Di certo la differenza con le altre minestre di verdure la fa  il cavolo nero, che non deve mai mancare: ecco la mia versione,  per 4 porzioni:

 

·         150 g di cavolo nero

·         250 g di fagioli cannellini

·         50 g di cavolo verza

·         50 g di bietola

·         100 g di patate

·         25 g di carote

·         50 g di sedano

·         100 g di pomodori pelati

·         125 g di pane casalingo raffermo

·         1/2 porro

·         1/2 cipolla

·         25 g di olio extra vergine di oliva

·         sale e pepe

 

 

Si taglia a rondelle la cipolla, il porro,  il sedano, la carota. Si fanno cuocere a parte i  fagioli, per almeno un’ora; intanto si tagliano a pezzetti la patata e i pomodori .
Poi si puliscono e si tagliano  il cavolo nero, il cavolo verza e le bietole.

Si fa  imbiondire la cipolla con 2 cucchiai di olio a fuoco moderato e, appena scolati, si uniscono  i fagioli. 
Infine si aggiungono, mescolandole ogni tanto,  le altre verdure, si lascia appena appassire il tutto e si fa proseguire la cottura con l’acqua dei fagioli, già salata e pepata, che accortamente non abbiamo gettato.

Dopo due ore di cottura a fuoco moderato la ribollita è pronta per essere servita, appoggiata su fette di pane tostato e sapientemente insaporita con olio extravergine di oliva toscano.

 

Gli ingredienti e le calorie (230 – 250 per porzione)  ne fanno una pietanza perfetta per una sana alimentazione mediterranea.

 

 

 

 

IL DOCUMENTARIO CINEMATOGRAFICO

di Carla Rinaldi

 

Da qualche anno, anche in Italia, ha preso piede e fruibilità larga, il documentario cinematografico. Dopo la svolta della vittoria di “Bowling a Columbine” di Michael Moore, con l’Oscar e la palma d’oro a Cannes nel 2004 di “Fahrenheit 9/11”, il documentario è diventato finalmente  a largo consumo svestendosi dell’errato concetto di noia e peculiarità per gli addetti ai lavori. Infatti, capita sempre più spesso, di assistere a numerose proiezioni all’interno di festival, proprie dei documentari con intere sezioni dedicate ad essi.

 

E’ anche vero che la poca disponibilità economica del cinema, soprattutto europeo, a far lungometraggi, ha sviluppato in una folta scia di cineasti la possibilità ad aprirsi a nuovi orizzonti, presi direttamente dai reportage, tipici di una certa buna televisione che si faceva una ventina di anni fa. Lo stampo del  documentario cambia di Paese in Paese, in America ad esempio, essendo l’industria del cinema ricca, florida e seria, anche per un documentario si impiegano spesso le stesse ingenti attrezzature che si adoperano per i film, con la differenza che sullo schermo fanno apparire una finta trascuratezza, tipica delle storie vere, rubate da una cinepresa. In questo sono imbattibili.

 

In Europa invece i pochi mezzi a disposizione, hanno costretto la visuale delle cose da un’altra angolazione, più dimessa, più nascosta, più metaforica. Ecco perchè Bergman resterà sempre svedese e Spielberg sempre americano. Nei documentari europei si racconta molto, si mostrano poco e le immagini di repertorio, perchè esose; gli americani, invece ne fanno un largo uso. Ma questo non vuol dire che uno sia migliore e l’altro meno interessante, anzi, la visione variegata di concetti universali, permette di aprire la mente e decidere, o sospendere il giudizio, di preferire, scegliere, giudicare e schierarsi. Un documentario infatti, molto raramente non innesca il sentimento di schieramento, si diventa partigiani immediatamente perché le storie nelle maggior parte dei casi sono caustiche, tragiche, difficili, spietate, terrificanti. Nell’odierno documentario si può riscontrare un nuovo concetto di western dove in maniera netta c’era il buono il brutto e il cattivo. Spesso il buono è il popolo, il cattivo è la politica e i suoi affini e il brutto è proprio la vita. Sono pochi i documentari allegri, distensivi, come per esempio il nostalgico “I dischi del sole”, che rievoca la vecchia etichetta di canti popolari italiani.

Ma lo scopo del documentarista è quello di svegliare le coscienze, è un reporter televisivo con più tecnica e più tempo a disposizione così da poeter permettersi di mostrare tutto quello che magari in tv spesso non si riesce e non si vuole far vedere.

Consiglio a chi si volesse accostare all’universo documentario di iniziare con “Tarnation” di Johnatan Couette e l’italiano

“In un altro paese” di Marco Turco. Due generi diversi, il primo psichedelia reale della vita filmata costanrtemente da vent’anni di un ragazzo americano e il secondo le vicende post Borsellino e Falcone di un ‘Italia che fatica a riprendersi dallo schifo che la copre.

 

 

 

LA SCATOLA: UN' ANTICA E LEALE COMPAGNA

di Raffaella Santulli

 

 

Vista dal basso, la Piazza Grande, che è il centro del mercato antiquario di Arezzo, e che è in discesa, offre un colpo d'occhio davvero unico su una distesa di mobili e di oggetti d'altri tempi.

L'esposizione si insinua anche in alcune vie laterali, una scelta praticamente infinita di merce di ogni tipo e quasi di ogni epoca.

L'atmosfera è magica, i banchi degli antiquari riempiono le strade e gli occhi, quasi che il visitatore ha l'impressione che il mercato non abbia limiti.

 

Ma, quell'insolito pomeriggio novembrino,indolente e brumoso, aveva contagiato un po’  tutto: gli espositori, i visitatori, persino i banchi, apparivano più sgangherati e cupi.

D'improvviso, un momentaneo black-out impose l'immediata sospensione della manifestazione e, mentre il cielo diventava sempre più plumbeo ed inquietante, ecco una fioca luce che segnala un ombrellone da spiaggia poco distante da me.

 

Incurante del tempaccio ed incuriosita più che mai, mi dirigo in quella direzione, e .....l'emozione mi paralizza.

Mai visto tante scatole cosi preziose! Un panorama straordinario di forme, materiale, e decorazioni; realizzate in argento, smalti policromi, oro, brillanti, giada, avorio, tartaruga, cera, lapislazzulo.

Scatoline per cosmetici, per sali, per pillole, per monete; portanei e custodie per occhiali o per carnet da ballo.

Tanti piccoli bagagli custodi di segreti d'amore, di pegni, di lettere, di ricordi..., necessari per ben comparire in società.

Scatole belle come dee, testimoni di comportamenti, strumenti capaci di far apparire vicinissima una realtà che, pur riguardando un altro tempo è straordinariamente simile alla nostra. E scoprire  che, situazioni ed espressioni del costume si manifestano attraverso forme e gesti comuni ad altre epoche, a volte genera la sensazione di ritrovare una parte di sé  in una realtà diversa, lontana, come un magico accordo.

 

Suppellettile per eccellenza, forse in assoluto la prima, se si considera la sua presenza costante nel tempo ed il suo ruolo significativo nel mito e nella fiaba.


 

 

UNA GIORNATA PARTICOLARE: LA VENDEMMIA

di Nicola Perrelli

 

I terreni di Mormanno non sono di sicuro i“terroir” dell’Aquitania, quei fertili terreni

situati a sud-ovest della Francia che generano la materia prima per i vini più famosi del mondo, però vengono coltivati con la stessa dedizione e amorevolezza.

 

I murmannoli per la vigna hanno un attaccamento particolare. E’ un bene importante, quasi mai in vendita, un patrimonio che si lascia ai figli con la raccomandazione di custodirlo come un tesoro di incommensurabile valore. Per quanto l’attuale indifferenza dei giovani per la terra lasci al riguardo non poche perplessità; ma si sa la storia si ripete: domani ognuno di loro probabilmente diventerà un appassionato lavoratore nella vigna di famiglia.

 

Il legame con la vigna bisogna immaginarlo con la fame, i desideri, il

piacere degli uomini del passato, ma soprattutto con il suo prodotto: il

vino. Da sempre simbolo del lavoro più faticoso e della sapienza

dell’uomo. Ma non solo. Il vino, come il cibo, una volta non era

disponibile sulla tavola di tutti i giorni. Per i ceti popolari ,nonostante la

sua antichissima presenza, era una bevanda non sempre accessibile, a volte un lusso. L’uso quotidiano riguardava soltanto la classe agiata: contadini e artigiani lo consumavano, magari in eccesso e spesso di pessima qualità, nei giorni di festa, o all’osteria soltanto gli uomini.

 

Avere la vigna diventa cosi una necessità, quasi un bisogno primario.

Possederla vuol dire avere più certezze, poter attenuare le diversità più vistose, quelle per intenderci legate alle classi sociali, e affrancarsi per certi versi dalla povertà e non solo da quella economica. Significa poter produrre in proprio il vino. L’ alimento che la cultura contadina ha sempre ritenuto indispensabile per affrontare la fatica, conveniente per favorire le relazioni tra gli uomini e straordinario per sfogare conflitti e tensioni. Che il folclore e la memoria popolare hanno idealizzato celebrando le gesta dei grandi beoni, le bravate di quei personaggi che sono rimasti nell’immaginario per le abbondanti mangiate e le copiose bevute. Realtà o fantasie di chi aveva poco da mangiare e poco da bere ?

 

Fatto sta che a Mormanno solo poche famiglie non hanno la vigna.

Rientra cosi a pieno titolo nel panorama delle ricorrenze importanti del paese la vendemmia: la festosa giornata dedicata alla raccolta dell’uva.

Dopo il lungo e duro lavoro di potatura, eseguito nell’inverno dell’anno prima, la successiva legatura fatta, per una questione di stile, esclusivamente con i salici, le varie ramature e tutti gli altri lavori , è arrivato il momento della verità: si spera nella buona annata. Il premio di tutto un anno di amorose cure.

 

Da fine settembre a metà ottobre ogni giorno è buono per vendemmiare. Da noi quello giusto, vale a dire quando si presume che l’uva abbia raggiunto la maturazione ideale, lo decide però la piazza, dove non si parla d’altro, e non il campo. E allora, tutti a vendemmiare nella stessa domenica, anche se  piove a dirotto.

Nel week-end prestabilito i quattro “dipartimenti” vinicoli di Mormanno

(Carrosa, Procitta, Donnabianca e Colle di Ferruccio),ammantati dalle

calde tonalità dei colori dell’autunno, vengono presi d’assalto da vignaioli di tutte l’ età e forze. Giardiniere, Fiat 500, motocarri Ape e anche qualche Fiat Punto metallizzata, carichi degli attrezzi preparati il giorno prima raggiungono, ai primi raggi del sole, i vigneti. Ci si divide compiti e funzioni e via al lavoro .

 

La vendemmia è una giornata particolare che fa dimenticare per qualche ora i problemi e lo stress. Il profumo dei grappoli appena raccolti ubriaca e il sapore degli acini maturi addolcisce palato e animo. Il dorato dei chicchi di malvasia e di moscatello d’Amburgo e il regale rosso scuro dell’uva quagghiana deliziano la vista. Mentre le chiacchierate, i canti e la colazione di metà mattinata a base di baccalà fritto con peperoni (alla castruviddrara) e vino dell’annata precedente, gustata tra i profumi della vigna e i brindisi al vino che sarà, rendono l’atmosfera ancora più allegra e gioiosa.

Tra un assaggino e un bicchiere, intanto il mosto finisce nei tini di

fermentazione. E cominciano i problemi. Il “sapere” per fare il vino non è mai abbastanza. Occorrono scienza e coscienza. La prima per controllare con tecniche appropriate i complessi fenomeni chimici che avvengono durante la maturazione del vino, la seconda per dire “no” all’ostinazione, tipica della gente del Sud, che impedisce di coniugare le antiche esperienze con più innovativi metodi di vinificazione.

 

C’è ancora una profonda verità di cui non tutti sono convinti: il vino non è un prodotto di natura. Fortuna e destino c’entrano poco. La natura non fa il vino, la natura fa l’aceto. O quel vinello, tipico di Mormanno, che puoi bere solo se t’ appundiddrano a’ nu muro (tradotto: ti costringono con la forza e senza alcuna possibilità di fuga).

 

Ma oggi è il giorno della vendemmia e si pensa solo all’uva, è lei la vera grande protagonista. La troviamo dappertutto, nei cesti, nelle cassette stracolme , nei bagagliai delle auto, in ogni angolo del casolare. In bella mostra nei vassoi sui tavoli pronta per essere piluccata da ogni passante che gustandosela esclama ad alta voce, per il piacere e la soddisfazione del padrone di casa: “quest’anno è veramente buona”.

 

La giornata si conclude per tutti, protagonisti e comprimari , davanti ad

una tavola imbandita dei più buoni prodotti della campagna: salsicce,

soppressate, funghi sott’olio,  formaggio pecorino , noci e castagne. E tanto vino.

Con l’augurio che il vino del prossimo anno non faccia rimpiangere quello dell’annata precedente.

 

Ma questo si vedrà l’otto dicembre, a perciavutti. FARONOTIZIE.IT

 

 

 

ZONA FRANCO- BOLLO
Lo sport “più bello” del mondo….

di Francesco Aronne

 

 

 

La constatazione di quanto accade nel muto orto solingo rende disinvolto il richiamo alla memoria di frasi in qualche modo retoriche, più volte sentite, luoghi comuni che possono irritare, ma cui va ascritto il merito di esprimere in modo efficace un concetto adatto alla circostanza. Tra le frasi intramontabili, sentita molto anche di questi tempi è “La madre degli imbecilli è sempre incinta!” ed il caso di aggiungere che “ogni occasione è buona per partorire!”.

           

L’impraticabilità del campo di calcio di un paese vicino, la richiesta (giustamente e civilmente accolta dagli amministratori comunali) di poter usare il nostrano rettangolo di gioco e la sorpresa mattutina sono gli ingredienti di quest’emissione commemorativa di basso valore.

           

Prima della partita la squadra ospite (che nell’occasione ospitava a sua volta un’altra squadra e che pertanto ai fini calcistici, ma solo a quelli, era da considerarsi “in casa”) ha trovato il campo ignobilmente devastato dal transito d’orde barbariche.

 

Scritte e dediche apposte da ignote mani che ben esprimono stile, livello d’istruzione, passioni e propensioni dei rozzi autori. Si aggiungano reti tagliate, pali dipinti di nero, porte divelte ed altre assortite azioni vandaliche. Agli occhi degli allibiti ed esterrefatti calciatori sopragiunti per disputare l’incontro è apparso più che un campo di gioco, ciò che restava di un accampamento di zingari frettolosamente abbandonato.

           

Non è questo l’ambiente per indagini sociologiche improvvisate ruotanti intorno al mondo del calcio e delle incomprensibili frustrazioni che determina, né è nostra intenzione di avventurarci in materie a noi oscure, ma la domanda sorge spontanea: “Può un corpore considerarsi sano se ottenebrato da insana demenza?”

           

Va rilevata l’encomiabile azione di singoli, che si sono prodigati con i calciatori e quanti sono sopraggiunti consentendo una sostanziale bonifica delle devastazioni ed il regolare svolgimento dell’incontro di calcio. Questi volenterosi giovani del posto hanno inviato anche una lettera di scuse alla società calcistica ospitata con il generoso intento di riscattare una comunità intera dai deprecabili effetti delle sconsiderate azioni di un manipolo di triviali sfaccendati e perditempo.

 

Rimane l’indice su un altro gesto irresponsabile di sconosciuti e la amorfa e quasi totale indifferenza di fronte all’avanzata della barbarie, con un genuino rimpianto per la scomparsa dell’oratorio i cui danni al cospetto di questi erano prevedibili e veniali. Viene spontaneo dire: “Forza dello sport e dei valori di cui si fa portavoce. VIVA L’ITALIA CAMPIONE DEL MONDO!

 

 


[1] Dalla Commemorazione di Niccolò Perrone letta all’Accademia Pontaniana il 9 giugno 1889 dal socio Modestino del Gaizo, di cui di seguito sono riportati altri brani

[2] Tutti gli uomini di cultura appartenenti secondo Re Ferdinando II di Borbone alla setta della Grande Società dell’Unità d’Italia vennero iniquamente processati. Furono incarcerati Luigi Settembrini, suo amico, Silvio Spaventa, Filippo Agresti, Carlo Poerio, Pisanelli ed altri condannati in provincia o del tutto esiliati.

[3] Professore nell’Università di Torino. Fu anche deputato e senatore del Regno d’Italia. Scrisse:  Historia critica litterarum latinarum; Fasti rerrum gestarum a rege Carolo Alberto; Vocabolario italiano-laino e latino-Italiano

[4] Cultore di studi classici, specie latini. Già sacerdote, abbandonò l’abito talare per seguire la sua vocazione di storico e filologo. Ebbe un ruolo importante negli avvenimenti 1848 toscano. Fu poi direttore della Magliabechi di Firenze e docente di letteratura latina. Dal 1865 fu senatore del Regno d’Italia.

[5] Marito della contessa Clara famosissima per il suo salotto frequentato dai migliori ingegni che vivevano a Milano (Manzoni, Grossi, Prati, D’Azeglio, Cattaneo, Verdi,  Hayez, Balzac, Liszt) .

[6] I rosei petti erano quelli dei giovani patrizi o liberi romani. Essi portavano infatti appeso al collo una specie di piccolo globo, detto appunto bulla, che levavano al compimento del 18° anno per indossare al suo posto la toga praetexta

[7]  Datami cioè dal Palazzo, dal Potere

[8]  Mia traduzione

[9]  Antichi  e primitivi abitatori della Tracia

[10] Paragona i suoi scritti a figli dispersi di cui piange l’allontanamento dal padre

[11] Francesco Minervini da Mormanno . Fu anche socio della Società Filomatica Mormannese. Vedi il mio Uomini tradizioni vita e costumi di Mormanno

[12]  Ho potuto vedere, per gentile concessione del pro nipote dott. Mario Perrone, tale opera e filmarne alcune pagine. Vedi pure Francesco Saverio Bloise in altri miei studi

[13]  Vedi volume XVII degli Atti dell’Accademia Pontaniana, Napoli 1887

[14]  Stesso volume XVII citato

[15] Dogali. Villaggio dell’Eristrea, a ca. 18 km. ad ovest di Massaua. Presso il vicino poggio, il 26 gennaio 1887, una colonna italiana di ca. 500 uomini, comandata dal tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, fu assalita di sorpresa e, dopo eroica resistenza, annientata dai soldati abissini di Ras Alula.

 

[16] Un ricordo classico: le Termopili!

[17] In tutti gli esuli la propria patria è un sogno, un ideale, un’aspirazione!

[18] La poesia fu scritta nel 1849 mentre partiva da Napoli per Mormanno. Il manoscritto capitò nelle mani di un’alunna tale Diomira Francesca che la lesse in un suo discorso pubblicato in Napoli nel 1880 e da cui è tratta.

[19]  In Grecia, tra morti e dispersi, si contarono 40 mila soldati. I Feriti furono 50 mila e 12 risultarono i congelati

[20]  Erano quelle lettere che assicurando un lavoro facevano ottenere più facilmente il visto consolare per l’emigrazione

[21] Le “case” erano  vecchie abitazioni del centro storico,  abbandonate dai proprietari per più confortevoli appartamenti e cedute per poche lire in affitto a gruppi di adolescenti che, tassandosi mensilmente, vi ricavavano il  loro “circolo privato”.

 

[22]Secondo il costume dei nobili”, era la conditio sine qua non per ottenere indulti pontifici e privilegi (es. diritto d’asilo, oratori privati nelle mura domestiche ecc.)

[23] Solo nel settecento troviamo la mutazione che lo fece diventare Marramaldi

[24] Detta battaglia, che arrise agli imperiali del principe d’Orange, determinò la caduta della Repubblica di Firenze ed il conseguente ritorno dei Medici

[25] Giuseppe De Blasiis, Fabrizio Marramaldo e i suoi antenati, estratto da Archivio Storico per le provincie napoletane, Forni editore, Bologna, pg. 51 dell’estratto

[26] “Studi Meridionali” VIII (1975), 3 – 4, Lettere al Direttore pagg. 319 – 320.

[27] Atti di battesimo, volume II anni 1590-1602

[28] Oggi via Alfieri. Nei prossimi numeri ci sarà occasione di dare spiegazioni circa la derivazione dell’insolita intitolazione.

[29] Eduardo Pandolfi, Catalogo degli Scrittori di Mormanno, Tip. Sparviero, Mormanno, 1901

[30] Si tratta di una lastra rettangolare in marmo bianco recante un’iscrizione su 14 righe, a cui è sovrapposto un fregio, sempre in marmo, al cui centro è uno stemma sormontato da un cappello prelatizio.

[31] Costoro erano i fratelli D. Ottavio, D. Emilio e D. Francesco Ma Giliberti, dei quali l’ultimo fu Arciprete di Mormanno dal 1614 al 1648. Il giudice D. Tommaso Armentano, citato nell’epigrafe, era figlio di una loro sorella.

[32] Registri dei defunti 1764–1799, 1800–1832 e 1833–1869, atti di morte - famiglia Marramaldi - dal 1770 al 1838.

 

FARONOTIZIE.IT  - Anno I - n° 8Novembre 2006

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