FARONOTIZIE.IT - Anno I - n° 8, Novembre 2006
Questa pagina contiene solo
il testo di tutti gli articoli del n° 8/2006
Redazione
e amministrazione:
Scesa Porta Laino, n.33 87026 Mormanno
(CS)
Tel. 0981 81819 Fax 0981 85700 reedazione@faronotizie.it
Testata
giornalistica registrata al Tribunale di Castrovillari n°02/06
Registro Stampa (n.188/06 RVG) del 24 marzo 2006
Direttore responsabile Giorgio Rinaldi
di Giorgio Rinaldi
A
parlare di asini alle nuove generazioni si fa fatica.
Non
ne esistono più, sono pressoché estinti.
Anni
addietro i paesi, specialmente nell’Italia meridionale, ne erano pieni.
Ora
ne resta il disegno in qualche
edizione di Pinocchio e qualche esemplare in alcuni paesi della Puglia, della
Sicilia, della Sardegna, in un’azienda romagnola – dove stanno
cercando di reimpiantarli – e a Roma, in pieno centro, dalle parti di
piazza Montecitorio.
Qui
è l’unico posto al mondo dove alcuni campioni di una specie rara,
perché bipede, si
autoproteggono.
Il
Parlamento Italiano, che ha visto i migliori cervelli di questo Paese dare i
natali alla nostra democrazia e concepire leggi, come la nostra Carta
Costituzionale, di importanza fondamentale, oggi è infettato da qualche
squallido portaborse e da diversi miracolati delle segreterie dei partiti.
Accanto
ad uomini di grande levatura politica e intellettuale, hanno allignato degli
“onorevoli” signori che, al costo per la collettività di
circa 21.000,00 euro mensili (avete letto bene, quasi mezzo miliardo delle
defunte lirette all’anno!), euro più, euro meno, tra stipendi,
rimborsi, contributi, vitalizi, prebende, oltre a tessere di libera
circolazione per aerei, treni, cinema, teatri etc., etc., non sanno cosa sia
La
legge elettorale (quella che lo stesso relatore della Lega Nord,
l’odontotecnico on..Calderoni definì una porcata) ha messo nelle mani delle segreterie dei
partiti la possibilità di designare in partenza chi sarebbe dovuto
diventare parlamentare e chi no, visto che noi elettori non abbiamo potuto
votare scegliendo tra i candidati.
Così,
oggi noi dobbiamo pagare un lauto stipendio a persone che dovrebbero essere di
tale intelligenza e cultura da fare le leggi, salvaguardare l’economia,
garantire la nostra sicurezza, salvaguardare la nostra democrazia, intessere
rapporti internazionali e, invece, non distinguono una regione martoriata dalla
guerra come il Darfur (dove l’Italia è presente con ONG ed aiuti
alimentari) dal fast food (anche di fretta, Franza o Spagna purchè se
magna!).
La
trasmissione televisiva “Le iene”, con le interviste rivelatrici
dell’abissale ignoranza di alcuni parlamentari mandata in onda qualche
settimana fa, ha gridato: “il
re è nudo !”
E,
noi tutti, che guardavamo senza vedere, finalmente abbiamo visto il re, in
tutta la sua bruttezza.
E’
necessario ridare immediata credibilità al Parlamento trovando le
soluzioni adeguate perché vi sia una maggiore selezione per le persone
da candidare, perchè all’elettore venga ridata la
possibilità di scelta dei propri rappresentanti e siano introdotte norme
severissime per la campagna elettorale: budget (anche solo a carico dello
Stato, per garantire equità di partecipazione a tutti!), tempi e spazi
pubblicitari a radio, tv, giornali etc uguali per tutti.e l’obbligo di
rispondere, in una sorta di conferenza stampa pubblica allargata, alle domande
di chiunque e su qualsiasi tema di interesse generale. Ovviamente, fedina
penale immacolata.
Forse
così, eliminando un buon numero di semianalfabeti, potremmo finalmente
garantirci delle leggi idonee, chiare e utili.
E i ciucci smascherati dalle
“Iene” ?
E’
più che ovvio che non avranno il pudore di dimettersi e rinunciare tout
court alle immeritate prebende.
Sopporteremo anche questo costo, ma
che almeno siano mandati in qualità di “osservatori” (a
certi livelli l’eleganza delle parole è necessaria) a studiare il
comportamento dei miti asinelli, magari anche all’estero (Spagna, Grecia,
Messico), perché possano così rendersi conto
dell’immeritato accostamento che ne fece Collodi, che non aveva conosciuto
ancora i veri sosia di Lucignolo.
PENSIERI
SULL’OCCHIO DEL MIGRANTE
di Raffaele
Miraglia
Pensate a un mondo senza televisione e senza cinema.
Pensate
a un mondo in cui anche le fotografie sono rare.
Poi
pensate, come sto facendo io, al fratello di mio nonno che a 23 anni lascia
Terranova di Pollino, va a Napoli, si imbarca sul piroscafo Cedric e il 30 dicembre 1906 sbarca a
New York (o, meglio, inizia la quarantena a Ellis Island)
Pensate
a cosa vede, con che spirito lo vede e capirete l’espressione “Nuovo
Mondo”.
Oggi
è tutto diverso e non possiamo nemmeno immaginare una cosa simile.
Oggi, per esempio, Richard,
nipote
Eppure
il “Nuovo Mondo” esiste
ancora. E può essere l’Italia.
Ormai
da qualche anno persone giunte da altri continenti o dai paesi situati ad est
dell’ex cortina di ferro bussano al mio studio.
Sono
persone molto, ma molto diverse fra loro.
La
maggior parte di loro non dimostra segni evidenti di ... straniamento, ma ...
L’altro
giorno mi ha telefonato una signora per chiedere un appuntamento. Al telefono
mi chiamava “doctor” e si è scusata perché
conosceva poco l’italiano.
Ho
la fortuna di avere lo studio in una delle zone più piacevoli di
Bologna, ma la sfortuna di averlo su una strada dal nome difficilmente
comprensibile persino per gli italiani. Ogni volta che dò
l’indirizzo, devo fare lo spelling. E con la signora di lingua spagnola
ho iniziato: C, como caballo, A, como Amor, P, como Pinto, R, como
Ramon. A questo punto ho sentito la sua voce dirmi “Gracias
doctor, gracias!”. E l’intonazione non lasciava dubbio: mi
stava veramente ringraziando di cuore.
Dopo
due giorni nella sala di aspetto ho visto una signora chiaramente mezzosangue.
Tratti da india, statura da india, ma pelle e colore dei capelli chiari da
europea. Le ho dato qualche anno in meno di mia madre, ma ho scoperto che aveva
la mai età.
Per
metterla a suo agio le ho detto “Usted puede ablar Espagnol” e
le ho parlato mischiando parole spagnole e italiane e parole che in cuor mio
credevo spagnole, ma che erano solo un italiano storpiato
Mi
rendevo perfettamente conto che la stanza in cui la stavo ricevendo era
sicuramente più grande della casa (casa?) in cui aveva abitato in
Perù.
E
quando ho scoperto da che parte del Perù arrivava, ho pensato al
fratello di mio nonno.
Non
so se la parola Ayacucho vi dica qualcosa.
Se
non vi dice nulla, pensate alle Ande e a Sendero Luminoso.
E
pensate ad una donna che a quarantanni lascia lì figli e marito e in
qualche modo – uno strano modo – arriva a Bologna e ... si mette a
servizio in famiglia.
Pensate
al suo “Nuovo Mondo”.
Sono
sicuro, arcisicuro, che questa signora di televisione e di film ne aveva visti
pochi.
Passate
da una vita in una baracca ad una vita in una villa sui colli di Bologna.
Così,
come se niente fosse.
E
vivete questa avventura con l’ansia di chi non ha la più pallida
idea di cosa vogliano i suoi nuovi padroni, di come è fatto il posto
dove è arrivata e di chi deve fare di tutto per far sì che i suoi
figli riescano a raggiungere il “Nuovo Mondo”.
Cosa
vorranno i padroni?
Qualche
anno fa assunsi come collaboratrice domestica una ragazza appena giunta da un paesino
montano del Marocco.
Al
termine del suo primo giorno di lavoro tornai a casa e trovai tutto il bucato
stirato e ... disteso su ogni superficie possibile. Perfettamente stirate e
distese sul letto, sul divano, sulle sedie e su un tavolo stavano la mie
camicie.
Dopo
un attimo di smarrimento capii.
Aveva
fatto del suo meglio, ma non poteva immaginare che io le camicie le piegavo e
le mettevo in un cassetto.
Il
filippino, che è arrivato a casa mia quando lei ha preferito dedicarsi
al suo primo figlio, mi ha fatto subito trovare le camicie perfettamente
piegate.
Ho
scoperto, poi, che lui ha frequentato una scuola tenuta da suoi connazionali
appena è arrivato in Italia. Qualche volta adesso è lui che fa
l’insegnante. E le lezioni le tiene – altra scoperta - anche ... a
casa mia.
Com’è
la città?
Mi
è capitato di trovarmi in posti dove tutte le scritte e le indicazioni
sono in ideogrammi cinesi o in alfabeto birmano o in quello hindi o tamil.
Vi
assicuro che è difficile orientarsi.
La
città di Shangai si scrive in cinese con un unico, semplicissimo,
ideogramma.
Eppure,
in una non tanto sperduta località cinese, dopo aver, con estrema
difficoltà e solo grazie al Cantonese phrasebook, raggiunto
l’agenzia di viaggi e dopo aver trovato una gentilissima impiegata che
non parlava inglese, ma ebbe la meravigliosa idea di prendere su il telefono e
di costruire una conversazione a tre, tra me, un cinese che parlava inglese e
lei, quando finalmente mi trovai di fronte ad un biglietto aereo scritto in cinese,
quell’ideogramma lo guardai una decina di volte per essere sicuro che mi
avessero venduto un biglietto per Shangai.
Pensate
cosa voglia dire arrivare a Bologna e orientarsi non in una lingua diversa, ma
in un alfabeto diverso. Considererete fortunata la signora di Ayacucho.
Ma
potete pensare a quanti altri esempi si possono fare e a quante cose nuove e
strane vede l’occhio del migrante.
E
a questo punto pensate a tutt’altro, a quegli italiani che si
appassionano a modo loro per gli “Italiani nel mondo”. A
quelli che vi parlano orgogliosi di come grazie agli “Italiani nel
mondo” la nostra cultura e la pizza e gli spaghetti si siano diffusi
e, subito dopo, vi dicono che gli stranieri stanno minando la nostra
identità (ma, allora, gli “Italiani
nel mondo” hanno minato l’identità altrui?).
In
questo caso, immagino, mi invidierete.
Io,
con sollievo, posso rispondere: il mio tris trisavolo era un albanese!
E
ha minato a tal punto l’identità italiana che neanche io me ne
sarei accorto, se non mi avessero fatto vedere uno di quei libri
sull’origine dei cognomi.
di Nicola
Perrelli
In
questi anni il sistema produttivo dei Paesi occidentali sta subendo profonde
trasformazioni per l’allargamento dei mercati. Tutti i soggetti economici , dalla
multinazionale americana al conducente di risciò di Nuova Delhi, direttamente o
indirettamente,ne vengono influenzati.
Si
tratta di cambiamenti rilevanti che non possono non coinvolgere , visto il
modello di sviluppo economico che caratterizza quasi l’intero pianeta,
anche i rapporti fra i soggetti che
prestano denaro e quelli che invece lo chiedono. La ricerca di sistemi di
analisi sempre più efficaci per valutare la capacità di rimborso
dei debitori ha trovato una risposta,seppure parziale, nel nuovo Accordo
internazionale ratificato nella città di Basilea, dalla quale ha preso
il nome.
I
presupposti dell’accordo si basano oltre che sui nuovi metodi di calcolo
del rischio di credito e sulla supervisione degli organi di vigilanza, anche e
soprattutto sul ricorso ad una nuova disciplina dei rapporti , ora più
costruttivi e fondati sulla massima trasparenza e fiducia. E’ questa la vera novità : il maggiore
interesse per le prospettive
economiche e strategiche e non per l’acquisizione di garanzie da chi
chiede soldi in prestito. Il dialogo più intenso contribuirà a conoscersi meglio,
a trovare la migliore soluzione di credito in base al contesto, a valutare non
solo la redditività periodica quanto soprattutto la capacità di
realizzarla nel tempo, ad adeguare e differenziare le garanzie per gruppi
omogenei di operatori, ad ampliare e valorizzare nuovi strumenti di mitigazione
del rischio, che in soldoni significa
poter ottenere finanziamenti a condizioni più vantaggiose.
Criteri
innovativi ? Principi validi universalmente ? Non direi. La finanza
tradizionale con i suoi complessi meccanismi, comunque essenziali per il
mercato, non può sostenere, se non con della beneficenza, l’economia della povertà ,
qui servono idee più semplici.
Come l’idea di fare credito ai “non bancabili”, ovvero a
quelle persone senza requisiti finanziari e culturali che mai otterrebbero un
prestito dalle banche, che venne nel ’72 all’economista M. Yunus, neo Nobel per
All’epoca,
da professore all’università di Chittagong in Bangladesh ebbe modo
di venire a contatto con la povertà del posto, di assistere alla
quotidiana lotta di quella gente per la sopravvivenza. Constatò di
persona l’evidente divario che esisteva tra ciò che insegnava come
economista e la realtà misera dei villaggi. In uno di questi viveva
Sufia, una giovane donna,madre di tre figli, intrecciatrice di bamboo che
lavorava alla giornata per 2 centesimi di dollaro, un guadagno inadeguato per
accumulare i 22 centesimi necessari per acquistare in proprio il materiale,
rendersi indipendente dal datore di lavoro e dare cosi una svolta alla sua
vita.
Una
svolta che arrivò per lei e per altre 42 famiglie da un prestito di soli
27 $ che il professore,di tasca propria,accordò senza pretendere alcuna
garanzia. Somma che gli fu poi restituita interamente e puntualmente.
Negli
anni seguenti l’esperimento continuò e diede risultati insperati.
L’idea di aggirare le garanzie personali responsabilizzando in solido il gruppo di appartenenza si
dimostrò vincente. Con i piccoli prestiti, in genere tra i 25 e i 160 $,
sempre più gente riusciva a venire fuori dalle sacche della
povertà e realizzare
speranze.
Nasceva
cosi nel 1976 , sullo scetticismo delle locali istituzioni finanziarie che
prefiguravano il fallimento dell’iniziativa per insolvenza dei debitori,
“
La povertà, - secondo il futuro premio Nobel, - non è creata
dalla mancanza di capacità, ma dalle istituzioni. La carità non
è la risposta.”
E’
questo il presupposto della Banca dei poveri, l’altro nome della Grameen
bank, concedere microprestiti, a tassi adeguati, a favore di piccolissime
attività imprenditoriali. Un’idea semplice, che ha
istituzionalizzato e introdotto nel mercato il “microcredito”,
basata sulla presunta affidabilità di una categoria di persone che, pur
non potendo offrire garanzie e coperture,
è sicuramente meritevole di ottenere denaro in prestito.
Oggi
Attualmente
il modello di microcredito della Grameen bank si e’ diffuso in moltissimi
Paesi del mondo,dall’Africa all’America Latina, comprovando che con
i piccoli prestiti ai poveri si
riesce a fare di più di quanto si fa con gli aiuti convenzionali e di Stato.
Il
dibattito sulla dimensione etica della finanza è ormai aperto. Da quel
lontano 1972 una nuova cultura
regola gli investimenti finanziari che
sostengono le piccole attività e il progresso socio-ambientale
dei Paesi sottosviluppati. La finanza etica pone, dunque, come punto di riferimento
la persona e le sue esigenze e non il capitale. Il denaro deve essere impiegato
in attività che soddisfano aspettative e rispondono a determinati
requisiti di responsabilità sociale.
Il
prof. Yunus e
RISCHIO IDROGEOLOGICO E DIFESA DEL SUOLO: TRA EMERGENZA E PIANIFICAZIONE (parte seconda)
di Nedo Biancani
Nel nostro paese i
programmi di previsione e prevenzione del rischio idrogeologico si inseriscono
in un quadro legislativo molto complesso ed articolato, in quella che è
ormai una caratteristica deleteria ormai entrata a far parte del DNA della
nostra produzione e cultura normativa, del quale è necessario tener
conto nelle diverse fasi della programmazione per razionalizzare le
attività.
Gli interventi di Difesa
del Suolo sono regolati dalla legge 18 maggio 1989, n. 183, "Norme per il
riassetto organizzativo e funzionale della Difesa del Suolo", integrata
dalla legge 3 agosto 1990, n. 253, "Disposizioni integrative alla legge 18
maggio 1989, n. 183". La legge 183/1989 suddivide i bacini idrografici
ricadenti nel territorio nazionale in: bacini di rilievo nazionale, bacini di
rilievo interregionale, bacini di rilievo regionale.
Per ciascun bacino si deve
predisporre il Piano di bacino che è "lo strumento conoscitivo,
normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate
le azioni e le norme d'uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla
valorizzazione del suolo e la corretta utilizzazione delle acque, sulla base
delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato".
Per rispondere all'esigenza di prevenire il rischio geologico-idraulico e per
accelerare quanto previsto dalla Legge quadro 183/89, è stato emanato il
Decreto Legge 180/98, convertito e modificato dalla Legge 267/98, con l'intento
di avviare un programma finalizzato all'individuazione e alla
delimitazione delle aree a rischio geologico-idraulico nell'ambito del
territorio nazionale e di
predisporre adeguate misure di salvaguardia atte a rimuovere le
situazioni a rischio più elevato. Tali interventi, generalmente
realizzati attraverso il ricorso a opere di ingegneria civile e idraulica,
hanno lo scopo di mitigare il livello di rischio attraverso la riduzione sia
della pericolosità (intensità ) dell'evento atteso
sia della vulnerabilità dei soggetti a rischio.
Tuttavia,
al di là dell'indubbia necessità e utilità di interventi
di tipo strutturale per la mitigazione del rischio geologico-idraulico,
è necessaria l’adozione anche di misure di salvaguardia non
strutturali, essenzialmente a carattere preventivo. La loro efficacia risiede,
oltre che in una adeguata e ordinaria manutenzione del territorio, in una
corretta politica di programmazione e pianificazione territoriale da effettuare
a valle di una accurata conoscenza dei processi morfogenetici naturali che
guidano l'evoluzione del paesaggio, soprattutto in fase di redazione del Piano
Regolatore Generale, con l'imposizione di vincoli di tipo urbanistico,
l'emanazione di mirate regolamentazioni edilizie, la scelta di
una idonea disciplina circa l'uso del territorio nelle aree
maggiormente vulnerabili. Queste soluzioni possono essere integrate
dall'applicazione di vincoli e prescrizioni riguardo alle pratiche
agricole e alle modalità d'uso agro forestale del suolo.
Non
ultima, è opportuna e decisiva anche una maggiore responsabilizzazione
dei privati cittadini nella corretta localizzazione dei manufatti da inserire
nel territorio.
I
Programmi di previsione e prevenzione nazionale, regionali e provinciali sono i
documenti programmatici che, sulla base della ricognizione delle situazioni di
rischio presenti sul territorio, definiscono le azioni di Protezione Civile
finalizzate alla riduzione del rischio. Essi devono costituire il punto di
riferimento per la determinazione delle priorità e delle
gradualità temporali degli interventi e per la identificazione dei
fabbisogni finanziari. Alla attuazione dei Programmi provvedono, per quanto di
loro competenza, diversi Soggetti (Il Dipartimento di Protezione Civile, i
Servizi Tecnici Nazionali, le Autorità di Bacino Nazionali, le Regioni e
le Province), contribuiscono inoltre per la parte di loro competenza alcuni
Enti subregionali, l'ANAS, l'ENEL, le FF.SS ed altri enti territoriali.
È
però evidente che la politica dei due tempi (vale a dire la
predisposizione, prima, di una completa e dettagliata ricognizione delle
situazioni di rischio, e solo successivamente, della programmazione degli
interventi) appare poco efficace, sia per i ritardi che possono in tale
prospettiva accumularsi, sia perché nei fatti in tutto il territorio
nazionale la conoscenza del rischio idrogeologico, anche se non sempre
sufficientemente organizzata, è ampia, e può consentire un primo
livello di programmazione degli interventi.
Ne
deriva la necessità di procedere per fasi successive, con una
programmazione dinamica, che in una prima fase oltre a realizzare gli elaborati
sulla base delle conoscenze disponibili, programmi anche le indagini e gli
approfondimenti necessari ad una migliore conoscenza delle situazioni di
rischio che possa servire da base per i successivi approfondimenti.
Questa
esigenza di periodici aggiornamenti deriva anche dal fatto che il quadro del
rischio idrogeologico subisce frequenti modifiche sia perché cambiano i
livelli di antropizzazione e si realizzano sempre nuovi interventi di
sistemazione, sia perché aumenta progressivamente il grado di conoscenza
del territorio.
Basilica di San Petronio,
Bologna
MERIDIANA COSTRUITA DA GIOVANNI DOMENICO CASSINI, STRUMENTO ASTRONOMICO SUL PAVIMENTO DELLA BASILICA.
Intervento di restauro ed alcune
osservazioni sui
problemi di conservazione
di Camillo Tarozzi
Il
restauro di uno strumento di tale importanza storica dovrà tener conto di
varie necessità inerenti alle esigenze di conoscenza, studio e
precisione che la comunità scientifica richiede.
Lo stato di fatto
La
linea meridiana, che si prolunga per
Uno
scavo appositamente eseguito nel novembre 2004 all’altezza della Cappella
Bolognini ha consentito di misurare lo spessore della pietra in mm. 88 circa.
La faccia verso l’alto è stata levigata e lucidata al contrario di
quella immersa nella malta di coccio e calce. A suo contorno e a sostegno della
immutabilità della sua collocazione è una seconda fascia di marmo
rosso di Verona che la stringe ai lati.
Lo
stesso marmo, ed in misura appena
minore il marmo giallo reale delle montagne vicentine, che poi viene estratto
in monti vicini alle due città, ha la caratteristica di offrire in larga
misura e piena evidenza l’intera serie di inconvenienti indotti dalla
esposizione agli agenti atmosferici. Le
sollecitazioni di tipo meccanico dovute al passaggio del pubblico non
possono che enfatizzare i processi di normale alterazione, che non è
bastata una colata approssimativa di resina, posta di recente, a fermare.
Si
ricorda che la struttura granuloblastica del marmo è costituita da
cristalli che si trovano intimamente collegati senza un legante specifico,
tenuti insieme da forze di interazione derivate dalla tipologia genetica
di formazione. Ogni stress
meccanico, fisico o chimico si trova ad aggredire la compattezza della
struttura là dove elementi di discontinuità materica, quel
cangiare dei colori che rende peraltro il marmo così apprezzato, e
quindi la presenza di umidità che si dirama a ragnatela nelle microfessure,
compone nuovi e rinnovati disegni che si evidenziano dapprima con piccole
esfoliazioni e poi con sempre più larghe lacune. Le operazioni di finitura, levigatura e
verniciatura, dovrebbero di solito ovviare alla gran parte delle micro e
macrofratture che danno inizio al deterioramento, ma il calpestio ed il
riprodursi di circostanze chimicamente modificatrici ( primo fra tutti il
formarsi di granuli e strati gessosi) ripropone solitamente un fenomeno
disgregativo pressoché costante nel tempo.
Nel
nostro caso la parte solida dell’agglomerato, più chiara e
resistente allo scalpello, si alterna
a parti in cui il componente povero ed incongruo, per essere costituito
da solfati ed argille debolmente
compattate, minerali ferrosi e pomici sabbiose, si sgretola a vista, scalzato
dai tacchi e dallo strofinamento dei piedi aiutato dall’umidità
emergente e dai materiali chimici usati per la pulizia.
La
granulometria così scomposta e caratteristica dipinge la pietra
ammonitica di Verona con disegni che la fanno variegata ed incantevole ma con
caratteristiche che la confinano alle lastricature di grandi superfici: ad essa
manca la solidità della pietra compatta, e la sua durata nel tempo in
perfette condizioni è proporzionale alla resistenza delle sue parti
deboli, le più rosse e cariche
di ferro. .
Nella
parte con decori incisi con punta di metallo sottile, le figure sono in parte
irriconoscibili ove il segno dello scalpello è stato levigato dallo
sfregamento da calpestio o da antichi trattamenti di pomiciatura e levigatura.
Malauguratamente le antiche raffigurazioni dei decori
della Meridiana del Cassini, belle incisioni coeve e di poco posteriori,
mancano della necessaria fedeltà alla esecuzione di una copia esatta dei
segni mancanti, ed allo stesso tempo non è reperibile una loro adeguata
documentazione fotografica. Il calpestio cui è in continuo sottoposta ha
con il tempo enfatizzato la debolezza intrinseca della superficie della pietra, e in molti punti non sempre
l’incisione che resta è totalmente visibile. L’attuale
intervento ha quindi approfondito lo scavo delle lettere, dei numeri e dei
disegni e dei punti di riferimento, fino ad evidenziarli come in origine con il contrasto del
colore scuro.
Solo
nella fase finale dei lavori è stato possibile quella insistenza nella esecuzione di nuovi segni laddove
non si riconosca più il corso del disegno: che in fase di impostazione
sono certo da limitare, per via del
rigore filologico con il quale si è cercato di impostare l’intero
intervento.
I
numeri invece sono stati tutti ripresi nella loro forma e profondità con
scalpelli acuminati in acciaio temprato a mano, una sorta di “ferro
forgiato” all’antica che tenga a sufficienza l’affilatura, ma
al contempo non possa sbrecciare una pietra così disomogenea quale
quella veronese, come ahimè fanno i moderni scalpelli in acciaio,
diamante e tungsteno.
Il
trattamento è stato preceduto da una attenta perlustrazione analitica e
fisica dei componenti strutturali delle pietre e del loro sistema di
alterazione, dal momento che ad occhio è già possibile
verificare, e quindi ridurre in schema grafico, l’entità del
degrado e la sua distribuzione.
La
pulitura viene eseguita con impacchi di cellulosa e tensioattivo (desogen) come
solitamente intesa per asportare cere ed oli , ciò che aiuta
l’effetto ottenibile con acqua distillata, e con una asportazione di sali
minerali incongrui e dannosi,
solubili in acqua e quindi parzialmente estraibili.
Soltanto
con piccoli scalpelli è stato possibile eliminare le incongrue
stuccature eseguite in passato con colate di resina epossidica, e prima ancora
in altri interventi di rattoppatura, con stuccature di malta cementizia
integrata da coccio pesto ( quelle a calce sono già nel frattempo
scomparse per polverizzazione da calpestio).
Le
lacune di grande dimensione o di evidente impatto visivo sono state , una volta
ripulite, riempite con frammenti della stessa pietra ancorati con resina
epossidica e stuccate con inerte
adatta all’ottenimento di un colore e di una granulometria identica a
quella circostante punto per punto, una sorta di integrazione pittorica volta a
ricostruire unitarietà alla superficie colpita. Con l’intento
beninteso di rifinire con una levigatura a mano le aree lavorate, e con la
decisione di operare con lo scalpello fine ed acuminato alla ripresa delle
decorazioni scomparse. Si è messa in atto la stessa logica operativa con cui sono
condotti i lavori in corso sul pavimento lapideo del Duomo di Siena, in quello
di San Pietro in Vaticano ed in Santa Maria Maggiore a Roma.
Per
rendere meglio conto del tipo di lavorazione, si ricorda l’operato del
dentista che ripara lo smalto del dente con una otturazione che si ancora nel profondo delle
cavità, e poi appiana in superficie fino ad imitare il colore dello
smalto circostante con un impasto colorato ed intonato di resine bicomponenti
che contiene polvere di marmo finemente tritato, reso liscio con
piccoli strumenti abrasivi, indurito con emissioni di raggi UV e lucidato con
testine diamantate finissime, fino ad ottenere una integrazione che scompare
nel colore del dente risanato.
Benché
appaia strambo il paragone fra professioni tanto diverse, è motivo di
orgoglio, oltre che utile, ricordare che il naso della Madonna nella Pietà di Michelangelo, distrutto dalla martellata di un pazzo,
è stato ricomposto con la stessa materia e la stessa tecnologia con cui
sono state rassettate le
cavità del piano di lettura “ cariato”della nostra
meridiana.
Già
si potrà pensare ad un piano conservativo per il futuro che imponga ai
visitatori un rispetto per questo strumento scientifico che per propria
naturale disposizione costituisce il piano di calpestio. Per ora ci si limita a
richiedere l’apposizione di cordoni che possano ordinare il passaggio,
con il suggerimento o l’ordine esposto di non calpestare il manufatto.
Si
è posto il problema, su alcune zone particolarmente degradate nelle
fasce esterne in rosso di Verona, di intervenire distaccando la parte superficiale di intere lastre
per uno spessore di
Direttore
dei lavori l’ing. Domenico Rivalta
Sovrintendente
per i beni Architettonici e del Paesaggio Arch. Sabina Ferrari
Hanno
collaborato Marta Parmigiani, Marco Pasqualicchio, Mattia Satta, Laura Danti
Il
finanziamento è sostenuto dalla
Fondazione Carisbo
NICCOLÒ
PERRONE
di
L’abate Niccolò Perrone fu uno dei più eleganti latinisti
italiani del XIX secolo.
Nacque a Mormanno il 20 gennaio 1819. “Suo padre, Flavio, era medico reputatissimo in quella terra, nella
quale aveva ben meritato il Parroco Isidoro Perrone per carità di animo,
ed eransi distinti per virtù d’ingegno Nicolò Perrone
seniore che fu Arcidiacono della Cattedrale di Cassano Ionio, e Pietro Perrone,
frate domenicano , che professò matematiche nei seminari di Bojano e
d’Isernia. A quel tempo la scuola era vivificata dall’ambiente
purissimo e benefico della famiglia, nel grembo della quale spesso sorgeva. Il
Perrone durò, in tutta la sua gioventù, lo studio delle buone
lettere presso suo padre” [1].
Studiò poi nel seminario di
Boiano e in quello di Cassano. Qui fu ordinato sacerdote il 21 settembre 1841.
Nel 1847 si trasferì a
Napoli. Nell’aprile dell’anno successivo, presentato da Luigi
Settembrini, ebbe il posto di insegnante in una scuola pubblica.
Sorpreso dagli avvenimenti del 1848
e soprattutto dalle fucilate del 15 maggio dirette dai mercenari svizzeri ai
deputati e al popolo in tumulto, per non subire persecuzioni, reazioni e
processi[2]
l’anno successivo, si recò, o meglio fuggì, a Mormanno.
Risultava, come oggi si dice “un
sorvegliato speciale” sia per amicizie urbane sia per i rapporti con
letterati lucani cui aveva indirizzato una Risposta
sull’ Arpa Lucana.
Nel 1860 ritorna a Napoli e riprende
ad insegnare latino, senza nulla chiedere e nulla ottenere dagli amici del
’48 .
Nel 1862 fece un giro nell’Italia superiore, ripetendolo
poi nel
Furono: Tommaso Vallauri[3],
Atto Vannucci[4],
Niccolò Tommaseo, Andrea (conte) Maffei[5],
Aleardo Aleardi, Terenzio Mamiani Della Rovere, Alessandro Manzoni.
Il Mamiani riteneva i suoi versi gemme di squisita eleganza latina e il Manzoni, in una lettera a lui
indirizzata, gli scriveva tra l’altro:
“Ella mantiene all’Italia il pregio di essere ancora maestra alle
altre nazioni per tener vivo e fiorito il bel sermone dei suoi gloriosi
antenati.
Pochissimi
in Italia scrivono latinamente com’Ella scrive; pensando latino, non
vestendo di pannucci latini concetti e forme meramente italiane ”.
Nel 1870, il Nostro concorre insieme
a molti altri per un posto di professore
pareggiato presso la cattedra di letteratura latina della Regia
Università di Napoli. Vincitore, insieme al posto, gli fu pure
assegnata, motuproprio, dal Re Vittorio Emanuele II,
Nonostante gli onori ed il valore
professionale, non avendo adeguati proventi che gli potessero consentire una
vita dignitosa, si costrinse a vivere nell’angolo di una soffitta.
Non gli venne meno tuttavia quello spirto guerrier di alfieriana memoria,
né quella insita capacità, quasi connaturata, di poetare in
latino, improvvisando secondo l’estro ed il momento.
Guardando nel buio di una fredda
sera invernale la pergamena della conferita onorificenza, preso da uno slancio
improvviso, vi scrisse a margine i seguenti distici:
Das crucem misero, Caesar, mihi cruce levando?
Dai
la croce al misero, o Cesare, innalzandomi in croce
Ferrea, quam porto, non satis esse putas?
Non
credi che sia abbastanza ferrea quella che sopporto?
Pectoribus
roseis bullas felicius apta,
Attacca
con più gioia borchie ai rosei petti[6]
At memorem sortis te precor esse meae.
Mentre
ti prego di ricordare la mia situazione
Incubuit
crux una mihi, tunditque, teritque,
Sono
sovrastato da una croce che mi schiaccia e consuma
Impar huic, potero sustinuisse duas?
In
queste condizioni di inferiorità potrò sopportarne due?
Et,
si sustineam, quos risus nostra movebit
E
se lo farò, quale gioia provocherà
Cruce
palatina trita lucerna micans?
La
mia croce palatina[7] davanti ad una
tremolante e consunta lucerna?[8]
Sperando di migliorare le sue
condizioni, nonostante la sua preparazione ed il suo valore, nel 1876
accettò un posto di insegnante nel ginnasio di Rotonda (a Mormanno a
quel tempo non esisteva un Ginnasio!).
“La vita cominciò a divenire desolata per lui. Una serie di
avventure specialmente una grave infermità lo costrinsero a partire
esule volontario per Rotonda, paesello di tremila abitanti, posto
nell’estrema Basilicata, a piè della nevosa gola di Sammartino,
dove per opera di Mr. Giuseppe Salviati, sorse un Ginnasio nel quale ebbe
ospizio come maestro l’insigne e valoroso latinista dell’Ateneo
napoletano. Il Perrone si ricorda del mestissimo vate esule al Ponto (Ovidio
n.d.r.) e in quel montuoso luogo della
Lucania sembra aver trovato la sua piccola Tomi. Così scrive:
Gensque
tenet Scythicis aequiparanda Getis
La
gente del posto si può paragonare agli scitici Geti[9]
Hirsuti cives, hirsutis rupibus haerent.
I
rozzi cittadini sono immabili come le irte rupi
Hic aer nimbosus, hiems glaciesque perennis,
Qui
l’aria è tempestosa,
perenne è l‘inverno ed il ghiaccio
Nubilus
hic Boreas pertetuusque furit.
Qui
furoreggia Borea e il cielo è sempre pieno di nuvole.
E come Orazio ride del suo scriba di
Fondi - Fundos Aufidio
Lusco…insanis ridentes… - così il Nostro Niccolò,
ride “di alcune lettere che Rotonda crede poter, quasi figlia di
Roma, segnare sul suo stemma. Egli chiama Rotonda Siopoli, ed invece di
senatus legge sus, ciò perché colà in ogni famiglia vi sono
maiali.
Susque
domi potior, coniux venit inde
seconda:
La
cosa più importante della casa è il maiale; al secondo posto
viene la moglie
Virque, cubans,
medium inter utrumque iacet.
L’uomo
dormendo sta sdraiato tra l’uno e l’altra.
Nec stupeas! Stirpem, mores et nomina genti
Non
stupire! Stirpe, costume e nomi
Sus
dedid…
ha
dato il maiale…
Stemmata
sculpta monent…
Gli
stemmi scolpiti lo ricordano…
Sempre a Rotonda, osserva che il
vino e le carte da gioco sono la palestra abituale degli abitanti:
….vinaria
cella ministrat
...
la cantina governa
Vim mentis; digiti sunt quibus arma micant.
la
forza della mente; giocano alla morra usando le dita come armi.
La permanenza, protrattasi per due
anni, “sulla terra fosca e
inaridita (ove) è condannato a
trascinar la vita” causò al Perrone una serie di malanni per
curare i quali ritornò a Napoli ove lo troviamo fin dall’inizio
del 1878 “ su di un misero letto,
in poverissima casa, quasi muto, gramo, scheletrito; pareva un sepolto vivo.
Era il tempo in cui lungi da sua famiglia, vittima di morbosa letargia, veniva
spogliato da falsi amici, nonché di ogni sua roba frutto di sudato
insegnamento, anche dei prodotti del suo pensiero, vita della vita di
lui”
Et rapuere meos memorantes facta libellos
E
rapinarono le mie sudate carte e i miei diari
(O
soboles patris sparsa cruore tui!)
(O
figli dispersi e intrisi con il sangue di tuo padre)[10]
Quodque vigil calamus bis denis scripseram annis,
Tutto
quel che l’attenta penna
aveva scritto in più di vent’anni
Quasque
labor modicas evigilarat opes
e
le cose più modeste nate pur
rubando ore al sonno
Diripuere
simul, nex parvula queque suppellex
mi
furono saccheggiate insieme, la sola piccola suppellettile
Effugit.
Sfuggì
al danno.
Verso la fine dello stesso anno si trasferì a Roma ove gli fu
assegnato un posto di impiegato presso
Dopo tre anni ritornò a
Napoli ove si diede di nuovo all’insegnamento.
Nel novembre del 1882, ormai
completamente cieco, l’Università gli affidò un corso di
Letteratura Latina.
Qui continuò ad insegnare per
altri sei anni. Gli studenti, a turno, leggevano i testi che lui commentava
dettandone poi
Una sua prolusione del 1887 Latinus sermo vere libertatis et patrii
amoris interpres et magister è riportata in un volume di Scritti
Varii raccolti e pubblicati dal
tipografo Michele De Rubertis, Napoli 1882-1886.
Don Niccolò Perrone,
abbandonato anche dai tanti suoi vecchi amici, povero e solo morì in
Napoli il 28 giugno del 1888.
“Non
solo fu eccellente cittadino e maestro ma buon sacerdote: spesso era alla porta
dei più insigni suoi amici per chiedere la carità per le povere
orfanelle di un asilo delle quali era diventato qui in Napoli benefico
protettore. Ci lasciò egli scritto che il genio che solo possiede il
segreto delle grandi cose, è il Genio della Fede”
“Quando odo il Perrone divenuto velut umbra sui;; quando veggo lui cantare
presso la culla di un fanciullo figliolo di un suo amico o poetare della folgore che ha colpito
la giovane pianta che era a fianco della sua casa in Mormanno; quando io lo
seguo sulle ali del pensiero mentre ei vuol portare a Dogali un cipresso e una
croce e porli sull’immane fossa dei nostri valorosi soldati; quando lo
odo cantare il lamento di una povera madre la quale al tornare della primavera
aspetta invano il ritorno di un figlioletto rapitole l’anno prima, come
aspetta invano il poeta rivedere la luce, io veggo in lui qualche cosa che mi
ricorda Gioviano Pontano; io non so non riconoscerlo degno della famiglia
artistica di questo sommo poeta, il quale se fu grande nel cantare degli astri,
fu grandissimo nel cantare felice le nenie ai suoi figlioli, e nel meditare,
nel tempo della sventura, i versi per i tumuli dei più cari di sua
famiglia”
Occupiamoci ora delle
altre sue opere.
Esse possono essere
così catalogate:
·
scritti e componimenti in latino
·
scritti e componimenti in italiano
Tra i primi sono da
ricordare poesie latine molte delle quali in possesso di tanti suoi discepoli e di
amici, oggi tutte disperse.
Tra esse vi erano quelle
indirizzate al Bovio, al Mariani, al Correnti, al Manzoni, al Baccelli, al De
Sanctis, al Minervini[11],
al Ranieri, al Sanfelice, a Leone XIII, e ad altri.
Tra i componimenti in
italiano, contenuti nell’introvabile volume del De Rubertis, vi erano,
inni, canzoni, ottave, sonetti.
Degni di nota due inni:
·
il
9 gennaio 1878 dedicato a Vittorio
Emanuele II;
·
il
Ramo d’Olivo alla Regina Margherita.
Essi sono pregevoli e
per i sentimenti religiosi e per quelli d’amor patrio che il Perrone,
nonostante le sue disavventure, conservò integri come quando giovane
prete si affacciava alla vita
considerandola una missione.
Va pure ricordato il suo
modo incisivo, lapidario, conciso, quasi epigrafico con cui sapeva condensare
in poche battute tratti della vita o
avvenimenti.
Anche questa produzione,
purtroppo non esiste più.
Si ricorda che in un
periodico L’Ateneo n.
6,7,8 (di cui si ignora chi sia
stato a stamparlo, il luogo e la data) ne vennero pubblicate due per tale
Liborio Romano.
Gli scritti del Perrone,
non sono che la minima parte di quelli pubblicati dal De Rubertis.
Un suo biografo, tale G.
Caivano ricorda:
·
insieme
all’abate Saverio Bloise scrisse un Vocabolario
latino-italiano edito in Napoli dalla tipografia Vanni nel 1865[12];
·
dieci
orazioni sacre e quattro funebri;
·
un
corso di grammatica latina;
·
un
trattato di lessico secondo il quale da una sola radice possono derivare
più di mille parole;
·
duecento
epigrammi;
·
la
manzoniana 5 maggio riscritta in
metro alcaico pubblicata postuma in Messina dallo stabilimento tipografico
Alicò nel 1913, nella rivista Scrittori Calabresi;
·
due
odi alcaiche al Manzoni;
·
molte
elegie latine;
·
molte
poesie italiane raggruppate in un testo dal titolo Corona di Spine tutte satiriche come quelle del Giusti;
·
altre
Bazzecole lette ai soci dei Letterati ed artisti napoletani di cui era vice presidente.
Fra gli atti
dell’Accademia Pontaniana si trovano i seguenti altri scritti:
·
Ad Modestinum del Gaizo 1885
·
Ode ad Franciscum Florinum 1887
·
Ode alcaica: triunfalis cupressus in
Dogalis saltibus consita. Ad AcademiaePontanianae sodales 1887[13]
·
Per il monumento di V. Bellini[14]
UN
ESEMPIO DEL SUO POETARE IN LATINO
Trimphalis cupressus in Dogalis[15]
saltibus condita
Ad Academiae Pontanianae sodales
ODE ALCAICA
Recitata nella tornata dell’8
aprile 1887
Quo vos superno nomine
consecrem
O gnava pubes, o patriae decus,
Quos nunc triumphalis cupressi
Gnatus honor redimit corona?
Per quos in Afris Italiane
jubar
Thermopylarum sidere clarius
Effulsit, heroumque caedes
Splendidior micuit triumpho?
Et vos, Pontanae Pieridis
chorus
Quae trado, doctis scribite
paginis,
Gratumque promendum puellis
Et pueris, properate carmen.
Substat Dogàlis cautibus
horrida
Vallis, latronum pervia
fraudibus,
Haec saxa quingentùm
manipulus
Jussus adit…perimendus
hospes!
Parvam virorum despiciens
manum,
Astu, latebris et numero
potens,
Alùla quingentis
cruentum
Impavidis tumulum
paràrat.
Iam jamque vallis fulmineis
repens
Inardet armis, plumbea glandium
Fit grando praeceps et ruente
Vulnipero fremit aura nimbo.
Quis mortis horror! Quae
facies! humum
Confossus Afer mordet et
infremit,
Dum noster heu! miles salutat
Italiae moriturus ocas.
Iam defit ignis esca, tonantia
Tormentata cessant; iam simul
hostium
Millena, quae caelant, dolosae
Visceribus
removunt cavernae.
Tun
sica sicae, spicula spiculis,
dextraeque
dextris, et pedibus pedes,
et
tela responsare telis,
et
gladii gladiis retundi.
Fit
caedis agger, myrias hostium
Jam strata, cingit corpora
fortium
Quincenta, vix deni supersunt
Ex Italo juvenum maniplo.
Tum dux “Eamus relliquiae
virum:
vitate pugnant non numero viri.[16]
Reddamus hic caesis honores.
Hisque pares moriamur”
inquit.
Deliberata morte ferocior
Tunc dena pubes irruit,
impetit,
claustrumque Dogalis cadentum
caede nova, cumulique sternuit.
At septa, tamquam vortice
tigrium,
Quo quisque pugnat ordine
concidit.
Sic vidit instratos. Stupensque
Horret atrox refugitque
Alùlas.
At feminarum turma furentium
Nudat jacentes, tegmina
diripit,
Et frendit amens, et sorores
Dente studet superare hyaenas;
Namque et cruentis corpora
morsibus
Scerpunt, et haustu sanguinis
ebriae
Bacchantur, obscenaeque circum
Nuda virium mutilata saltant.
Miserta, pennas Gloria discutit
Et pandit alas corpora
subtengens.
L’ode è scritta ad appena tre mesi
dall’avvenimento.
Non ne propongo una mia traduzione,
benché fortemente tentato, perché, ne sono certo, dovrei usare, a
fronte di un contesto dalla stringata e suggestiva classicità, delle
brutte e stucchevoli perifrasi.
Se la goda così il benevolo
lettore, dando al suo sensibile animo la libertà di interpretare e
sentire come propri i sentimenti espressi.
La furente
turma delle donne, i loro morsi più feroci di quelle delle iene, il
baccanale osceno sui corpi nudi degli uomini non vi ricordano le pennellate di
Michelangelo, le orride tregende dei gironi danteschi, le antiche e sanguinose
battaglie ove nulla era più feroce di una morte voluta e assaporata? Godiamocelo! E’ veramente
bravo !
UN ESEMPIO DEL SUO POETARE IN ITALIANO
Ad
una amica gravemente inferma
or
che un istante a dirti addio mi resta?
Parola
estrema, ch’io ti volgo è questa…
Gelida
voce in cor mel dice: or io
Lina
pietosa, come dirti addio
Quando,
sepolto in fosco tenebrio,
cominciava
la mia notte funesta,
tu
sorreggevi l’egro spirto, e mesta
tu
mescevi il tuo pianto al pianto mio.
Lina
pietosa, come dirti addio ?
Sederò
solitario e gemebondo
Sotto
il castagno di Morman selvosa;[17]
pellegrino
alla vita, in odio al mondo,
sederò
solitario e gemebondo.
Quando
di me ti sovverrai pietosa,
pregami
requie; poserà il mio capo
polve
sol del tuo pianto sospirosa,
quando
di me ti sovverrai pietosa! [18]
NOTIZIE DAL BRASILE
In una piacevole intervista, il giornalista della RAI e professore
d’italiano Stefano Barbi Cinti racconta un po’ della sua vita in
Sudamerica, commenta il mito del “Brasile dei sogni” e parla della
sua identità italo-baiana.
di Ricardo
Sangiovanni
Dietro alle notizie che arrivano dal Brasile al Tg 1 della RAI, si
nasconde una bella storia di vita. In questa intervista a FARONOTIZIE.it, il
giornalista italiano Stefano Barbi Cinti racconta un po’ del suo percorso
di vita. Laureato in medicina in Italia, dall’età di 24 anni, con
un promettente futuro davanti a sé, Stefano non si sentiva felice.
“Fare il medico, però, non era quello che
avevo sognato. Troppe malattie da trasformare in denaro e poca salute
da dare”.
A 28 anni, sposato ed impegnato col lavoro vicino alla sua città
d’origine – l’eterna Roma – Stefano ha deciso
d’abbandonare la professione ed andare via. Lavorare nella sanità
gli stava rubando
Ne aveva ancora di tempo. Stefano ha oggi 56 anni, abita sempre a
Salvador di Bahia,. Qui si è sposato un’altra volta, con
un’altra brasiliana. Ha avuto
tre figli che ha visto crescere, oggi di 27, 21 e 17 anni. E’
divenuto giornalista e professore d’italiano – ha fondato ed
è ancora direttore dell’Associazione Italia Amica, la più
famosa scuola d’italiano di Salvador - , oltre che un esperto del beach volley.
Lettore di romanzi e appassionato delle ‘cose belle del cinema’,
piacere e lavoro per Stefano sembrano essere cose sempre vicine. “Adoro
andare in giro a convincere le persone a raccontare la loro storia, a
scriverla, a trasformarla in video, in film”.
Questa volta, l’abbiamo convinto noi a raccontare
FARONOTIZIE - Come hai avuto l'idea di venire in Brasile?
Qual era la tua relazione col Brasile prima di venire ad abitare qui?
Stefano Barbi Cinti - Mia moglie era brasiliana ed allora scelsi
Brasile per ricominciare. Decidemmo di cominciare da Salvador, dove spesso
passavamo le vacanze d'estate. Son venuto con una chitarra, una macchina
fotografica e un quadernetto di annotazioni. Anche un po’ di soldi,
è vero, che avevamo messi insieme per non esser costretti
a trovare un lavoro subito.
Già in Brasile, dopo il carnevale mi ammalai. Epatite
virale. Troppi giorni a letto. Mi misero una tv in camera, ma non la
sopportavo! Non riuscivo a trovare un libro che mi interessasse. Cominciai a
scrivere. Scrissi un romanzo, credo che avesse anche un titolo, ma sicuramente
non ebbe fortuna, o forse meglio competenza per aver fortuna. Quando alcuni
anni dopo lo portai in Italia in cerca di casa editrice,
ricevetti alcune pagine di tiepidi elogi e molte, molte pagine
di motivi che ne sconsigliavano la pubblicazione.
In realtà non è che avessi molte speranze... eppure quel
mese di intensa
attività "letteraria" mi fu utilissimo per
capire che quello mi piaceva. Anche gli inutili giri per
cercare un editore mi servirono per conoscere gente. Con me
infatti avevo anche qualche articolo che avevo scritto sul mio libretto di
annotazioni su un paese praticamente sconosciuto, patria di Pelè,
del fantastico Santos, e di tante fantasie sudamericane che venivano alla
luce tra i personaggi di Gabo Marquez, Jorge Amado, i versi di Pablo
Neruda, i miti del Che...
Così cominciai a scrivere per la pagina letteraria del
Messaggero, poi per qualche settimanale. Non guadagnavo quasi niente, ma mi
divertivo da matti. Poi la macchina fotografica si trasformò in super 8,
più tardi in
F - Quali sono le principale differenze, secondo te,
tra il Brasile che hai trovato quando sei arrivato ed il Brasile di oggi?
SB - Quello era il Brasile dei sogni, bellissimo,
meraviglioso, colorato, oggi ci vivo e quindi è il Brasile della
realtà, sempre ben più triste, spesso irritante. Irritante e
sconvolgente è soprattutto la differenza tra quello che potrebbe essere
e quello che è. Il Brasile sembra sempre nuotare vigorosamente ma
non si muove mai. Schiavo com'è dei privilegi che ha distribuito e
continua a distribuire ai già privilegiati. Vincere privilegi è
sempre difficile, ma qui sembra davvero impossibile. Qui non si vincono i
privilegi, ma si vince per assumere i privilegi.
F – E adesso, quali sono i tuoi progetti di lavoro?
SB - Non faccio mai grossi progetti, lavoro giorno per
giorno. Alla sei comincia il progetto. Alle dieci di sera finisce. Ora son le
sei, tra un po' comincio a montare un servizio, poi devo preparare una lezione
(la preparo sempre anche se è la prima lezione del primo semestre. La
vedo sempre come un film. Penso quando gli alunni si stancheranno. Stop.
Cambio. Altro e via), più tardi, se ce la faccio vado a camminare e
correre sulla spiaggia. Poi magari do un'occhiata in internet per cercare idee,
per rinnovare le attività dei vari semestri. Nel pomeriggio vado a
terminare di filmare un servizio a Liberdade (quartiere di Salvador). Poi una
riunione a Cajazeiras (altro quartiere), non so che numero... (si riferisce qui
a un suo progetto, di realizzazione di workshops
di video con le comunità della periferia di Salvador). Se telefonano
dalla RAI poi, devo smetter tutto e "correr dietro" fino a
finire il pezzo da mandare via satellite!
F – Sei anche professore d’italiano. Che
cos'è e come funziona l'Associazione Italia Amica? Lo Stato Italiano vi
da alcun tipo di aiuto?
SB – Anche Italia Amica è un piccolo sogno. Che
cos'è? Boh! Sicuramente è una scuola d'italiano in cui si fa di tutto
per far in modo che le persone imparino a comunicare più rapidamente
possibile. Siamo convinti che il centro e il motore di tutto questo sia lo
studente. Il professore deve solo (!!!) metter benzina, motivazione, la
macchina deve andar da sola. Cerchiamo di usare più materiale autentico
(film, canzoni, siti, libri, riviste, telegiornali ecc.) possibile e
trasformarlo didatticamente per stimolare una ricerca autonoma in biblioteca o
fuori dalla scuola sui siti italiani ovunque. Il percorso dell'apprendimento
noi vogliamo solo delinearlo, gli alunni lo riempiranno se saremo riusciti a
stimolarli. Sicuramente è un programma ambizioso e per certi versi
pericoloso. Ma è stato, mi pare, un baiano a dire “Tutto é
pericoloso, tutto è divino meraviglioso", o no? So che molti lo
considerano un po' vecchio, ma anch'io lo sono e con un certo orgoglio. (Stefano
si riferisci al cantautore Belchior, nato nello stato di Ceará, ma molto
famoso dappertutto in Brasile).
Insomma diamo aule di italiano a discendenti di italiani (e riceviamo un
contributo per questo dal Ministero degli Affari Esteri) e non. Il contributo
ultimamente è diminuito moltissimo e questo ha creato grossissimi
problemi alla scuola, che ha dovuto ridimensionare al massimo obbiettivi e potenzialità.
F – Spesso si dice che l'italiano è una
"lingua morta", per non essere parlato in molti luoghi fuori
d'Italia. Cosa si può dire per incoraggiare qualcuno a iniziare
a imparare l'italiano?
SB – Morta non direi. Se no che ci stavamo a fare
lì. Poco usata è vero. Ma questo è anche un vantaggio. Se
pochi la conoscono diventa un buon differenziale per loro, no?
Poi aiuta molto in alcune attività dove
l'italiano è lingua maestra: per esempio, oltre al turismo (mamma mia
quanti italiani!) arte, architettura, moda, design, sport, diritto ecc.
Ancora: studiare una lingua è un
ottimo attivatore e rigeneratore cerebrale: è come andare in
palestra per il fisico. Oltretutto il contatto con altri studenti di varie
età e le attività di gruppo che cerchiamo sempre di incentivare
aiutano a migliorare le interazioni sociali e sono un eccellente equilibratore
psichico . Quanti nostri alunni spesso ci hanno detto che una nostra aula
è meglio che una seduta di psicanalisi!
F – Uno, quando abita fuori 'casa', sia per poco, sia
per molto tempo come te, sempre assorbe qualcosa della città e del paese
dove abita. Ti senti più brasiliano
– forse sarebbe meglio dire baiano
– dopo tanti anni qui? Cosa fare per non perdere la relazione con
l’Italia?
SB – Ho scoperto che sono un anno più baiano
che romano (
Ma la macchina, come ti dicevo, è italiana e non si dimentica. Modi
di ridere, di piangere, di scrivere notizie, di ironizzare, di gridare, di
camminare, di cantare. Oggi poi il non perdere contatto è molto
più facile di qualche anno fa.... basta un dito, nè!
E poi non posso perderlo, se no come faccio a lavorare: tutto o quasi
quello che faccio ha legami, oltre che con il Brasile, con l'Italia, quindi
è un must del mio lavoro. E
poi io son venuto via a 28 anni, mica a due!
NANCY
di Francesco M.
T. Tarantino
Controversa
emancipata e perdente
Bellezza
di un passato remoto
Desiderata
nonostante decadente
Da
chi ti memoriava con una foto
Sei
stata di sicuro anticonformista
Non
ti sei persa in considerazioni
Se
di centro di destra o comunista
In
divisa in borghese o con milioni
Hai
amato per passione o per altro
Hai
scandito il tempo con alterigia
Senza
cadere in trappole da scaltro:
Un
amore ostentato oltre le vestigia
Accompagnata
dagli sguardi furiosi
Nelle
tue lunghe passeggiate serali
Per
un rifiuto che li rendeva rabbiosi
Ti
guardavano pungenti come strali
Trascinavi
il carrellino della spesa
Sempre
con occhi acuti e guardinghi
Snob
al punto da non esser vilipesa
Con
la mente che andava ai vichinghi
E
non ci furono amanti a consolarti
Solo
l’usuraio che ti doveva milioni
Si
augurava la tua fine senza guardarti
Per
paura che si scoprissero i covoni
Di
un desiderio perverso senza carezze
Un
amore scambiato per soldi e bugie
Con
la vendetta consumata in bassezze
E
tu cadevi memore delle tue nostalgie
Un
ciao anche a te senza alcuna ipocrisia
Al
tuo ruolo smarrito in questo tempo
A
te che rivivi ancora nella pia fantasia
Di chi restò fascinato e non
ebbe scampo
*
Francesco M. T. Tarantino ha di recente pubblicato una raccolta di poesie dal
titolo “Cose Mie”, MEF -
L’Autore Libri Firenze.
STOCCARDA,
di Giorgio Rinaldi
E’
come essere finiti in mezzo ad una sagra di paese.
O
sul lungomare di Rimini, o di qualsiasi altra cittadina balneare.
Un
gigantesco luna-park: montagne russe, la ruota panoramica, il castello delle
streghe, i venditori di peluches.
E
immensi capannoni capaci di ospitare quattro o cinquemila persone ognuno.
Tutte
con il loro bravo boccale di birra da un litro (mass) in mano e mezzo pollo arrostito davanti.
Al
centro del capannone, su un palco, cantanti, musicanti, bravi presentatori a
dirigere la bolgia e a dare l’imput per balli, slogan e canzoni.
Ogni
capannone è sponsorizzato da una marca di birra.
Quelle
più rinomate costringono i capannoni dove campeggia il loro marchio a
chiudere i battenti già dalle prime ore del pomeriggio, perché i
posti a sedere si esauriscono in un batter d’occhio.
Dalle
quattro o le cinque del pomeriggio e sino a mezzanotte è normale bere
tre o quattro litri di birra, e l’alcool contenuto, seppur in
quantità minore del vino, mette allegria e spinge a socializzare.
Man
mano che le bevute aumentano, le persone salgono sulle panche ed iniziano a
ballare.
Ci
si diverte veramente con poco, come i bambini.
Tra
i tavoli girano ragazzine che, a richiesta, ti fanno l’esame
alcolimetrico.
E’
solo un gioco, perché nessuno si azzarderebbe a mettersi alla guida dopo
aver bevuto, tanto o poco che sia.
La
polizia se ti becca che sei un po’ alticcio ti fa passare la voglia di
guidare per qualche anno.
E,
allora, è meglio che ti fai venire a prendere da qualche amico o parente, o chiami un taxi, o ti servi
dei mezzi pubblici.
La
festa della birra di Stoccarda,
Quella
che si è tenuta quest’anno (dal 23 settembre all’8 ottobre)
è la 161^ dalla sua istituzione, che risale alla volontà di
Guglielmo I° come fiera e mercato di bestiame e, successivamente, come
festa di ringraziamento per la fine di una delle tante carestie.
Stoccarda
è una bella città di oltre mezzo milione di abitanti, circondata
da tanto verde, attraversata dal fiume Neckar e porta della Foresta Nera.
Noti
subito dov’è perché da chilometri vedi la torre della
televisione, alta ben
Dire
Stoccarda è dire Mercedes: qui si costruiscono le auto del più
antico e blasonato marchio tedesco.
La
“stella a tre punte” domina la vita della più grande
città e capitale del Baden Wurttemberg.
Nel
centro di Stoccarda, sulla torre del palazzo della stazione, svetta il simbolo
della Mercedes.
A
nessun altro sarebbe stato consentito di installare un marchio commerciale
sulle linde vestigia cittadine, ma –almeno in questo caso- il delitto
paga.
DONNE O CAVALLE ?
di Mirella Santamato
Oggi
più che mai si pone la questione delle diversità e delle
minoranze. Siamo sicuri che non si tratti di enormi inganni perpetrati da secoli
a nostro danno, da cui potremmo facilmente liberarci, comprendendoli?
Minoranze,
Minorati, Minorenni: tutte parole che sottendono un “ minus habet”
che fa paura. Chi si arroga il diritto di definire milioni di individui
con queste tristi etichette? E,
soprattutto, in base a quali criteri?
Oggi,
in clima politico, si fa un gran parlare di “ rispetto delle
minoranze”, ma siete sicuri che questo sia vero? Guardiamo da vicino: da
sempre le minoranze sono considerate le donne ( il 51% della popolazione) poi i
vecchi e i bambini ( un altro 15%,) i disabili ( circa il 10%) gli
extracomunitari ( un altro 15%) e i malati ( almeno il 5%). Se siete bravi in
matematica, provate a sommare queste cosiddette “minoranze” e
avrete la spaventosa cifra del 95%.
Il
novantacinque per cento della popolazione mondiale é considerata
politicamente e socialmente “minoranza”. Cominciate a rendervi
conto dell’inganno?
Chi
sarebbe allora la supposta “maggioranza”? Ovviamente quelli che non
sono donne, bambini, vecchi, disabili, extracomunitari e malati: il soggetto
che ci interesse deve essere quindi Maschio, Giovane, Atletico e di Razza
Bianca. Vi ricordano qualcosa storicamente, in un passato recente, questi
aggettivi? La cosiddetta
“maggioranza” conta, nei numeri oggettivi, circa il 5% della
popolazione, ma pure viene universalmente riconosciuta come tale. Come mai?
La
risposta si annida nelle migliaia di anni di ignoranza dei meccanismi profondi
della mente umana. La mente umana, per sua caratteristica intrinseca, é
malleabile, manipolabile e soggetta a paure. Su queste paure e ignoranze si
fonda tutto l’inganno di cui abbiamo parlato.
Sono
anni e anni che sono alla ricerca
dell’ "origine del problema", di quel famoso "
sassolino" in cima alla montagna del Tempo che ha dato origine a tutta la
valanga disastrosa che oggi, a
valle, siamo costretti a vedere.
Dopo
tante analisi e prove e controprove, sono riuscita ad individuare il piccolo
"pensiero" da cui ha origine tutto il cataclisma. E' il fatto
più vicino a noi, anzi l'ingiustizia primaria da cui originano, a
pioggia, tutte le altre.
La
vita e l’ingiustizia hanno la stessa origine e cominciano nello stesso
momento, cioè al primo vagito, ovvero dalla prima ecografia. Appena
apriamo
gli occhi sul mondo siamo etichettati da una forma di ingiustizia primaria che
deriva dalla differenza di considerazione tra i sessi.
Non
importa se viene considerato inferiore il Maschile o il Femminile, l'importante
che uno dei due sia considerato INFERIORE (un minus habet, appunto) all'altro.
Storicamente
é stato considerato inferiore il Femminile, ma l’inversione dei
fattori, attualmente molto di moda, non cambia il risultato. Questo dislivello
impedisce l'Amore, che si crea solo tra pari, e dà agio al Potere di esistere.
Sulla
primaria ingiustizia ( siamo prima maschi e femmine, che negri o bianchi,
cristiani o musulmani) si fondano tutte le altre.
Ecco
perché le persone fanno molta fatica a parlare di sessualità.
Siamo molto bravi a parlare di problemi “ periferici”, conferendo
loro grande importanza nazionale e internazionale, proprio per nascondere,
soprattutto a noi stessi, che il vero problema, la primaria ingiustizia, si
trova nel centro nel nostro corpo, come l’Uomo di Vitruvio di Leonardo ci
indica da sempre.
Vi
siete mai chiesti perché Dante accetta una guida maschile ( Virgilio)
per attraversare l’Inferno e il Purgatorio, ma sa che, per arrivare in
Paradiso, dovrà essere guidato da una Donna? perché Dante, come
tutti i Grandi, conosceva la verità.
Noi
questa strada luminosa l’abbiamo persa e continuiamo a perderla tutti i
giorni.
Preferiamo indire Convenzioni internazionali,
Congressi mondiali, Meeting ad alto livello che, nei secoli, hanno dato
evidenti, scarsissimi risultati, e mai affrontare il problema dal centro di noi
stessi.
Se
non risolviamo prima le nostre singole esistenze, non potremo essere di nessuna
utilità per risolvere il mondo. Semplicemente produrremo dell'altra
" aria fritta", come hanno fatto gli uomini che ci hanno preceduto
nella storia.
Il
pensiero Patriarcale é stato, per millenni, l’unico punto di vista
dell’umanità e continua ad esserlo. Le donne sono viste ancora ( e
solo) come “contenitori del seme maschile”, e perciò devono
abbellire il “vaso”, e renderlo il più attraente possibile
per gli occhi maschili. Del “contenuto” nessuno si occupa e tutto
questo viene considerato tragicamente ‘” normale”, quindi
“giusto”.
“E’
sempre stato così e sempre sarà” dicevano le nostre nonne
alle nostre mamme e noi non abbiamo cambiato pensiero.
Le
donne, quindi, sono scelte solo in base alla bellezza del “ vaso”,
in altre parole, in base alla loro salute, elasticità delle membra e
alla larghezza del loro bacino. Le cavalle da monta vengono scelte, più
o meno, secondo gli stessi parametri: denti cariati in bocca e muscoli nei
garretti.
Le
donne non solo accettano questo pensiero, ma se ne fanno garanti, andando a
gonfiare i seni, a smagrire le cosce e a tagliarsi fette di pancia.
Il
pensiero crea la realtà e solo se riusciamo a modellare un pensiero
diverso da quello antico, potremo evolvere.
Per avere un Mondo Nuovo dobbiamo formulare pensieri Nuovi.
Nessuno
ancora lo fatto, né maschi né femmine.
I
ragazzi in discoteca, anche giovanissimi,
devono ricorrere a farmaci per “divertirsi”, a farmaci
“ per eccitarsi”, a farmaci per “fare l’amore”, a
farmaci per “dormire” e a farmaci per “svegliarsi”.
Non pensate che ci sia qualcosa che non va?
Possibile
che le donne stesse non abbiano ancora capito che il problema scaturisce da quell’unico
ancestrale Pensiero di Potere, condiviso da entrambi i sessi, che ci impedisce
di conoscere Eros, cioé Amore?
L'
ingiustizia primaria, che impedisce la parità tra gli esseri umani,
impedisce la guarigione del mondo.
Il
mondo é ammalato per mancanza d'Amore.
Dobbiamo
inventare un nuovo modo di amare per invertire la rotta.
Per chi volesse approfondire i
temi trattati in questo articolo: http://www.mirellasantamato.net
A POTENZA, UNO SPACCATO DI “REALIDAD”
di Paola
Saraceno
Posta sotto l’Alto
Patronato della Presidenza della Repubblica Italiana, la mostra
“Realidad. Arte spagnola della realtà”, curata da Laura
Gavioli, è visitabile a Potenza, presso
L’arte
spagnola della realtà è in mostra a Potenza fino al 14 gennaio
2007. Nella splendida
cornice di Palazzo Loffredo è ritornata la grande arte per accreditare
il capoluogo lucano come città-cultura. Una bella occasione per conoscere
ed apprezzare in maniera organica opere, artisti e filosofia ispiratrice di uno
dei filoni delle arti figurative contemporanee di maggiore rilevanza mondiale:
il realismo spagnolo.
Quello
che vedo, quello che sento, quello che sono …esattamente questo è
la realtà per Antonio Lopez Garcia, fondatore della Escuela realista
madrileña. Figura singolare e carismatica che ha approfondito
gli aspetti illusionistici dell'immagine per poter arrivare alla realtà
ultima delle cose.
Accesi i
riflettori su una generazione di artisti
maturata negli anni ’60 all'Accademia di San Fernando a Madrid,
dove proprio Antonio López García e un gruppo di suoi coetanei
come Francisco López, Isabel Quintanilla, Julio López
Hernández, Amalia Avia, Maria Moreno e Carmen Laffón, hanno
studiato ed, in alcuni casi, insegnato alle generazioni successive come
guardare la realtà, coniugando la lezione dei maestri spagnoli, dei
caravaggeschi, di Goya, con le istanze della modernità.
L’ossessione
per la luce, considerata strumento conoscitivo per eccellenza della
realtà, fa da comune denominatore alla produzione dei maggiori esponenti
del movimento, pur nella diversità dei soggetti prescelti.
Realidad.
L’arte Spagnola della Realtà è una magnificata esposizione
collettiva di oltre trenta artisti, curata da Laura Gavioli, già
richiesta in altre città italiane. Con più di cento opere tra
dipinti, sculture e disegni, provenienti da musei come il Prado e il Reina
Sofía, testimonia la stagione del
realismo spagnolo, capitolo tra i più rilevanti nel panorama dell'arte
mondiale del secondo novecento.
La
rassegna documenta, attraverso la straordinaria scelta delle opere che spaziano
dagli interni domestici alle nature morte, agli scorci cittadini, il processo
creativo delle diverse personalità che sono rappresentate nelle tre
sezioni della mostra: il gruppo storico dei realisti spagnoli, composto da
artisti nati negli anni trenta, il gruppo di artisti che rappresentano la
continuità del realismo e i grandi antecedenti.
Il
percorso espositivo guida il visitatore alla scoperta dei maestri del gruppo
storico, poi alla discendenza dalla lezione dei maestri, aggiornata ad
ulteriori suggestioni del reale, che toccano particolari atmosfere di
sospensione e visionarietà, con opere di Arguello, Mezquita, Muyor,
Mora, Quetglas, Rodirigo ed altri.
Infine, nella terza sezione della mostra, ad un parallelo con alcune
opere emblematiche dei protagonisti degli antecedenti storici del realismo
nell'arte spagnola, da Zurbaran a Ribera, da Goya a Sorolla e Zuloaga.
Un evento
culturale di grande portata, posto sotto l’Alto patronato della
Presidenza della Repubblica Italiana. In un momento storico nel quale il
Mediterraneo, forte delle proprie radici culturali e delle grandi
potenzialità geografiche ed ambientali, torna a proporsi come luogo
privilegiato per una reale prospettiva di coesione e sviluppo delle popolazioni
che si affacciano su di esso, “Realidad” è occasione per
guardare al Mare Nostrum e per un ricongiungimento culturale con una
civiltà, quella Spagnola, che molto ha segnato la storia del Mezzogiorno
d’Italia nei decenni pre-unitari del nostro Paese.
.
PARTONO ANCORA LE RONDINI !
di
Smorzato
l’eco della guerra, che a Mormanno si concluse con un polverone durato da
agosto a settembre del ’43 che scarnificò la vecchia strada
statale19 per il passaggio dell’armata tedesca in ritirata verso Salerno,
con una o due mitragliate scambiate tra aerei anglo americani e postazioni mobili sistemate sui pianori
della Carrosa, con un carro armato lasciato in piazza e la distruzione del
ponte di Minnarra, si cominciarono a curare le ferite.
Si
piansero i morti rimasti con le braccia in croce sui ghiacci della Russia, tra
le montagne di Grecia[19]
e di Albania, sugli assolati e aridi campi dell’Africa Orientale e della
Libia. Arrivavano intanto gli ex
prigionieri dei lager nazisti, quelli della guerra d’Abissinia che
Alexander aveva trascinato per i campi della Cirenaica e della Tripolitania o
mandato negli Usa, tutti i soldati
del servizio territoriale, la maggior parte richiamati impiegati come cuochi,
calzolai, addetti ai servizi di sussistenza. Qui ne ricordo qualcuno, anche
e solamente per mia memoria, dal
momento che la privacy mi impedisce
di riportarne il cognome. Sono: Armando, Antonio, Luigi, Peppino, Nicola,
Francesco
I
pochi superstiti, compresi tra gli ottanta e i novant’anni, si contano ormai
sulla punta delle dita. Aldo, Nicola, Pasquale, Francesco, Giuseppe.
Vediamo
la situazione mormannese dell’immediato dopoguerra dal punto di vista
economico,
Alcuni
commercianti avevano tratto profitto dagli avvenimenti. Il resto era
sopravvissuto o per via del lavoro agricolo sia quello in proprio che quello
fatto come manovalanza, o
perché piccoli artigiani, o perché segantini. Nel ceto medio
erano considerati benestanti i pochi impiegati comunali, gli insegnati
elementari, l’esattore del
dazio, i carabinieri della locale stazione, il pretore, i medici (allora senza convenzione), i sacerdoti.
Diffuso come un’epidemia apparve e prosperò anche il mercato nero.
Sulla Littorina viaggiavano, insieme
agli studenti che andavano a Castrovillari o a Lagonegro, anche venditori di
uova, salami, stoffe, scampoli, vestiti e scarpe dei soldati americani della
flotta ancorata a Napoli. Dove siamo, Zu
Nà, chiedevano al vecchio che guardava a vista un cestino pieno di
uova destinato alle pasticcerie castrovillaresi, dove siamo? Sul binario,
figlio, rispondeva.
I
reduci di guerra, arrivati con la sola pelle addosso, (ne ho visti molti in
pantaloncini e senza scarpe, fasciati i piedi da stracci tenuti con ginestra)
si trovarono tra le mani la delusione per la fine ingloriosa
dell’avventura bellica e difficile fu il
rimettere
in moto altri entusiasmi e speranze. Pur facendo a gomitate lo spazio era
ristretto. Quel poco di professionalità era andata a farsi benedire e
una realtà non incoraggiante era lì davanti con tutta la sua
crudezza. Si dovette riconsiderare che una avventura migratoria era ancora una
soluzione
Dall’America
ricca, gli USA, insieme ai pacchi di vestiario arrivava qualche dollaro il cui valore oscurava
quello delle AM LIRE ancora in uso, e, soprattutto qualche lettera di richiamo[20].
Avveniva
pure una fitta corrispondenza tra amici e parenti dell’Argentina e del
Brasile. Come ve la passate? Possiamo venire? Qualche volta le lettere dovevano
essere lette, come quelle di mezzo secolo prima, dalla comare o dal compare
letterato. Che dice? Qui ce la siamo vista nera durante la guerra. Noi, figli
degli emigrati degli anni 20 e 30 abbiamo faticato moltissimo. Mio padre faceva
il lattaio a domicilio, il mio il guardiano delle tranvie, il mio il fruttivendolo,
il mio era carceriere nella Terra del Fuoco, il mio cuciva pantaloni. A Buenos
Aires molti di noi furono impiegati
nelle tramvie e nelle ferrovie dal signor Giuseppe Galtieri già da tempo
in Argentina ove aveva aperto un negozio divenuto poi ditta che confezionava
uniformi di tranviere e ferroviere. Io me la passo ancora male, scriveva
qualcuno e si può morire senza mai
rivederci, eppure viviamo nello stesso mondo. Se volete venire, scriveva un
altro, qualcosa si trova da fare. Importante fu questo appoggio fornito dalla
rete di relazioni con i compaesani.
Si
vendettero con prezzi da strozzino la case, la vigna e l’asino e si
prepararono i bauli pieni di stracci e soprattutto di pianti e ricordi. Napoli
si raggiungeva in treno da Lagonegro ove si arrivava con
In
quegli anni vi fu anche un rientro,
se pur di pochi. Erano gli americani
partiti ai primi del secolo o al massimo negli anni tra il 1910 e il 1914. Essi
avevano lavorato con onore e costanza. Gratificati da una pensione in dollari
avevano messo in atto quel desiderio nutrito per anni di volersi rifare la
casa. Qualcuno per potervi accedere sistemò anche la strada adiacente.
Su un angolo di via Santa Caterina ancora oggi in una targa si legge: strada
riparata dal signor Per……...
Qualche altro, come Zio John, si
dedicò ad organizzare e finanziare quasi interamente alcune feste
religiose. Erano personaggi simpatici. Raccontavano come affabulatori la loro
vita di cui ricordavano episodi salienti ed esperienze. Avevano, soprattutto le
prime volte che apparvero in pubblico, un indice di ascolto, come oggi si dice,
elevato. Le loro imprese si diffusero
nel paese che ne caldeggiò la presenza e assicurò quel clima di
benevolenza che li gratificava e sosteneva nei loro ultimi anni di vita.
Le
rondini partono ancora.
La
famiglia Galtieri. Minuccia, Francesco, Pietro e Maria, vengono a sapere di
Leopoldo Fortunato. Ma arrivati a Buenos Aires lo trovano impegnato a
costruirsi la carriera che porterà un mormannese a diventare Presidente
della Repubblica Argentina.
Pietro
si compra un collettivo (un autobus)
che manda su e giù per le strade. Francesco, che non conosceva una
parola di spagnolo e credeva che il vino
tinto de mesa fosse preparato
con colori, divenne vigilantes. E pensare che era uno degli apprezzati
segantini di Mormanno. Qui ritornò con la moglie e con dignità e
sacrificio divenne spazzino come
allora si diceva.
Biagio
arriva e compra un barco che va su e
giù per le limacciose acque del Rio de
Si
salvano quelli che hanno approdato negli Usa, che si sono ritrovati alle spalle
una famiglia già affermata.
(Continua)
CAMMINO DI SANTIAGO
2A
TAPPA DEL PERCORSO FINALE
di Antonio Penzo
Come
previsto, la mattina del secondo giorno, alle ore sette, siamo già
pronti per ripartire. La colazione la facciamo nella sala ristorante, dove
l’albergatore, prima di chiudere ha posto tre termos con latte caldo,
caffé e the e qualche fetta di dolce, il tutto come prima colazione. In
Spagna prima delle nove non si trovano aperti i bar e solo lungo il Cammino si
riesce a trovare qualcosa che apre prima, stante la frequentazione dei
pellegrini. La notte si è dormito nonostante la lunghezza dei letti che
lasciavano fuori la parte terminale delle gambe ed i piedi. Ma la stanchezza
aveva avuto il sopravvento sulle comodità.
Il
tempo è nuvolo ed indossiamo la giacchettina per tenerci caldi. Uno di
noi ha le racchette del camminatore e oggi vuole effettuare il percorso a passo
cadenzato e quindi rimarrà indietro per poi raggiungerci più
avanti quando noi saremo stanchi.
I
primi chilometri si svolgono sull’asfalto e camminiamo di buona lena.
Dopo circa un’ora veniamo raggiunti dalla perugina, che ci racconta che
il marito ha già avuto a che dire con il barista dell’unico bar
aperto, nei pressi dell’albergo dei pellegrini, il quale non gli vendeva
il pane intero, ma solo tagliato, essendo queste le prescrizioni commerciali
del luogo. Ora dovrebbe essere davanti a noi. Il tempo è migliorato ed i
raggi del sole iniziano a scaldare l’aria e noi a toglierci la
giacchetta, per non sudare. Si incontrano alcune persone, già viste il
giorno prima, e si scambiano pareri. C’è chi fotografa il paesaggio
e alcune edifici caratteristici, a ricordo del viaggio.
Lungo
il percorso, in alcuni bar che aprono solo in questo periodo estivo, ci
dissetiamo e mangiamo la frutta comperata la sera prima. Il sole si fa caldo e
il percorso è più duro. Non facciamo il pranzo, rinviandolo
all’arrivo. I chilometri da farsi sono ancora molti e non si vede
Quando
arriviamo alla meta, dall’albergatore ci viene detto che la prenotazione
effettuata la sera prima telefonicamente non è stata accettata. Nel concitato
conciliabolo, pronunciato in lingue diverse, ci si riesce a capirsi e alla fine
strappiamo tre stanze matrimoniali ma non a letti separati, come richiesto.
Però hanno il bagno e così chiudiamo la seconda tappa dopo avere
apposto il “sello” sulla credenziale, effettuata la doccia e
riposati sul letto.
La
sera ci rechiamo a cenare in una pulperia locale: il polpo gallego è un
piatto caratteristico locale. Si fa la fila all’ingresso per il piatto di
polpo gallego, che viene estratto da un pentolone di rame dove viene bollito,
assieme ad altri, per quindici minuti; poi viene tagliato con le forbici e
posto su piatti di legno, irrorato con olio e polvere piccante. Non esistono
tavoli, ma tavoloni da dodici posti con panche. Il piatto viene pagato subito,
all’ingresso, poi si prende posto nei posti liberi lungo i tavoloni,
assieme agli altri commensali. Nel prezzo è compresa una brocca di vino
e del pane. I bicchieri sono delle tazze di terracotta. Per altre portate,
patate lesse ed insalata o chi vuole salumi, ci si deve rivolgere al banco; per
mangiare il polpo occorre usare uno stuzzicadente grosso romboidale, non
c’è forchetta. L’atmosfera è molto simpatica e
gioiosa, ne siamo coinvolti e scambiamo notizie ed informazioni con i locali ed
altri pellegrini. Terminata la cena acquistiamo la frutta e l’acqua per
il giorno dopo e rientriamo a dormire. I più alti devono sincronizzare i
movimenti nel letto matrimoniale per non sovrapporsi.
W L’ARADIO
di Ferdinando Paternostro
La
prima emittente privata mormannese
che ricordo (siamo all’inizio degli anni ’80) si chiamava Radio Ph 7 Centrale, trasmetteva da un
magazzino senza finestre, insonorizzato riciclando polistirolo e scatole di
uova. La console era fatta da due sgangherati
registratori che, con un semplice interruttore, alternavano la riproduzione di
altrettanto improbabili ed artigianali bobine.
Si trasmetteva miracolosamente grazie a valvole e
transistor messe su da Piero Sciarra, nostrano Marconi con l’elettronica
nel DNA, che quotidianamente
tarava, regolava, amplificava.
Avevamo
14, 15, 16 anni: la nostra musica
si sentiva nelle case di quasi tutto il paese… chi non si sintonizzava
era “out” !
Alessio
Fasanella , alias Fox in the night,
fu invece la prima voce “cult”, un vero DJ, il primo carismatico
comunicatore. Trasmetteva la sua sterminata collezione di vinile dal riadattato
stereo di casa, ove la malattia, che ce l’ ha tolto, lo costringeva.
Gli amici andavano a fargli compagnia
e si ritrovavano catapultati dal suo salotto nelle onde dell’etere
di Radio Centro Città.
Venne
poi Tele Radio Faro, che nasceva
come strumento di aggregazione
attorno alla sezione giovanile della Democrazia Cristiana.
Il progetto era ambizioso: grazie all’iniziativa del compianto Fedele
Alberti furono arredati gli studi e
Vi
ricordate di Antonello Belloni,
Ezio Centi, Mc Losa,
Federico Renzetti ?
Negli studi c’era sempre movimento, di giorno e di notte. Qualcuno,
particolarmente entusiasta, incise sulla spalliera di una sedia “W
l’aradio”, che divenne il nostro tormentone.
Ovviamente
scattò subito la rivalità con quelli di Radio Centro
Città, con i quali dividevamo l’audience locale, e con un’altra emittente attiva nella stessa vallata, Radio
Castelluccio, con la quale finimmo per gemellarci.
La
febbre della radio cresceva: gli aspiranti speaker e DJ si moltiplicavano: da
un’altra “casa[21]”
del paese iniziò a farsi sentire Radio
Genesi, (Francesco G. , Domenico S. , Luigi P., Nicola A., il Màgj
).
Aveva
una ottima programmazione musicale ma il difetto non trascurabile di un trasmettitore sui generis che
continuamente variava la lunghezza d’onda in emissione. Nacque
così il mito della
“radio pirata” che faceva incursione su tutte le altre frequenze, la prima radio
“interattiva” che
evitava all’ascoltatore la fatica di sintonizzarsi …
“Accendete l’apparecchio – diceva lo speaker – prima o
poi passiamo !”
Tra
la fine degli anni ottanta e primi anni novanta queste voci si spensero, ma non
venne meno in tanti la voglia di
comunicare con le parole e le canzoni: nacque Radio Aloha, che aveva come pregio (e limite) quello essere, tra
Calabria e Basilicata, l’emittente di riferimento dei Pooh.
Piero
S., Peppe S., Pino P., Luca V.,
Aldo B., Emilia P., Goffredo B, Antonio R., Rocco D. ne furono gli animatori.
Anche
oggi gli adolescenti mormannesi, come i loro coetanei di ogni altra parte del
mondo, hanno l’esigenza di sentirsi
parte di un gruppo, di condividere sentimenti e vissuto, di confrontarsi per crescere.
Le
loro voci non si ascoltano nell’etere, come un tempo le nostre, ma i loro pensieri, le loro ansie, le
sconfitte ed i successi sono on line,
negli spazi virtuali sul web.
·
http://mormannorinasce.blog.tiscali.it/
·
http://princetongirl91.spaces.live.com/
·
http://zaccrashpincopallino1989.spaces.live.com/
·
http://pinturicchiofabri01.spaces.live.com/
·
http://meco90.spaces.live.com/
·
http://subwoofer92.spaces.live.com/
·
http://freddy1988italy.spaces.live.com/
·
http://claudialove87.spaces.live.com/
·
http://marianunziasola1987italy.spaces.live.com/
Quando
l’altra sera, per caso, li ho
“scoperti” su internet ho capito, con gioia, che tra una
generazione e l’altra il testimone era stato passato.
PRIMA DI COMPRARLE
FORSE….DOVREMO PESARLE !
di Stefano Ferriani
Tanto
per cambiare anche questa nuova finanziaria prevede tagli e sanzioni in materia
automobilistica.
A
titolo puramente informativo comunichiamo che il maggiore gettito che ne
deriverà
(dalla
finanziaria) sarà dovuto proprio alle modifiche e alle sanzioni previste
in questo
settore,
da sempre il più tartassato (mi si conceda l’analogia) in termine
di tassazioni.
Pare
(uso il condizionale perché alla data odierna non è ancora certo)
che tra le altre, esista la possibilità che i possessori di SUV (fuoristrada)
debbano pagare una sovrattassa,in funzione (udite,udite) del peso!
Se
cosi fosse da oggi sarebbe necessario procedere prima dell’acquisto
all’operazione di pesaggio onde determinare l’importo della
sovrattassa.
Inutile
ribadire che si tratta della ennesima sciocchezza partorita da cervelli che
saranno forse
eccellenti per pratiche economiche e umanitarie ma in materia
automobilistica dimostrano di
essere completamente a digiuno!
La
ragione per la quale verrebbero tassati i SUV sarebbe quella secondo la quale
questi mezzi risulterebbero fortemente inquinanti ed eccessivi nel consumo di
carburante.
Riteniamo
doverose e opportune a questo punto alcune precisazioni tecniche chiarificatrici precisando che comunque
non serviranno per cambiare lo stato di fatto delle cose.
I
SUV sono quasi tutti motorizzati con propulsori utilizzati anche sulle
autovetture, pertanto la percentuale emessa di CO2 (g/km) è
circa la stessa,la minima differenza di emissione allo scarico può essere
determinata dal maggiore peso dei SUV (mediamente il 20% rispetto
una
normale berlina della medesima cilindrata) e dalla maggiore resistenza che
oppongono all’aria (coefficiente aerodinamico).
Per
fare un esempio pratico prendiamo in esame uno dei SUV più venduti in
Italia:
Entrambe
montano un propulsore 6 cilindri in
linea di 2993 cc 218 cv per il SUV, 231 per la berlina,2105 kg di peso per il
SUV, 1595 per la berlina, 250 g/km di CO2 l’emissione del SUV,
180 g/km per la berlina, circa
Questi
i numeri,le differenze ci sono ma limitate a tal punto a nostro parere da non
giustificare una sovrattassa.
Probabilmente
si è voluto colpire un prodotto che secondo noi ha come principale
difetto quello di essere considerato un simbol
e di venire utilizzato di conseguenza più per virtù che per
necessità.
Giudicate
Voi!
MARRAMALDO O MARRAMALDI
di Francesco Regina
Nel
turbolento scenario della dominazione spagnola in Italia, la famiglia
Marramaldi conobbe in Mormanno il suo momento di massimo splendore: era
annoverata tra le magnatizie e godeva
dei privilegi riservati solo a chi viveva more
nobilium[22].
Il
cognome Marramaldo[23]
è principalmente associato ad un famoso uomo d’armi o Capitano di Ventura, che prese parte al
sacco Roma (1527) ed uccise il fiorentino Francesco Ferrucci il 3 agosto 1530
nella battaglia di Gavinana[24]:
ci riferiamo a Fabrizio Marramaldo.
Diversi
autori si sono attardati nel narrare le sue gesta, ma resta irrisolto
l’arcano riguardo il paese che gli avrebbe dato i natali.
Il
Guerrazzi ( vit. di Ferruccio T. II, pg. 213), smentendo a sua volta Jeno
de’ Coronei che voleva il nostro nativo di Tortora, afferma che Fabrizio
Marramaldo nacque in Calabria il 28 ottobre 1494[25]
e non ebbe eredi maschi dalla moglie Porzia Cantelmo, bensì due figlie,
“non avendo lasciato –
scrive il Summonte (I, 185) di lui altro
che un figlio naturale, in cui la famiglia Maramalda si spense[26]”
Alla
luce di quanto trovasi nel nostro archivio parrocchiale, benché
impossibilitati a fornire una dimostrazione rigorosa della nascita del Marramaldo a
Mormanno, sentiamo tuttavia di non condividere affatto le affermazioni sopra
riportate.
Dopo
i primi nominativi riguardanti un tale Pompeo Marramaldo nato nel 1535 ed i
germani Ettore, Ferdinando e Fabrizio figli del nobile
Marcantonio,
ecco comparire nell’anno 1591 un
figlio del magnifico Fabrizio Marramaldo e della magnifica Clarice de Rinaldi
nomato Lelio.[27]
Dal
medesimo ebbe luogo una prolifica discendenza che si estinse nello scorso
secolo nella persona del Signor Francesco Marramaldi
( *12.11.1819 + 16.01.1901), il quale si spense nell’ultima dimora
rimasta alla ricaduta famiglia, sita nella strada
Sant’Onorato[28].
Non
è pertanto da escludere, anzi da avvalorare pienamente, l’ipotesi
secondo cui la discendenza in linea retta e collaterale si sia snodata come di
seguito riportato; la qual cosa ove dimostrata demolirebbe dalle fondamenta
ogni teoria discostante a riguardo convalidando così l’avvenuta
nascita del Marramaldo nel nostro paese.
Genealogia presunta
Fabrizio senior * 28.10.1494
Fabrizio senior
Lelio * 06.04.1591
Il
grado di probabilità da conferire alla suddetta genealogia è a nostro
avviso altissimo: visto che si tratta di attribuire soltanto lo stipite cui
agganciare la ramificazione della famiglia di Marcantonio, sulla quale abbiamo
assoluta certezza in tutto e per tutto, sulla scorta di osservazioni e
correlazioni topiche più volte comprovate circa i nomi dati ai
primogeniti nelle seguenti generazioni, possiamo senza tema di sbagliare
riconoscere in Fabrizio Marramaldo la persona da cui ebbe origine il ramo
mormannese.
Del febbraio 1616 è una
ricevuta di ducati duecento fatta dall’allora Barone della Giurisdizione
Criminale locale, D. Luca Antonio Rende, a favore del citato Lelio Marramaldi
per la transazione della sua inquisizione per un omicidio commesso, pagati dal
Magnifico Fabrizio Marramaldi suo padre (… omissis)[29]
Benché
in una epigrafe[30]
collocata nella parete sinistra della Cappella di San Nicola si faccia menzione
di tre benemeriti gentiluomini seicenteschi appartenenti alla famiglia
Giliberti[31]
quali fautori dell’edificazione della medesima e del contiguo palazzo,
è certo come nel ‘700 la famiglia del Signor Nicola Marramaldi risiedesse
nella strada di Santo Nicola e fosse
giuspatrona dell’anzidetta cappella, nel cui soccorpo trovavasi la loro
sepoltura gentilizia.[32]
Ricordiamo
infine, tra i vari sacerdoti benemeriti che si sono avvicendati in famiglia, il
Reverendo Arciprete D. Pietro Felice
Marramaldi senior, Dottore di
Sacra Teologia e Protonotario Apostolico passato da questa vita nell’anno
1761.
LA RIBOLLITA
di
Dopo
la bistecca alla fiorentina la ribollita è forse il piatto più
noto della cucina toscana.
E’
una tipica pietanza da “slow food”, che dopo una lunga e paziente preparazione va
assaporata con calma, magari con
tanti amici, centellinando un Chianti Gallo Nero d’annata.
Nasce
nella civiltà contadina toscana
come piatto “di riciclo” delle verdure cotte nei giorni
precedenti, che venivano “ribollite” (da qui il nome) , ottenendo con l’aggiunta di pochi e
“poveri” ingredienti un
piatto davvero saporito e gustoso, oggi ricercatissimo.
La
ribollita si ottiene dunque da una minestra di verdure, fatte stufare a lungo
in un soffritto di cipolla e aglio, con aggiunta di olio extravergine di oliva.
Per dare sapore c’è chi aggiunge cotenna di prosciutto o osso spolpato.
Secondo i puristi è indispensabile il timo, conosciuto in Toscana con il nome
di pepolino.
Una
volta terminata la cottura entra in
scena un altro ingrediente “di recupero”: il pane raffermo (meglio
toscano non salato, ovviamente), tagliato a fette sottili. Poi parte la seconda bollitura, a fuoco
dolce, fino a che la minestra non si trasforma in una crema morbida ed
omogenea.
Nel
piatto la ribollita
“muore” con le
cipolline fresche tagliate sottili, un filo di olio a crudo e il pepe
nero macinato al momento.
Qual
è la vera ricetta della ribollita ? Parlando di piatti popolari
è davvero difficile
districarsi tra le mille versioni “familiari” e le altrettante
numerose varianti da ristorante.
Di
certo la differenza con le altre minestre di verdure la fa il cavolo nero, che non deve mai
mancare: ecco la mia versione, per 4 porzioni:
·
·
·
·
·
·
·
·
·
·
1/2 porro
·
1/2 cipolla
·
·
sale e pepe
Si
taglia a rondelle la cipolla, il porro,
il sedano,
Poi si puliscono e si tagliano il
cavolo nero, il cavolo verza e le bietole.
Si
fa imbiondire la cipolla con 2
cucchiai di olio a fuoco moderato e, appena scolati, si uniscono i fagioli.
Infine si aggiungono, mescolandole ogni tanto, le altre verdure, si lascia appena
appassire il tutto e si fa proseguire la cottura con l’acqua dei fagioli,
già salata e pepata, che accortamente non abbiamo gettato.
Dopo
due ore di cottura a fuoco moderato la ribollita è pronta per essere
servita, appoggiata su fette di pane tostato e sapientemente insaporita con
olio extravergine di oliva toscano.
Gli
ingredienti e le calorie (230 – 250 per porzione) ne fanno una pietanza perfetta per una
sana alimentazione mediterranea.
IL DOCUMENTARIO
CINEMATOGRAFICO
di Carla Rinaldi
Da qualche anno, anche in Italia, ha preso piede e fruibilità larga, il documentario cinematografico. Dopo la svolta della vittoria di “Bowling a Columbine” di Michael Moore, con l’Oscar e la palma d’oro a Cannes nel 2004 di “Fahrenheit 9/11”, il documentario è diventato finalmente a largo consumo svestendosi dell’errato concetto di noia e peculiarità per gli addetti ai lavori. Infatti, capita sempre più spesso, di assistere a numerose proiezioni all’interno di festival, proprie dei documentari con intere sezioni dedicate ad essi.
E’ anche vero che la poca
disponibilità economica del cinema, soprattutto europeo, a far
lungometraggi, ha sviluppato in una folta scia di cineasti la
possibilità ad aprirsi a nuovi orizzonti, presi direttamente dai
reportage, tipici di una certa buna televisione che si faceva una ventina di
anni fa. Lo stampo del documentario
cambia di Paese in Paese, in America ad esempio, essendo l’industria del
cinema ricca, florida e seria, anche per un documentario si impiegano spesso le
stesse ingenti attrezzature che si adoperano per i film, con la differenza che
sullo schermo fanno apparire una finta trascuratezza, tipica delle storie vere,
rubate da una cinepresa. In questo sono imbattibili.
In Europa invece i pochi mezzi a
disposizione, hanno costretto la visuale delle cose da un’altra
angolazione, più dimessa, più nascosta, più metaforica.
Ecco perchè Bergman resterà sempre svedese e Spielberg sempre
americano. Nei documentari europei si racconta molto, si mostrano poco e le
immagini di repertorio, perchè esose; gli americani, invece ne fanno un
largo uso. Ma questo non vuol dire che uno sia migliore e l’altro meno
interessante, anzi, la visione variegata di concetti universali, permette di
aprire la mente e decidere, o sospendere il giudizio, di preferire, scegliere,
giudicare e schierarsi. Un documentario infatti, molto raramente non innesca il
sentimento di schieramento, si diventa partigiani immediatamente perché
le storie nelle maggior parte dei casi sono caustiche, tragiche, difficili,
spietate, terrificanti. Nell’odierno documentario si può
riscontrare un nuovo concetto di western dove in maniera netta c’era il
buono il brutto e il cattivo. Spesso il buono è il popolo, il cattivo
è la politica e i suoi affini e il brutto è proprio
Ma lo scopo del documentarista
è quello di svegliare le coscienze, è un reporter televisivo con
più tecnica e più tempo a disposizione così da poeter
permettersi di mostrare tutto quello che magari in tv spesso non si riesce e non
si vuole far vedere.
Consiglio a chi si volesse accostare
all’universo documentario di iniziare con “Tarnation” di
Johnatan Couette e l’italiano
“In
un altro paese” di Marco Turco. Due generi diversi, il primo psichedelia
reale della vita filmata costanrtemente da vent’anni di un ragazzo
americano e il secondo le vicende post Borsellino e Falcone di un ‘Italia
che fatica a riprendersi dallo schifo che la copre.
di Raffaella Santulli
Vista dal basso,
L'esposizione si insinua anche in alcune
vie laterali, una scelta praticamente infinita di merce di ogni tipo e quasi di
ogni epoca.
L'atmosfera è magica, i banchi degli
antiquari riempiono le strade e gli occhi, quasi che il visitatore ha
l'impressione che il mercato non abbia limiti.
Ma, quell'insolito pomeriggio
novembrino,indolente e brumoso, aveva contagiato un po’ tutto: gli espositori, i visitatori,
persino i banchi, apparivano più sgangherati e cupi.
D'improvviso, un momentaneo black-out
impose l'immediata sospensione della manifestazione e, mentre il cielo
diventava sempre più plumbeo ed inquietante, ecco una fioca luce che
segnala un ombrellone da spiaggia poco distante da me.
Incurante del tempaccio ed incuriosita
più che mai, mi dirigo in quella direzione, e .....l'emozione mi
paralizza.
Mai visto tante scatole cosi preziose! Un
panorama straordinario di forme, materiale, e decorazioni; realizzate in
argento, smalti policromi, oro, brillanti, giada, avorio, tartaruga, cera,
lapislazzulo.
Scatoline per cosmetici, per sali, per
pillole, per monete; portanei e custodie per occhiali o per carnet da ballo.
Tanti piccoli bagagli custodi di segreti
d'amore, di pegni, di lettere, di ricordi..., necessari per ben comparire in
società.
Scatole belle come dee, testimoni di
comportamenti, strumenti capaci di far apparire vicinissima una realtà
che, pur riguardando un altro tempo è straordinariamente simile alla
nostra. E scoprire che, situazioni
ed espressioni del costume si manifestano attraverso forme e gesti comuni ad
altre epoche, a volte genera la sensazione di ritrovare una parte di sé in una realtà diversa, lontana,
come un magico accordo.
Suppellettile
per eccellenza, forse in assoluto la prima, se si considera la sua presenza
costante nel tempo ed il suo ruolo significativo nel mito e nella fiaba.
UNA GIORNATA
PARTICOLARE:
di Nicola
Perrelli
I terreni di Mormanno non sono di sicuro
i“terroir” dell’Aquitania, quei fertili terreni
situati a sud-ovest della Francia che generano la materia
prima per i vini più famosi del mondo, però vengono coltivati con
la stessa dedizione e amorevolezza.
I murmannoli per
la vigna hanno un attaccamento particolare. E’ un bene importante, quasi
mai in vendita, un patrimonio che si lascia ai figli con la raccomandazione di
custodirlo come un tesoro di incommensurabile valore. Per quanto
l’attuale indifferenza dei giovani per la terra lasci al riguardo non
poche perplessità; ma si sa la storia si ripete: domani ognuno di loro
probabilmente diventerà un appassionato lavoratore nella vigna di
famiglia.
Il legame con la vigna bisogna immaginarlo con la fame, i
desideri, il
piacere degli uomini del passato, ma soprattutto con il suo
prodotto: il
vino. Da sempre simbolo del lavoro più faticoso e
della sapienza
dell’uomo. Ma non solo. Il vino, come il cibo, una
volta non era
disponibile sulla tavola di tutti i giorni. Per i ceti
popolari ,nonostante la
sua antichissima presenza, era una bevanda non sempre
accessibile, a volte un lusso. L’uso quotidiano riguardava soltanto la
classe agiata: contadini e artigiani lo consumavano, magari in eccesso e spesso
di pessima qualità, nei giorni di festa, o all’osteria soltanto
gli uomini.
Avere la vigna diventa cosi una necessità, quasi un
bisogno primario.
Possederla vuol dire avere più certezze, poter
attenuare le diversità più vistose, quelle per intenderci legate
alle classi sociali, e affrancarsi per certi versi dalla povertà e non
solo da quella economica. Significa poter produrre in proprio il vino. L’
alimento che la cultura contadina ha sempre ritenuto indispensabile per
affrontare la fatica, conveniente per favorire le relazioni tra gli uomini e
straordinario per sfogare conflitti e tensioni. Che il folclore e la memoria
popolare hanno idealizzato celebrando le gesta dei grandi beoni, le bravate di
quei personaggi che sono rimasti nell’immaginario per le abbondanti
mangiate e le copiose bevute. Realtà o fantasie di chi aveva poco da
mangiare e poco da bere ?
Fatto sta che a Mormanno solo poche famiglie non hanno la
vigna.
Rientra cosi a pieno titolo nel panorama delle ricorrenze
importanti del paese la vendemmia: la festosa giornata dedicata alla raccolta
dell’uva.
Dopo il lungo e duro lavoro di potatura, eseguito
nell’inverno dell’anno prima, la successiva legatura fatta, per una
questione di stile, esclusivamente con i salici, le varie ramature e tutti gli
altri lavori , è arrivato il momento della verità: si spera nella
buona annata. Il premio di tutto un anno di amorose cure.
Da fine settembre a metà ottobre ogni giorno
è buono per vendemmiare. Da noi quello giusto, vale a dire quando si presume
che l’uva abbia raggiunto la maturazione ideale, lo decide però la
piazza, dove non si parla d’altro, e
non il campo. E allora, tutti a vendemmiare nella stessa domenica, anche
se piove a dirotto.
Nel week-end prestabilito i quattro
“dipartimenti” vinicoli di Mormanno
(Carrosa, Procitta, Donnabianca e Colle di
Ferruccio),ammantati dalle
calde tonalità dei colori dell’autunno,
vengono presi d’assalto da vignaioli di tutte l’ età e
forze. Giardiniere, Fiat 500, motocarri Ape e anche qualche Fiat Punto metallizzata,
carichi degli attrezzi preparati il giorno prima raggiungono, ai primi raggi
del sole, i vigneti. Ci si divide compiti e funzioni e via al lavoro .
La vendemmia è una giornata particolare che fa
dimenticare per qualche ora i problemi e lo stress. Il profumo dei grappoli
appena raccolti ubriaca e il sapore degli acini maturi addolcisce palato e
animo. Il dorato dei chicchi di malvasia e di moscatello d’Amburgo e il
regale rosso scuro dell’uva quagghiana deliziano
la vista. Mentre le chiacchierate, i canti e la colazione di metà
mattinata a base di baccalà fritto con peperoni (alla
castruviddrara) e vino dell’annata precedente,
gustata tra i profumi della vigna e i brindisi al vino che sarà, rendono
l’atmosfera ancora più allegra e gioiosa.
Tra un assaggino e un bicchiere, intanto il mosto finisce
nei tini di
fermentazione. E cominciano i problemi. Il
“sapere” per fare il vino non è mai abbastanza. Occorrono
scienza e coscienza. La prima per controllare con tecniche appropriate i
complessi fenomeni chimici che avvengono durante la maturazione del vino, la
seconda per dire “no” all’ostinazione, tipica della gente del
Sud, che impedisce di coniugare le antiche esperienze con più innovativi
metodi di vinificazione.
C’è ancora una profonda verità di cui
non tutti sono convinti: il vino non è un prodotto di natura. Fortuna e
destino c’entrano poco. La natura non fa il vino, la natura fa
l’aceto. O quel vinello, tipico di Mormanno, che puoi bere solo se t’
appundiddrano a’ nu muro (tradotto: ti costringono con la forza
e senza alcuna possibilità di fuga).
Ma oggi è il giorno della vendemmia e si pensa solo
all’uva, è lei la vera grande protagonista. La troviamo
dappertutto, nei cesti, nelle cassette stracolme , nei bagagliai delle auto, in
ogni angolo del casolare. In bella mostra nei vassoi sui tavoli pronta per
essere piluccata da ogni passante che gustandosela esclama ad alta voce, per il
piacere e la soddisfazione del padrone di casa: “quest’anno
è veramente buona”.
La giornata si conclude per tutti, protagonisti e
comprimari , davanti ad
una tavola imbandita dei più buoni prodotti della
campagna: salsicce,
soppressate, funghi sott’olio, formaggio pecorino , noci e castagne. E
tanto vino.
Con l’augurio che il vino del prossimo anno non
faccia rimpiangere quello dell’annata precedente.
Ma questo si vedrà l’otto
dicembre, a perciavutti. FARONOTIZIE.IT
ZONA FRANCO- BOLLO
Lo sport “più bello” del mondo….
di Francesco
Aronne
La constatazione di quanto accade nel muto orto
solingo rende disinvolto il richiamo alla memoria di frasi in qualche modo
retoriche, più volte sentite, luoghi comuni che possono irritare, ma cui
va ascritto il merito di esprimere in modo efficace un concetto adatto alla
circostanza. Tra le frasi intramontabili, sentita molto anche di questi tempi
è “La madre degli imbecilli è sempre incinta!”
ed il caso di aggiungere che “ogni occasione è buona per
partorire!”.
L’impraticabilità del campo di calcio
di un paese vicino, la richiesta (giustamente e civilmente accolta dagli
amministratori comunali) di poter usare il nostrano rettangolo di gioco e la
sorpresa mattutina sono gli ingredienti di quest’emissione commemorativa
di basso valore.
Prima della partita la squadra ospite (che
nell’occasione ospitava a sua volta un’altra squadra e che pertanto
ai fini calcistici, ma solo a quelli, era da considerarsi “in casa”)
ha trovato il campo ignobilmente devastato dal transito d’orde
barbariche.
Scritte e dediche apposte da ignote mani che ben
esprimono stile, livello d’istruzione, passioni e propensioni dei rozzi
autori. Si aggiungano reti tagliate, pali dipinti di nero, porte divelte ed
altre assortite azioni vandaliche. Agli occhi degli allibiti ed esterrefatti
calciatori sopragiunti per disputare l’incontro è apparso
più che un campo di gioco, ciò che restava di un accampamento di
zingari frettolosamente abbandonato.
Non è questo l’ambiente per indagini
sociologiche improvvisate ruotanti intorno al mondo del calcio e delle
incomprensibili frustrazioni che determina, né è nostra
intenzione di avventurarci in materie a noi oscure, ma la domanda sorge
spontanea: “Può un corpore considerarsi sano se
ottenebrato da insana demenza?”
Va rilevata l’encomiabile azione di singoli,
che si sono prodigati con i calciatori e quanti sono sopraggiunti consentendo
una sostanziale bonifica delle devastazioni ed il regolare svolgimento
dell’incontro di calcio. Questi volenterosi giovani del posto hanno
inviato anche una lettera di scuse alla società calcistica ospitata con
il generoso intento di riscattare una comunità intera dai deprecabili
effetti delle sconsiderate azioni di un manipolo di triviali sfaccendati e
perditempo.
Rimane l’indice su un altro gesto
irresponsabile di sconosciuti e la amorfa e quasi totale indifferenza di fronte
all’avanzata della barbarie, con un genuino rimpianto per la scomparsa
dell’oratorio i cui danni al cospetto di questi erano prevedibili e
veniali. Viene spontaneo dire: “Forza dello sport e dei valori di cui
si fa portavoce. VIVA L’ITALIA CAMPIONE DEL MONDO!”
[1] Dalla Commemorazione di Niccolò Perrone letta all’Accademia Pontaniana il 9 giugno 1889 dal socio Modestino del Gaizo, di cui di seguito sono riportati altri brani
[2] Tutti gli uomini di cultura appartenenti secondo Re Ferdinando II di Borbone alla setta della Grande Società dell’Unità d’Italia vennero iniquamente processati. Furono incarcerati Luigi Settembrini, suo amico, Silvio Spaventa, Filippo Agresti, Carlo Poerio, Pisanelli ed altri condannati in provincia o del tutto esiliati.
[3]
Professore nell’Università di Torino. Fu anche deputato e senatore
del Regno d’Italia. Scrisse: Historia critica litterarum latinarum; Fasti rerrum gestarum a rege Carolo Alberto;
Vocabolario italiano-laino e
latino-Italiano
[4] Cultore di studi classici, specie latini. Già sacerdote, abbandonò l’abito talare per seguire la sua vocazione di storico e filologo. Ebbe un ruolo importante negli avvenimenti 1848 toscano. Fu poi direttore della Magliabechi di Firenze e docente di letteratura latina. Dal 1865 fu senatore del Regno d’Italia.
[5] Marito della contessa Clara famosissima per il suo salotto frequentato dai migliori ingegni che vivevano a Milano (Manzoni, Grossi, Prati, D’Azeglio, Cattaneo, Verdi, Hayez, Balzac, Liszt) .
[6] I rosei petti erano quelli
dei giovani patrizi o liberi romani. Essi portavano infatti appeso al collo una
specie di piccolo globo, detto appunto bulla,
che levavano al compimento del 18° anno per indossare al suo posto la toga praetexta
[7] Datami cioè dal Palazzo, dal Potere
[8] Mia traduzione
[9] Antichi e primitivi abitatori della Tracia
[10] Paragona i suoi scritti a figli dispersi di cui piange l’allontanamento dal padre
[11]
Francesco Minervini da Mormanno . Fu anche socio della Società
Filomatica Mormannese. Vedi il mio Uomini
tradizioni vita e costumi di Mormanno
[12] Ho potuto vedere, per gentile concessione del pro nipote dott. Mario Perrone, tale opera e filmarne alcune pagine. Vedi pure Francesco Saverio Bloise in altri miei studi
[13] Vedi volume XVII degli Atti dell’Accademia Pontaniana, Napoli 1887
[14] Stesso volume XVII citato
[15]
Dogali. Villaggio dell’Eristrea, a ca.
[16] Un ricordo classico: le Termopili!
[17] In tutti gli esuli la propria patria è un sogno, un ideale, un’aspirazione!
[18] La poesia fu scritta nel 1849 mentre partiva da Napoli per Mormanno. Il manoscritto capitò nelle mani di un’alunna tale Diomira Francesca che la lesse in un suo discorso pubblicato in Napoli nel 1880 e da cui è tratta.
[19] In Grecia, tra morti e dispersi, si contarono 40 mila soldati. I Feriti furono 50 mila e 12 risultarono i congelati
[20] Erano quelle lettere che assicurando un lavoro facevano ottenere più facilmente il visto consolare per l’emigrazione
[21] Le “case” erano vecchie abitazioni del centro storico, abbandonate dai proprietari per più confortevoli appartamenti e cedute per poche lire in affitto a gruppi di adolescenti che, tassandosi mensilmente, vi ricavavano il loro “circolo privato”.
[22] “Secondo il costume dei nobili”, era la conditio sine qua non per ottenere indulti pontifici e privilegi (es. diritto d’asilo, oratori privati nelle mura domestiche ecc.)
[23] Solo nel settecento troviamo la mutazione che lo fece diventare Marramaldi
[24] Detta battaglia, che arrise agli imperiali del principe d’Orange, determinò la caduta della Repubblica di Firenze ed il conseguente ritorno dei Medici
[25] Giuseppe De Blasiis, Fabrizio Marramaldo e i suoi antenati, estratto da Archivio Storico per le provincie napoletane, Forni editore, Bologna, pg. 51 dell’estratto
[26] “Studi Meridionali” VIII (1975), 3 – 4, Lettere al Direttore pagg. 319 – 320.
[27] Atti di battesimo, volume II anni 1590-1602
[28] Oggi via Alfieri. Nei prossimi numeri ci sarà occasione di dare spiegazioni circa la derivazione dell’insolita intitolazione.
[29] Eduardo Pandolfi, Catalogo degli Scrittori di Mormanno, Tip. Sparviero, Mormanno, 1901
[30] Si tratta di una lastra rettangolare in marmo bianco recante un’iscrizione su 14 righe, a cui è sovrapposto un fregio, sempre in marmo, al cui centro è uno stemma sormontato da un cappello prelatizio.
[31] Costoro erano i fratelli D. Ottavio, D. Emilio e D. Francesco Ma Giliberti, dei quali l’ultimo fu Arciprete di Mormanno dal 1614 al 1648. Il giudice D. Tommaso Armentano, citato nell’epigrafe, era figlio di una loro sorella.
[32] Registri dei defunti 1764–1799, 1800–1832 e 1833–1869, atti di morte - famiglia Marramaldi - dal 1770 al 1838.
FARONOTIZIE.IT - Anno I - n° 8, Novembre 2006
Questa pagina contiene solo il
testo di tutti gli articoli del n° 8/2006
Redazione
e amministrazione:
Scesa Porta Laino, n.33 87026 Mormanno
(CS)
Tel. 0981 81819 Fax 0981 85700 reedazione@faronotizie.it
Testata
giornalistica registrata al Tribunale di Castrovillari n°02/06
Registro Stampa (n.188/06 RVG) del 24 marzo 2006
Direttore responsabile Giorgio Rinaldi