FARONOTIZIE.IT  - Anno I - n° 7Ottobre 2006

Questa pagina contiene solo  il testo di tutti gli articoli del n° 8/2006

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Direttore responsabile Giorgio Rinaldi

 

IL PAESE DEI BALOCCHI, E DEI FESSI

di Giorgio Rinaldi

 

Non c’è giorno senza essere allietati da qualche notizia paradossale o surreale .

In questo giornale esiste –addirittura- una rubrica apposita –“Doctor Livingston J suppose...”- il cui titolo rimanda, appunto, alla involontaria comicità della scena che vedeva l’incontro tra gli unici due uomini bianchi presenti in quel momento in tutta l’Africa equatoriale, Livingston e Stanley, i quali, nientedimeno, dubitavano, con anglosassone ipocrita educazione!, l’uno dell’identità dell’altro .

Il dramma è che tali notizie ci vengono spacciate come di ovvia normalità, anziché come il prodotto più emblematico della stupidità umana, quantomeno di una bella fetta di umanità.

Prendiamo, per esempio, il Giappone.

Grande potenza economica, all’avanguardia nelle scoperte di tecnologia più avanzata e sofisticata.

Ebbene, questo Paese, in cui tutto è razionalizzato al massimo, va in paranoia al solo pensiero che il divino erede al trono possa nascere femmina anzichè maschio, e si blocca –letteralmente- nell’attesa di conoscere il responso, come sarebbe accaduto mille anni fa ¡

Che dire, poi, della Invincibile Armata che al comando degli americani ha invaso l’Iraq per “portarvi la democrazia”?

Basti solo considerare che due degli alleati più importanti, la Spagna e l’Inghilterra (tralasciando Belgio, Olanda, Arabia Saudita etc. etc) sono retti da una ... monarchia: un re e una regina che fanno la guerra per il potere popolare è veramente il massimo!!!

E, la storia della bambina bielorussa che la famiglia affidataria italiana ha rifiutato di restituire? L’ambasciatore ha minacciato per ritorsione di impedire a 25.000 bambini bisognosi di cure e del clima italiano di venire nel nostro Paese, come se la Bielorussia facesse un piacere all’Italia e non viceversa.

In questa situazione di vuoto celebrale, i furbi e gli inetti, come al solito allignano e prosperano.

E  tutto “gira al contrario”.

 

Fiere campionarie, settoriali, generali etc.: produttori, commercianti, enti pubblici e privati vi pubblicizzano prodotti, merci, servizi, e –ovviamente- sono li per venderveli.

Ci si aspetterebbe che all’ingresso ti offrissero pranzo e assistenza, visto che sei un loro potenziale cliente, cioè una persona che può contribuire al loro personale arricchimento.

Invece no, ti fanno pagare il biglietto per andare a vedere le cose che ti vogliono vendere.

E’ incredibile ma è così, e la “gente” tranquillamente accetta il sopruso.

Hanno inventato il “telepass”, il “bancomat” e altri strumenti che da un lato ti semplificano la vita e dall’altro assicurano un grandissimo risparmio alle aziende interessate.

Tu ragionevolmente pensi che non solo ti dovrebbe essere fornito gratis, ma che ne fossero obbligatoriamente dotate tutte le autovetture, visto il notevole risparmio in costi di personale per l’esazione del pedaggio autostradale, nei costi di custodia e trasferimento materiale di danaro, nei costi sanitari e ambientali dati dal maggiore inquinamento etc. .

 

Invece no, devi pagare un canone mensile per averlo!

Così, chi gestisce le autostrade ci guadagna due volte, lo Stato in spese sanitarie ed ambientali ci rimette dieci volte, e non si sa quante persone ne pagano in salute.

Si potrebbe continuare e continuare, ma lo spazio non lo consente.

Vale la pena riportare solo un ultimo episodio che mi ha visto testimone.

 

L’altra sera in stazione aspettavo un treno che doveva arrivare ad una tal ora sul tal binario.

Qualche minuto prima, su quello stesso binario arriva, dirottato dal capostazione, un altro treno in ritardo. In assenza di informazioni audio e video, chiedo ad un ferroviere, in evidente attesa del mio stesso treno, se avesse avuto delle notizie più precise (anche i ferrovieri sono stati dotati di cellulare aziendale).

Risposta: “non si preoccupi, adesso parte questo treno e quello in arrivo prende il suo posto”.

Passa qualche secondo e l’altoparlante annuncia che il treno che aspettavo era in arrivo su un binario diverso e molto distante dall’altro.

Fuggi fuggi generale, vecchiette con diversi bagagli, che i facchini avevano scaricato sul marciapiedi,  in lacrime; persone con problemi di non perfetta deambulazione con il volto stravolto dalla rabbia e dallo sforzo. Infine, qualche ritardatario che si era recato al naturale binario e, accortosi della sostituzione, non aveva poi fatto a tempo a prendere quello giusto; qualche altro, invece, non si era accorto del diverso treno sul binario e vi era salito sopra partendo, così, per una destinazione opposta.

Solo chi non ha mai preso un treno può pensare che questo sia solo un episodio eccezionale.

Purtroppo, è ordinaria realtà e, per quanto mi consti, nessun capostazione è stato mai licenziato per manifesta e totale incapacità, oltre che per assoluta mancanza di rispetto per  l’utenza.

Allora, tu ti chiedi: ma a tutela dei cittadini, e specialmente in situazioni di attività esercitate in regime monopolistico, non sono stati inventati (certamente da qualche buontempone, sicuramente disinteressato...!) e istituiti i Garanti (antitrust, privacy, pubblicità, editoria, comunicazioni etc.) che, fra l’altro, ci costano milioni e milioni di euro in stipendi, affitti, arredi, colazioni di lavoro, autoblu etc.?

E’ vero, ma sono tutti sempre impegnati in cerimonie, pranzi ufficiali, a presentare costosissime quanto inutili pubblicazioni che mai nessuno leggerà e nel proporre norme buone solo a complicare la vita ai comuni cittadini.

Per fortuna viviamo nel Paese dei balocchi.

E siamo tutti dei fessi.

Fino a quando ?


 

 

LA PARTE ‘BAIANA’ DELLA FAMIGLIA

di Ricardo Sangiovanni

 

 

In Brasile, la fama dello stato di Bahia è dovuta, principalmente, alle manifestazioni della cultura d’origine africana. Intanto, oltre gli “afoxè” e il “candomblè”, altri gruppi cercano di mantenere viva la sua tradizione. Fra “tamburi” ed “atabachi”, la cultura italiana è una tra quelle che sono vive: in questo mese, ad esempio, si celebra l’Incontro Annunale della Famiglia Sarno, che riunisce varie generazioni di discendenti dei primi italiani che sono emigrati a Bahia, alla fine del secolo XIX ed inizio del secolo XX. 

 

Da una semplice riunione, il “pranzo”, pian piano, è diventato una tradizione. Fino al 2004, era fatto nella casa d’una delle organizzatrici, Vera Sarno. Ma, la progressiva crescita della famiglia ha obbligato le organizzatrici – Vera ed Aurora – a traslocare l’evento in uno spazio più grande: questo sarà il secondo anno che il pranzo si farà nella Casa D’Italia, spazio dedicato alla cultura italiana a Salvador. Aurora Sarno fa i preparativi per una festa per circa 150 persone il prossimo 22 ottobre. Nel menu, tradizionali piatti italiani, mischiati alle specialità della culinaria baiana. Tutto accompagnato da molto vino e birra.

 

L’incontro è fatto principalmente per mantenere unita la famiglia. Tutti gli anni, alcuni sono nominati per raccontare storie della famiglia al pubblico ed è il momento più divertente della festa. Le persone che già si conoscono, approfittano per chiaccherare e raccontare le ultime novità. Per quelli che non si conoscono, è l’opportunità di vedere i nuovi componenti della famiglia. “Anche se non si conosce ogni persona, si riconosce dai tratti somatici del il viso che è ‘uno della famiglia’”, dice Camila Sarno, 21 anni, studentessa di Comunicazione.

 

Camila ha già perso il conto di quante volte è andata alla “riunione”. “Quando ero piccola, a volte non volevo andare, ma la mia mamma mi obbligava. Io resistevo, ma poi andavo. Ed alla fine era cosi sempre divertente”, ricorda. Camila desidera un giorno di poter conoscere Mormanno, da dove è partito suo nonno, Luigi Sarno. “Oltre al paesino e il bel panorama, mi piacerebbe tantissimo conoscere di più la mia storia, sentirmi più vicino a mio nonno”, dice, con nostalgia. Realizzare il desiderio, intanto, non è cosa molto facile: solo per il biglietto d’aereo (andata e ritorno) da Salvador a Roma, si paga circa 750 euro. “Ma io ci andrò!”, dice piena di determinazione.

Il nonno di Camila è arrivato in Brasile all’inizio del secolo XX. Era uno fra i 6 fratelli che sono venuti a seguito del pioniere Vincenzo Sarno, che è partito da Mormanno per costruire la sua vita e la città di Poções, nell’interno dello stato di Bahia. Qui hanno lavorato per molto tempo col commercio di alimenti nel mercato della città. Il negozio s’è sviluppato ed ha iniziato l’attività nel settore di vendita di materiali per la costruzione edile. Oggi è chiuso e non c’è piú.

 

Negli anni 20, tra mormannesi e trecchinesi, c’erano circa 120 italiani a Poções. Oggi ne rimangono pochi, e le famiglie sono diffuse per lo Stato di  Bahia, principalmente a Salvador. L’informazione è di Eduardo Sarno. Eduardo ha una libreria, la Grauna (http://www.graunalivros.com.br), e dedica parte del suo tempo alla ricerca delle origini della famiglia e l’emigrazione italiana in Bahia.

 

Ho chiesto della ricerca dei “Sarno” di maggior rilievo, Eduardo scherza: “Ogni Sarno è un rilievo. Però colui di cui si parla di più è Corinto Sarno, che è stato una figura benemerita nella città di Poções. A livello nazionale, il più conosciuto é il regista di cinema Fidelis Geraldo Sarno.” E continua: “Il più sconosciuto è un tale Eduardo Sarno, un critico acido ed ironico, che rimane seduto sulla sua poltrona, aspettando l’arrivo della morte, scherzando di soggetti seri e ridendo da solo”.

 

Attualmente, Eduardo è coprotagonista, con chi scrive, d’una proficua discussione che tratta politica, etica, estetica, ideologia e natura umana. La prossima tappa di questo dibattito sarà il 22, in occasione del “pranzo”. Oltre alla famiglia Sarno, altre famiglie sono invitate, ad esempio di Pithon, Napoli, D’Andrea-Espinheira, Fasani, Sola e... Sangiovanni.

 

 

LETTERA AL FIGLIO DI UN TERRONE

di Raffaele Miraglia

 

Ti ricordi?

 

Si riconoscevano subito i sei terroni che abitavano in quel paesotto veneto che sta sulle rive del Lemene.

 

Verso le sei, sei e mezzo del pomeriggio si ritrovavano sul liston e iniziavano la loro passeggiata. I veneti non passeggiavano. Si sedevano al bar a giocare a briscola e a bere un’ombra. I sei terroni camminavano e parlavano fra loro in campano, molisano, pugliese, lucano, calabrese e siciliano. Era l’unico momento della giornata in cui potevano farlo. Anche in casa dovevano parlare in italiano. Avevano sposato donne del nord. Uno perfino una jugoslava. I loro figli diventavano presto trilingue. Parlavano, meglio dei loro amichetti, l’italiano. Poi parlavano il veneto e poi, ancora, il dialetto che imparavano in agosto, quando la famiglia si trasferiva al paese del papà.

 

Quel viaggio estivo era per i bambini (e anche per le loro madri) un vero e proprio viaggio all’estero. Per molti anni ci vollero due giorni per attraversare l’Italia. Si partiva all’alba, su una seicento stipata di bagagli (poi la seicento si tramutò in una millecento) e sul sedile posteriore un lenzuolo per te e il tuo fratellino e degli asciugami attaccati ai finestrini per proteggervi dal sole.

 

L’autostrada esisteva solo in qualche tratto. Se facevi l’Adriatica, quasi in nessun tratto. Il Po’ i primi tempi lo attraversavi su un traghetto e poi su un ponte di barche dalle parti di Taglio di Po’. C’era la mitica salita di Ortona, dove trovavi sempre un camion che rallentava a lungo il viaggio. La prima notte la trascorrevi nelle Marche e la sera del giorno dopo finalmente arrivavi e trovavi per cena qualcosa di leggero dopo il lungo viaggio. Di solito della pastina in brodo con polpettine di carne.

 

Già quella sera iniziavi a praticare un po’ l’altro dialetto, ma sarebbe stata la mattina dopo, all’incontro con gli amichetti, che velocemente avresti cambiato lingua e anche giochi.

 

Al nord nessuno giocava con in mano un lungo ferro, arcuato in cima, per far correre in equilibrio un cerchione di una ruota di bicicletta.

Sia al nord che al sud esisteva nascondino, ma al sud si chiamava ‘a mucciarella e la prima volta avevi chiesto che gioco fosse, prima di capire che lo conoscevi e lo conoscevi bene.

Al nord giocavi agli indiani con archi, frecce e persino il copricapo di piume. Al sud nessuno aveva archi e frecce.

 

Quando, poco poco più grande, portasti giù il Monopoli,  diventasti il centro del mondo e tutti venivano a giocare davanti al portone della casa di tuo nonno e si finiva per litigare perché al gioco non c’era posto per tutti.

Poi diventasti un po’ grandicello e tra i nove e i dieci anni scendevi dal paese con una frotta di amichetti e arrivavi al Sinni a fare il bagno in una pozza. Ti facevi chilometri in discesa e poi chilometri in salita e la sera andavi a letto dopo Carosello, perché anche al sud era intanto arrivata la TV.

Ma a quel punto le strade erano migliorate e il primo giorno ti eri fermato a mangiare a San Benedetto del Tronto, in una trattoria scelta perché nel parcheggio c’erano sempre dei camion fermi. E questo era un buon segno, anzi la migliore pubblicità possibile. La notte avevi dormito a Vasto, dove c’era un grattacielo, segno del progresso che stava arrivando. Stavano finendo gli anni ’60.

 

E al ritorno al nord - ti eri appena trasferito in una cittadina sulle rive del Noncello - avresti trovato grandi novità.

Davanti alle scuole dei grandi c’erano degli studenti con i capelli lunghi che distribuivano fogli di carta ciclostilati.

E avresti visto migliaia di operai della Zanussi che camminavano insieme per la strada e urlavano.

 

Tramontava l’era dell’olio di fegato di merluzzo.

 

 

LUCANIA

 

di Francesco Arleo

(tratta dal sito della Gazzetta del Mezzogiorno)

 

Mia madre non si chiede perché è nata qui,
noi siamo figli innervati di silenzio
mia madre non si chiede perché siamo scappati
noi siamo i dispersi:
laureati irraccomandabili
camerieri al Caffè Canova
cuochi di Holloway road
inquilini sotterranei
portieri di Milano
facchini di Boulevard Saint-Germain
stallieri nelle Pampas
puttanieri di via Collatina
locandieri di Buenos Aires
predatori gentili di Montecarlo
morti di fame a Caracas
siamo i tuoi figli
Lucania:
non sei verdi declivi, faggi o versi d'Orazio tu sei i tuoi dispersi.


3/6/2004

 

DUE MAESTRI ED UNA DECORAZIONE BAROCCA NELLA BASILICA DI SAN PETRONIO

di Camillo Tarozzi

 

La costruzione della basilica di san Petronio ebbe momenti di stasi alternati altri di grande fervore, nell'intento mai sopito di portare a termine un progetto a quei tempi impensabile se non per una indomita cocciutaggine di una classe dirigente saldamente legata ad una idea assai campanilistica del proprio destino.

Persone o  famiglie,  cariche o corporazioni cambiarono con il tempo, ma non si spostò di un millimetro il gigantesco piano di una costruzione tardogotica le cui forme appariranno sempre più sorpassate nel tempo e nella moda dallo sviluppo della rappresentazione delle forme e delle architetture che le contenevano.

Si depositò nell'immenso cantiere, nel corso di un paio di secoli, gran parte del fare artistico della più alta qualità ed attualità fra gli episodi di vita artistica bolognese, uno sparso sedimento di molte fra le più importanti manifestazioni degli spiriti creativi e delle capacità artigianali che inseriscono nel disegno di un grandissimo architetto e manager,

Antonio di Vincenzo 1390, espressioni più significative delle evoluzioni formali della decorazione nella nostra città.

 

Partiremo da uno degli esempi fra i più tipici  e scombinati, che ci occuperà in più occasioni nel racconto di fasi decorative distanti anni luce, nei termini della storia dell'arte, eppure uniti dai consueti meccanismi di accettazione estetica che il grande pubblico, assai prima che la critica, attribuisce a costruzioni di tale assurdità compositiva ed insieme di così piacevole effetto decorativo.

 

La cappella di Sant'Antonio è tipico per qualità ed ampiezza.

Costruita entro la metà del quattrocento, essa fu dedicata al santo di Padova dalla famiglia Saraceni, che provvide al suo decoro con sculture  e pitture  a partire dal 1524/1526. Il ricco commerciante Giovanni Antonio di Girolamo Saraceni affidò il primo incarico a Girolamo a Treviso che vi dipinse ad olio la parte bassa delle pareti con miracoli della vita del santo e vi organizzò e disegnò l'intero arredo, con sculture di marmo ed arenaria. Allo stesso tempo, maestri vetrai di origine transalpina, ma sul  disegno di artisti bolognesi, costruirono la meravigliosa grande vetrata che ancor oggi racchiude la finestra della cappella, inserendo nelle nicchie di pietra con forma gotica un continuo di architetture e forme di ormai tardo rinascimento.

 

Degli inizi di questa grande decorazione, con pittura di luce nella vetrata e di monocromo ad olio nella muratura, parleremo nelle prossime occasioni, ripercorrendo a ritroso il succedersi della stratificazione decorativa, a partire dalla più recente.

Nel 1662 Fu quindi ordinata una nuova decorazione che doveva coprire le pareti fino alla sommità della volta su commissione del nuovo patrono della cappella, il marchese Alessandro Cospi. Ricco ed influente, egli avrebbe voluto affidare i lavori ai migliori decoratori sul mercato in quel momento, Giuseppe Maria Mitelli e Michelangelo Colonna, che avevano coperto con le loro fantasiose invenzioni prospettiche tante pareti di palazzi e chiese bolognesi.

 

Ma la loro partenza per la Spagna impedì l'impresa che fu invece affidata ad una meno famosa ma più brillante coppia di artisti, Fulgenzio Mondini e Giacomo Alboresi. A quest'ultimo spettò il compito di affrontare l'ornamentazione di uno spazio tutt'altro che unitario,  per di più occupato quasi interamente, proprio nella parete di fondo che costituiva elemento protagonista delle scene allusive della meraviglia barocca, dal grande finestrone gotico e dalle vetrate violentemente colorate: un disegno per il complesso conservato agli Uffizi costituisce uno dei rari esempi pervenuti della grafica di questo maestro. Nella realizzazione definitiva il progetto fu modificato, eliminando i motivi prospettici che nella ipotesi preparatoria dovevano sovrastare i finti quadroni con le storie del Santo dipinte da Mondini, mentre nella parte alta, la più difficile a risolversi per l'incontro  dei costoloni che si fondano sulla proiezione delle diagonali di un quadrato con costoloni di cotto, l'artista adotto una soluzione ingegnosa, con una illusionistica balconata mistilinea, in cui l'alternarsi ed il sovrapporsi delle linee allusive nello spazio doveva sottolineare ed incrementare l'effetto ascensionale dell'architettura.

 

Con questa impresa l'Alboresi conquista uno spazio da protagonista della decorazione a Bologna, e lavorerà con Cignani e Franceschini all'enorme  trompe l'oeil absidale dove San Petronio dedica la città delle due torri alla Madonna.

I due quadri a figura sono dipinti a fresco e tempera da Fulgenzio Mondini, un artista che, se non avessimo certezze documentarie, figurerebbe forse fra gli anonimi di buon livello che affollano la pittura seicentesca., raffigurano la Morte del santo e la sua Canonizzazione di sant'Antonio.

 

L'abilità costruttiva rivela la sicura qualità di un maestro, ben inseribile fra i migliori della scuola del barocco bolognese, , affine ai più conosciuti esponenti del periodo, come Pier Francesco Cittadini e Flaminio Torri. A rivelare la figura dell'artista assegnandolo ad uno spazio non mediocre contribuiscono le parole di Carlo Cesare Malvasia. A suo parere se non fosse morto giovane 'nel principio del suo meraviglioso operare', quello che è da lui considerato 'uno dei più bravi allievi che uscisse mai dalla numerosa schiera del Barbieri,' - il Guercino- ' certo passava ogni altro de, suoi tempi in figurare a fresco, mostrandovi una risoluzione e facilità che mai vidi di simile…'

 

La maggior parte delle sue opere è andata distrutta, così  i sopravvissuti dipinti murali della cappella petroniana sono ancora più preziosi : 'scioltezza del ductus e verità del lume' annunciano  le realizzazioni di Lorenzo Pasinelli mentre alcuni spunti ritrattistici ricordano ancora il giovane Guercino (Roli).

 

 

 

UN’ESTATE... CON IL CUBANO

di Nicola Perrelli

 

 

A settembre si riprendono i ritmi della vita abituale, che vuol dire lavoro, ferrmento, affanno…

ll caldo e l’abbraccio dei raggi solari,la vita all’aria aperta e le notti stellate  di agosto, l’allegria e i fugaci incontri tipici della bella stagione,  sono ricordi già lontani. Alcuni  però ingialliscono più lentamente. Inconsapevolmente li teniamo in un angolo della nostra memoria per poterne fruire al bisogno: quando affiora la nostalgia. Scene quotidiane, gesti, ritualità e abitudini di amici che al momento niente evocavano o stimolavano vengono ora illuminati da un’altra luce. Penso allora  all’amabile compagnia di un amico , gaudente amatore del fumo di sigaro, un redivivo Churchill. Al suo immancabile cubano che, ogni sera dopo cena, in piazza  diffondeva nell’aria, sempre fresca di Mormanno e tra la compagnia, sempre uguale di anno in anno, il profumo ed i sapori del fumo. Sono ricordi che lasciano una fragranza e un odore soave a chi come me   ne apprezza gli aromi e ancora di più la sottostante filosofia di vita.  Anche se qualcuno  dai tavoli sottovento lanciava  messaggi di insofferenza con stizzosi colpi di tosse.

 

E’ vero, il sigaro , come il buon vino,  e’ nutrimento dello spirito. Comunica emozioni,predispone  la mente ad un viaggio ricco di sensazioni e di profumi,  stimola  il dialogo con se stessi. E’  la contrapposizione al ritmo troppo frenetico della vita moderna, è l’ invito  a vivere una vita slow. Il sigaro richiede tempo e lentezza. Fumare un puros è un’arte, l’ultimo atto di un rituale che inizia con la scelta, con la perfetta conservazione e umidificazione, che prosegue con il controllo della testa, prima di tranciarla con il tagliasigari, e della tenuta della fascia, per arrivare all’accensione,il momento più delicato, che è preferibile effettuarla in un interno per poi eventualmente uscire con la brace ben viva . Una volta acceso il sigaro va fumato intero  in modo che il fumo giunga al palato fresco e ossigenato. Per questo motivo i puffs,- i tiri del fumo- non si aspirano , si degustano. Non a caso i suoi appassionati spesso sono anche amanti della buona tavola,quella delle preparazioni fatte nel rispetto dei tempi naturali. Due passioni che si accordano felicemente, che combinano gusto,conoscenza e piacere. Chi apprezza il buon mangiare e bere non può non apprezzare il fumo dei puros.

 

Un sigaro cubano  abbinato ad un ottimo Armagnac d’annata è la degna chiusura di ogni  pasto, al quale conferisce una voluttà incomparabile soprattutto se il menù è stato appetitoso. Accompagnare al fumo il giusto abbinamento è il modo migliore per scoprire nuove sensazioni.

 

L’accoppiata sigari-porto, è l’ abbinamento classico della cultura europea, sinonimo di saper vivere e di unicità, un po’ come le ostriche della

Bretagna con   lo champagne o il caviale del Davidov di San Pietroburgo con la vodka. Ma per un viaggio del palato tra i sentori , gli aromi e i profumi di mondi lontani  l’abbinamento per eccellenza è tra i puros cubani e il Rhum. Un connubio che esalta ulteriormente la già forte personalità delle due parti in causa.

Che immancabilmente  rimanda alla calura delle terre caraibiche, alle danze creole e a mari cristallini, teatro di esotiche avventure. Altro che vizio!!

I sigari cubani hanno sempre avuto ed hanno ancora grandissimi estimatori. Il citato Churchill adorava i Romeo e Giulietta per il loro aroma unico, Che Guevara  prediligeva i Montecristo per il loro  gusto , Fidel Castro si dice invece preferisca i Cohiba, questi  sigari antichissimi ottenuti  arrotolando una sola foglia di tabacco.

Di fronte a queste leggende popolari che hanno mitizzato il fenomeno si è creata una vera e propria moda.

 

Possedere oggi una scatola di Cohiba originali e poterli offrire agli amici o ad un party, viene ritenuto un segno di differenziazione . Uno status symbol che  colloca in una determinata posizione della stratificazione sociale. Sicuramente in quella che può dedicare tempo ad occupazioni e rituali  impudentemente non produttivi. E i rituali ,com’è noto, hanno lo scopo di creare e mantenere,proprio tramite la formazione di status, le gerarchie nella società. La vita sociale del resto abbonda di rituali che spesso non ci rendiamo conto di compiere. Da quelli più semplici,come salutarsi o prendere un caffé al bar in compagnia , a quelli più complessi dell’amore piuttosto che  delle liturgie collettive. Anche  fumare il sigaro, specie quello costoso , diventa cosi un’attività nella quale ciò che appare produce effetti di gran lunga più importanti dell’azione in se stessa. 

Per i veri fumatori,comunque,senza sminuire il valore di quest’ultime brevi considerazioni di taglio sociologico, fumare il sigaro, anzi il cubano, è semplicemente puro piacere.  

    

 

 

 

ZAN GOGH

di Francesco M. T. Tarantino

 

 

E quale premio dovrebbero darti?

Oltre il danno la beffa senza grazie

Ora dimmi come posso raccontarti

Senza parlare delle tue disgrazie ?

 

Avevi la casa un clarino e due sorelle

Suonavi una musica di note celesti

Incomprensibile a molti sotto le stelle

E di chi non capiva finalmente ridesti

 

Eri bello con la cravatta e il tuo clarino

Anch’io guardavo con i tuoi occhiali

Un mondo illudente che appariva vicino

Invece era ostile nei suoi modi banali

 

Nascondevi fra giaculatorie e preghiera

Un amore proibito in odor di sacrestia

Nei tuoi gesti rituali e gli sguardi di sera

Confessati al mattino di ogni eucarestia

 

Rimanesti solo con un amore inconfessato

Per un’illusione e un piatto d’indulgenza

Un testamento sul tuo clarino e l’abitato

Per salvarti l’anima e quietare la coscienza

 

Han venduto la casa per soldi in “suffragio”

E il tuo clarino che ha respirato le tue pene

Non è al museo di via Rossi:sarebbe oltraggio

Nei musei si espone solo quel che conviene

 

Resta la promessa di un paradiso guadagnato

Senza fiori ma con tante messe e benedizioni

Per essere al più presto dal purgatorio liberato

Al suono luccicante dei tanti troppi milioni

 

 

* Francesco M. T. Tarantino ha di recente pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “Cose Mie”, MEF - L’Autore Libri Firenze.

 

 

 

 

STORIE DEI PRIMI EMIGRANTI TRA LA FINE DEL 1800 E IL 1940

di Luigi Paternostro

 

Piccola storia di un’avventura argentina

Il cugino Francesco  aveva costruito una casetta ad un piano.

Al posto del tetto una terrazza che d’inverno trasformava le sottostanti stanze in un frigorifero e d’estate in un forno crematorio.

 

Alla prima notte insonne e tormentata ne seguirono altre.

Nel rione vi era un capataz che per un compenso sul futuro lavoro pari al due per cento della paga e per la durata di un anno, fece occupare i due nostri nella costruzione di una ferrovia che portava da Buenos Aires a Cordoba.

Cominciò così l’avventura argentina. Dovettero lasciare casa cittadina e adattarsi a vivere nei cantieri di lavoro. Furono 10 anni di sacrifici e sofferenze. Appena realizzato un buon gruzzoletto ritornarono nella metropoli e, acquistando un terreno, vi costruirono una casa.  Nello stesso quartiere risiedeva da poco una famiglia siciliana. I nostri dopo un anno erano sposi di due sorelle. Aprirono due negozi: Antonio un genere alimentare e Nicola una peluqueria.

Antonio ed Antonia non ebbero figli. Nicola e Maria ne ebbero tre. L’ultima, andando a lavorare cadde sotto un collettivo e morì a 18 anni per trauma cranico. Il secondo ebbe problemi alla vista e dopo pochi anni di lavoro con il padre dovette smettere perchè divenuto cieco. La terza sposò un altro corregionale e fu donna di casa. Ebbe un figlio che arrivato a trent’anni emigrò negli Usa lasciando una madre sessantenne ed un padre settantenne in un paese che travagliato da lotte, guerre, rivoluzioni e instabilità non assicurò  più una vecchiaia felice. La famiglia si estinse poi alla fine degli anni trenta con il desiderio di Mormanno. 

Piccola storia di un’avventura spagnola.

Luigi Apollaro fu Biase e Maria Maddalena Nunziata Sangiovanni, sposi nel 10 settembre 1848, ebbero otto figli. Tra essi Giuseppe, calzolaio, nato il 1855 e Carmine, calderaio nel 1865 decisero, dato il mestiere che praticavano, di far fortuna a Nova Yorca  (New York). Giuseppe, già sposato, prese la moglie,

Mariangela  e due figlie (ne ebbe in seguito altri cinque) e insieme a Carmine, raggiunta Napoli e poi Genova iniziarono la loro avventura.

Ma il destino giocò loro un tiro mancino. A Barcellona Mariangela si ammalò tanto gravemente da essere costretta a sospendere il viaggio proseguito dal solo Carmine.

Giuseppe, con la moglie e le due figlie, si trovò di punto in bianco nella Spagna. Non  potendo vivere  a Barcellona si diresse in provincia e trovò lavoro a Sabadell. Qui aprì dapprima una calzoleria. Accortosi che il mestiere non tirava, cominciò a fare l’ambulante di chincaglierie passeggiando con un asino e un carrettino tra Tarrasa, Olesa  e altri paesini. Intanto ebbe altri  cinque figli tra cui due maschi uno dei quali morì di appena un anno. Fu raggiunto anche da usa delle sue sorelle rimaste a Mormanno. Un’altra famiglia e altre cinque bocche da sfamare! Quando qualche tintinnante quattrino cominciò ad appesantire le sue tasche, si stabilì a Tarrasa aprendo quella che oggi si dice una mesticheria e privilegiando tutti gli oggetti in rame che, memore del mestiere del fratello, cominciò costruire con successo.  Erano mestoli, secchi, forme per dolci, lanterne ad olio, casseruole, coperchi, bracieri e tanti  altri piccoli oggetti di uso domestico.  Il Negozio che vediamo si trovava in Calle Cremat  Sei dei suoi figli restarono in Catalogna: l’ultima, per uno strano gioco del destino, ritornò a Mormanno, Quivi si sposò mettendo al mondo sei figli.

Carmine raggiunse l’America. Non migliorò le sue condizioni economiche e dopo una diecina d’anni ritornò a Mormanno ove aprì famiglia continuando quel lavoro cha sapeva fare. Visse fino al 1942 attraversando un periodo di grave crisi economica che iniziata durante e dopo la prima guerra mondiale si protrasse fino alle soglie della seconda.

 

Piccola storia di un’avventura brasiliana

Giuseppe Paternostro, calzolaio, nato 1849,  si trasferisce in primis a S. Domenica Talao. Rimasto vedovo con tre figli, si risposa e ha ancora tre. Sbarca nel 1890, in avanscoperta con il figlio Vincenzo a San Paolo. Nel 1897 si fa raggiungere dalla seconda moglie e dal resto della famiglia. Nel 1901 gli nasce un  figlio, Angelo e da lui tutta una discendenza ormai radicata in quella megametropoli. 

 

La seconda ondata migratoria

Prima  dello scoppio della prima guerra mondiale vi fu una seconda ondata migratoria. Questa volta si tentò la carta dell’America del Nord. La meta preferita fu New York e qualche cittadina del Connecticut come Hartford.

Dopo la buriana e dopo la vittoria le cose non miglioravano. La borghesia italiana cominciava a guardare con favore il sorgente fascismo mentre si moltiplicavano le azioni squadriste contro le organizzazioni dei lavoratori, le cooperative e le sedi dei partiti, specialmente di quello socialista.

Nel 1921 vennero condannati a morte, accusati con prove inconsistenti di rapina e omicidio, Bartolomeo Sacco e Nicola Vanzetti e subito dopo venne varata una legge che vietò l’immigrazione.

Nel 1924 gli Usa rimarcano con la legge Huges  tale divieto che previde una chiusura per i giapponesi e ulteriori misure restrittive per le provenienze europee.

Quando gli USA vennero colpiti dalla Grande Depressione che raggiunse, al suo punto più basso, bel 15 milioni di disoccupati con un potere d’acquisto dei salari ridotto del 40%  rispetto al 1929, molti mormannesi, attratti dalla propaganda del regime che tendeva a dimostrare una stabilità ed una economia in crescita, abbandonarono gli States e ritornarono al paesello, sfoggiando catene ed orologi d’oro. Qualcuno portò anche un grammofono a tromba e dischi di vinile contenenti le note di una musica strana, dalle strane parole, a volte tutte in slang, che nessuno conosceva   e che mal si legavano con le polchette, le nostrane

tarantelle e qualche valzer. Erano foxt-trott, swing, slow mai sentiti. Gli americani  li ballavano sgraziatamente agitando vistosamente le braccia e

ancheggiando. Questi nuovi ricchi, dopo aver ristrutturata la casa paterna, depositarono alla posta tutti i sudati risparmi per vivere felicemente di rendita. La cosa durò fino alle soglie della seconda guerra mondiale quando la galoppante inflazione spazzò via tutti i sogni  riducendoli nella più squallida miseria aggravata dalla sopraggiunta vecchiaia. Ricordo qualcuno di loro che pur di sbarcare il lunario portava gli asini dei contadini che venivano a vendere la verdura e la frutta nel suo magazzino divenuto stalla oppure dispensava e poi a mezzogiorno raccoglieva le bilance che il daziario gli forniva ricevendo in cambio avanzi  di mercato. 

 

Sorte migliore non sarebbe toccata alla gioventù italiana del littorio. Il regime  pensò bene di mandare a morire i poveri verso le assolate terre dell’Africa Orientale ove bastava allungare lo stivale per trovare il nuovo eldorado.

Addis Abeba era un villaggio di capanne di paglia sotto la guida di Hayla Sellase che memore delle riforme di Menelich, si faceva chiamare negus neghesti come gli antichi re dei re di babilonica memoria.

L’unica strada che collegava Gibuti alla capitale, costruita peraltro dai francesi,  ormai era vecchia e al limite della praticabilità.  Il Paese aveva  vari usi e costumi.  Il pane era di taff, la polenta di bultuc,  una specie di panico sgusciato e ridotto in farina. Al posto dei berretti aquilsigniti, si usava il barbuse. Si pregava in copto-monofisita, e s’incontravano anche pagani, maghi, stregoni ed ebrei.

Quest’ultimi poi svuotarono anche l’Italia e la Germania a seguito della legislazione razziale del 1938. Chi poté fuggi in Usa, questa volta ben accolto. A Mormanno giunsero il dott. Wirt, un serio pediatra, il dott. Muni, 

 

Cytron Samuel, e Bruno Altermberg, tutti “confinati”. Wirt visitò e curò tutti i bambini di Mormanno nati tra il 1939 e il 1943. Muni, correva come una

saetta, al letto degli ammalati a qualsiasi ora del giorno e della notte, Altemberg, che conosceva e parlava sette lingue, insegnò da Sarubbi. Tra essi vi furono anche gli oppositori del regime. Il romagnolo Uguzzoni divenne poi Sindaco.

 

Cosa succedeva in quegli anni ai mormannesi residenti?

Già ai primi del secolo troviamo un’ imprenditoria locale che fin dal 1885 aveva fornito, prima di Napoli, l’energia elettrica. Tra gli altri servizi ricordo l’agibilità, a partire dal 1890, della strada Mormanno-Scalea, la costruzione dell’acquedotto comunale fin dal 1886.

Nonostante queste premesse non vi fu un forte risveglio economico. Prevalse il tornaconto personale immediato e il disinteresse per migliorare le condizioni sociali. Alla classe dirigente conveniva mantenere lo stato dei privilegi che sottintendevano anche una dipendenza psicologica.

 

Neppure la chiesa riuscì a dare uno scossone. Bisognò aspettare fino al 1916 per avere una Cassa Rurale Cattolica nata per opera di don Francesco Sarubbi. La politica italiana con il potere che passava da Giolitti a Sonnino, il terremoto di Messina, 1908, la guerra libica, 1911, fu ben lontana dalla vita delle piccole comunità. Qui arrivava l’eco degli avvenimenti. Nel 1912 l’estensione del diritto di voto ai cittadini maschi che avevano compiuto i 21 anni ed erano alfabetizzati, promosse la creazione, a partire dal 1914, della direzione didattica e dell’istituzione di una scuola elementare a Procitta.

 

La società aveva assunto questo aspetto: accanto ai pochi impiegati comunali tra cui si contavano quattro insegnanti, ai pochi commercianti e imprenditori, viveva una popolazione fatta da contadini, operai, braccianti, calzolai, falegnami, segantini, sarti. Chi poteva contare in qualche modo su di una certa sicurezza erano i contadini in proprio, piccoli proprietari, e chi offriva servizi come sarti, barbieri, falegnami, calzolai i quali più che guadagni manipolavano solo qualche lira accontentandosi di prodotti della terra a cambio dei servizi. Queste erano le categorie che avevano dato vita all’emigrazioni all’estero. Ma una della caratteristiche più importanti della fragile economia paesana era quella migrazione interna operata specialmente dai segantini, veri operai specializzati, che

 

raggiungevano zone lontane come il Cilento o la Sila, passandovi la maggior parte dei mesi invernali. Essi rientravano a Mormanno per i Santi Pietro e Paolo, fine  di giugno, restandovi circa un mese immettendo sul

mercato moneta fresca che dava lavoro agli artigiani e soprattutto ai muratori impegnanti a costruire o rifare le loro case. Questa presenza estiva si notava poi nelle nascite primaverili. Marzo o aprile erano i mesi in cui si sentivano pianti di bambini e si vedevano ceste di panni da lavare al fiume.

 

Un altro fenomeno di migrazione stagionale era dato dalla raccolta delle olive e dalla mietitura. Tra novembre e dicembre  si spostavano compagnie di donne guidate da caporali verso le pianure di Sibari e Cassano, mentre tra giugno e luglio sugli stessi luoghi sudavano i mietitori.

 

Lo scoppio della prima guerra mondiale, alla quale la comunità mormannese diede un notevole contributo di sangue, 116 caduti, lasciò dolori e ferite difficilmente rimarginabili. Tra il 1926 e il 1928 fu sindaco               Giuseppe Cornacchia, ex colonnello in congedo che ebbe come sola preoccupazione quella di guardare a quell’ordine e legalità apparente più che calarsi, e non lo poteva fare, nella realtà cittadina. Ai suoi tempi  si costruì la ferrovia e si erse il Faro votivo. Questi avvenimenti portarono a Mormanno maestranze nuove, minatori, falegnami, carpentieri che rimpinguavano l’economia locale affollando anche numerose le cantine  alcune delle quali facevano le funzioni di veri e propri ristoranti. Dal 1929 al 1937 la carica di primo cittadino passò all’avv. Giuseppe Rossi. In questo periodo, con inizio dal 1935, funzionò la miniera delle pietre ferrigne, estrazione del manganese, in località Milìscio. Fu il primo esempio di lavoro organizzato per merito dei dirigenti tutti ingegneri. Tra essi ricordo il mormannese Pierino La Terza.  Fu occupata in larga misura una manovalanza femminile e nel lavoro si riciclarono anche quei minatori che ormai erano divenuti mormannesi avendo sposato nostre concittadine.

Fiorì anche un ginestrificio per la produzione di fibre tessili sulle cui rovine sorse poi il Pastificio D’Alessandro. Nel 1938 fu Sindaco l’avv. Gustavo La Greca. Tra 1938-39, il maestro Angiolino Armentano,  e tra 1939-1941, all’avv. Armado De Callis, poi commissariato. Nel 1943, la carica fu tenuta dal dott. Benedetto Longo con il quale finisce, insieme a quella fascista anche l’Era dei Podestà. Non ho documentazione del loro operato. 

 

Ricordo solo sabati fascisti, commemorazioni del 4 novembre, parate varie, segretari politici che scendevano sorridenti, lucidi e ammiccanti, le scale della casa del fascio che sembravano trasformarsi in quelle

percorse dalla  Wandissima, che agitando pennacchi e stole, cantava ti parlerò d’amor!  Al popolo toccavano ancora i soliti calci nel c..!

(continua)

 

 

 

 

 

LIQUIRIZIA. ORO NERO DI CALABRIA

A Rossano, il Museo della liquirizia
“Giorgio Amarelli”

di Paola Saraceno

 

A Rossano Calabro, in provincia di Cosenza, il museo della liquirizia “Giorgio Amarelli” continua ad attrarre annualmente oltre 40.000 visitatori.

Un museo di una blasonata azienda situato all'interno di un edificio che era il centro degli interessi agricoli della famiglia, ma soprattutto un museo del territorio che vuole raccontare, attraverso la liquirizia, la storia economica della Calabria. Da quel prodotto misero, quasi di scarto della terra, si inventò nella prima metà del ‘700 un’ industria destinata a diventare una delle industrie tradizionali più fiorenti della regione.

 

La liquirizia è un prodotto antichissimo, già citato negli antichi trattati di medicina indiana, greca e di altre civiltà. Cresce in una fascia di latitudine che va dalla Spagna fino alla Cina. La migliore è quella che nasce in Calabria, definita dall'Enciclopedia britannica come la liquirizia cru, con la migliore qualità a livello mondiale.

La liquirizia pura di origine calabrese è particolarmente equilibrata nel gusto dolce-amaro per cui può essere utilizzata senza additivi o altre sostanze edulcoranti, mentre la liquirizia prodotta in Cina, Pakistan, India, Turchia è molto amara.

 

Tale primato qualitativo ha fatto sviluppare in Calabria l'industria della liquirizia. Consumata prima come bastoncini naturali tratti dalla radice, intorno al 1700 si è incominciato a pensare di trasformarla in una protoindustria, prima ancora della rivoluzione industriale, per trarre dalla radice un succo, poi concentrato in liquirizia nera, brillante e profumata, capace oggi di raggiungere i mercati internazionali

Al 1731 risale l'origine del concio Amarelli, azienda testimone di una antica tradizione produttiva, rappresentata nel Settecento da molte realtà artigianali evolutesi in senso industriale nel secolo successivo.

 

Delle cinque fabbriche di liquirizia di dimensione industriale esistenti in Calabria e Abruzzo alla fine del XIX secolo – affiancate da una moltitudine di realtà artigianali – capaci di produrre annualmente 5.000 quintali di succo di liquirizia e di dare occupazione a circa 300 persone, Amarelli è oggi l'unica ancora attiva.

Il Museo della liquirizia Giorgio Amarelli ha aperto i battenti nel 2001, dopo circa un decennio di meticoloso lavoro di selezione documentaria e di progettazione. Subito insignito del Premio Guggenheim Il Sole 24 ore alla migliore azienda debuttante nell'investimento culturale, in soli cinque anni di attività il Museo è divenuto punto di riferimento per il turismo e per l'identità locale. Modello virtuoso di valorizzazione della cultura d'impresa e di una tradizione produttiva, fiore all'occhiello e veicolo d'immagine per l'azienda che ne ha promosso l'allestimento e che ne è proprietaria.

Nel museo è contenuta la storia del prodotto e della famiglia, attraverso mezzi di trasporto, mobilia, abiti, documenti familiari e d'impresa ottocenteschi, attrezzi agricoli e oggetti d'uso quotidiano. Iconografia storica e strumenti tradizionali relativi alla produzione della liquirizia.  Una suggestiva ricostruzione di un ufficio di spedizione e di un punto vendita del secolo di Napoleone concludono il percorso museale.

 


 

PELLEGRINO SUL CAMINO REAL DI SANTIAGO

di Antonio Penzo

 

 

Il richiamo è stato forte e sono riuscito a trovare chi mi accompagnava nel percorso a Santiago di Compostela a piedi e con la zaino in spalla. Nonostante la preparazione di un paio di mesi su e giù per le colline bolognesi, in autovettura ci siamo recati a Sarria, prima tappa dell’ultimo tratto di circa 100 km del Camino Real e, zaino in spalla e bastone in mano, iniziamo a percorrere i nostri chilometri a piedi.

 

La salita al monastero è percorsa rapidamente e scendiamo lungo il cimitero per raggiungere un ruscello sul quale si erge un primo caratteristico ponte in muratura, poi il sentiero s’inoltra fra campi e boschi, costeggia la linea ferroviaria e sale una collina boscosa. Il piano del sentiero è in terra e quindi ci sentiamo tranquilli. L’incontro con altri pellegrini è gioioso, con scambi di saluti e quando s’incontrano degli italiani, anche di brevi notizie. Il tempo è splendido anche se non molto caldo. Molti pellegrini di gamba più veloce ci sorpassano, ma ciò non ci crea alcun problema, poiché dobbiamo imparare a misurare le nostre forze. Ognuno ha il suo passo e quindi si viaggia in solitudine e questo è bene. Ogni tanto ci si riunisce, pur camminando in continuazione.

 

Lungo il percorso veniamo raggiunti da una ragazza italiana, con la quale inizia una conversazione. Ci racconta che la seconda volta che compie il percorso fin da Roncisvalle e che è di Perugia. Da questa città raggiunge spesso Assisi a piedi. Inizia una lunga discussione, accompagnandoci nel cammino. Nei posti di ristoro ci fermiamo solo per bere qualcosa o porre il “sello” (sigillo o timbro) sulla credenziale. Al cippo che indica km 100 da Santiago si fa la foto e via. Il caldo si fa sentire e il percorso diventa su sentiero o strada asfaltata, che taglia un po’ le gambe.

 

Non ci fermiamo a mangiare, rinviando il tutto a quando raggiungeremo Portomarin. La fatica inizia a farsi sentire e notiamo la mancanza di fontanelle, anche se si attraversano degli agglomerati di case che dovrebbero essere collegate con un acquedotto.

L’acqua e la frutta portata negli zaini ci ristorano un po’. L’ultima parte del percorso è su di un altopiano riarso.

Con fatica, alla spicciolata, giungiamo in  vista della meta. Con sorpresa notiamo che il lago non c’è, poiché svuotato. La discesa al paese è lunga e faticosa, in quanto su strada asfaltata e al sole. Un albero ci permette di sorseggiare l’ultima acqua dalla boraccia all’ombra, poi l’attraversamento del ponte e la scalinata alla chiesina di S. Nicola tagliano definitivamente le gambe.

 

Dalla “perugina” si è apprende che alcuni pellegrini sono in ritardo, affaticati e un po’ malandati. In paese si notano un ambulatorio medico, con coda di pellegrini in attesa ed un servizio di massaggi, che a detta di chi lo ha sperimentato rimette in sesto.

 

Dopo la doccia di rito ed un breve pisolino in albergo, si scende in piazza a familiarizzare con i vari pellegrini. Cerotti, fasciature, ginocchiere e cavigliere abbondano e comunque spesso la camminata è claudicante. Questa prima giornata di molti pellegrini ha lasciato un profondo segno. Ma la felicità di essere riusciti a compiere la prima tappa è manifesta sul volto di tutti.

 

Sulla porta di un ristorante, incontriamo una signora spagnola che parla italiano e che ci narra che sta compiendo il viaggio da Roncisvalle. E’ molto informata del Camino e ci dà informazioni per il giorno dopo. Occhi e capelli neri con un bel sorriso, gonnellino minigonna e due cosce sode attirano l’attenzione; ci racconta che da oggi il figlio di sette anni ha iniziato il percorso con lei da Samos per raggiungere Santiago.

 

Alle venti entriamo nel ristorante, e siamo i primi, stante la consuetudine degli spagnoli di cenare dopo le ventuno. Ci sediamo e ordiniamo il pasto del pellegrino: caldo gallego, bacalao e verdura. Una bottiglia di vino bianco è più che sufficiente per il tavolo. L’acqua gasata si trova solo in bottigliette da cc 33, mentre quella sin gas è anche in bottiglie da un litro. Il caldo gallego è una zuppa calda di fagioli, patate ed altre verdure con foglie di cavolo ed insaporita da qualche pezzo di carne di maiale. Ottima per ritemprarci dalla fatica e prepararci al sonno. Il bacalao è uno squisito pesce fresco, molto spesso e cotto alla perfezione. La verdura è mista, fresca ed invitante.

 

Penso che il pellegrino, nonostante il peso dello zaino, poi la sera non se la passa male, a mangiare. Il problema sorge per coloro che dormono in camerata se c’è qualcuno che russa. Di tappe ce ne sono altre quattro per arrivare a Santiago e ritirare la mitica “compostela” e potersi adornare della conchiglia pellegrina, e il non dormire non giova certo al giorno successivo.


 

VIAGGIO ALLE ORIGINI: PERRONE

di Francesco Regina

 

Dopo la prima uscita dedicata alla famiglia che ci diede il cognome, ci occuperemo in questa sezione di quella che dicesi essere stata la prima famiglia di Mormanno.

L’omonimo palazzo coincideva con le prime abitazioni edificate a ridosso del Castrum, ovvero sia nel luogo che veniva indicato come Barbacane.

Nonostante le modifiche apportate nel corso dei secoli abbiano inevitabilmente modificato l’aspetto propriamente originario, nel suo insieme esso palazzo appare ancor oggi ai nostri occhi un complesso continuo ed omogeneo.

 

Secondo una diceria popolare, peraltro abbastanza accreditata, nel palazzo Perrone trovavasi un cunicolo stretto che sbucava a valle della Costa – lato ovest – conducendo verso località Minnàrra, che costituiva com’è ovvio pensare, una via di fuga alternativa e sicura.  

 

Messer Pomponio Perrone figlio del nobile Aurelio, nato il 26.02.1555, è il primo familiare  che compare regolarmente registrato nel libro I dei battesimi.[1]

 

Una serie di sodalizi d’interesse con le famiglie che contavano nei territori limitrofi, suggellati con il matrimonio dei primogeniti, nonché l’ascesa al sacerdozio da parte secondogeniti, garantirono negli anni l’accrescimento del patrimonio e la continuità del predominio sul territorio.

Da un documento certamente di primissima mano, apprendiamo che già nel ‘700 le famiglie di Perrone siano in numero di case distinte 64[2].

           

Ad esso documento, vi è allegato un albero genealogico[3] in cui compaiono nomi  quali Antonaccio, Marc’Antonio, Cesare, Marcello ecc., e che lascia palesemente intendere la derivazione dal tale Perro de Perronis.

Perro è un vocabolo spagnolo che significa cane.  Ipotesi: alla stregua di quanto riportato in precedenza, non è assurdo supporre un nesso con il Barbacane.

           

Nel seicento troviamo arciprete di Santa Maria del Colle il Reverendo don Luca Giovanni Perrone figlio di Perro ( divenuto poi Perno), nato il 9 maggio 1557, subentrato al defunto don Savoya  Grisolia passato a miglior vita nell’anno 1594[4].

 

Nel settecento fu un altro Perrone a reggere le redini della parrocchia, Don  Isidoro Perrone iunior  (1711 + 1786) uomo di sacra dottrina ed insigne arciprete [5]

Costui era però della Gens Flavia, usando una dicitura dell’antica Roma, avente per stipite Flavio Perrone, nome che sarà molto ricorrente nelle successive generazioni.

Don Isidoro Perrone senior, della medesima famiglia, (1629 + 1706) fu valente cantore e buon poeta.

Potremmo continuare a lungo nelle enumerazioni; ma la tirannia dello spazio ed il rischio di incappare nella pedanteria e nella ridondanza ce lo vietano, rimandiamo quindi i visitatori del sito interessati ai nostri archivi per notizie particolareggiate ed approfondimenti ulteriori.

 

 

 

IL MUSEO REGIONALE DELL’EMIGRAZIONE “PIETRO CONTI”  DI GUALDO TADINO

di Ferdinando Paternostro

 

 

Il Museo dell’Emigrazione di Gualdo Tadino nasce dalla volontà di evocare e sottolineare il patrimonio storico, culturale ed umano legato al grande esodo migratorio che coinvolse l’Italia a partire dalla fine dell’Ottocento, riguardando più di 27 milioni di persone. Centinaia di documenti, immagini e racconti provenienti da tutte le regioni d’Italia sono custoditi nella sede museale, tutti insieme a raccontare un’unica grande storia: gli addii, l’incontro e lo scontro con il paese straniero, la nostalgia, le gioie e i dolori quotidiani, l’integrazione nella nuova realtà, le sconfitte e le vittorie, il confronto e la riflessione con l’immigrazione di oggi. Un viaggio corale che ha per protagonista l’emigrante.

 

Realizzato con la coinvolgente tecnica delle proiezioni video,  possiede in esclusiva tutto il materiale documentario della Rai Teche e della Radio Televisione della Svizzera Italiana riguardante l’emigrazione all’estero, costituito da filmati, servizi giornalistici, film e documentari.

Il Museo, ospitato nella splendida sede del Palazzo del Podestà e Torre civica  coinvolge il visitatore in un emozionante percorso a ritroso,  l’arrivo degli emigranti all’estero, l’aggregazione, la vita comunitaria, il cibo, la religione, l’occupazione, con particolare riguardo alla ricostruzione della vita lavorativa nelle miniere di ferro e carbone. Al secondo piano l’avventura del viaggio, rare e commoventi immagini di traversate transoceaniche, monitor che emergono da vecchie valige di cartone e antichi bauli, campane del suono che raccontano preziose testimonianze di viaggi ardui e perigliosi a bordo di lenti e stracolmi bastimenti. Ed,infine, il terzo piano dedicato alla partenza, ai motivi che spinsero milioni di italiani a tentare la via dell’emigrazione verso terre straniere, in paesi ospitanti ma non sempre ospitali, le difficoltà dell’integrazione.

 

Alla Dott.ssa Catia Monacelli, Direttore del Museo Regionale dell’Emigrazione, che ringraziamo per la sua cortese disponibilità, abbiamo chiesto quale sia lo scopo del Cento studi del Museo?

 

Il Museo dell’Emigrazione “Pietro Conti” è un Centro di ricerca permanente, pubblica ogni anno i volumi della collana “I quaderni del Museo dell’Emigrazione”, ha una ricca biblioteca che raccoglie testi e ricerche sull’argomento, ha un archivio fotografico e documentario in continuo aggiornamento, una nastroteca ed un’esclusiva videoteca di riferimento nazionale. Un aggiornato sito internet che è stato inserito sul portale del governo http://www.gov.it , come esempio di collegamento e rappresentatività per gli italiani all’estero.

L’istituzione collabora con tutti i centri studi che si occupano di migrazioni che si trovano nel mondo, appoggiata dal Ministero Italiani nel Mondo è anche al centro dei rapporti culturali ed istituzionali con i vari consolati italiani all’estero e con le comunità e le associazioni italiane.

Brasile, Canada, Argentina, Australia, Pennsylvania, Francia, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, Germania, sono stati i paesi che hanno accolto ed ospitato conferenze e presentazione dei volumi del Museo.

 

 

Quali sono le principali attività che il museo  svolge?

 

Si tratta di un Museo “vivo” e “polifunzionale”, non solo contenitore e custode della memoria dell’emigrazione, ma anche luogo deputato allo svolgimento del laboratorio didattico per le scuole di ogni ordine e grado. Il laboratorio didattico del Museo dell’Emigrazione si caratterizza anche come centro di ricerca e di sperimentazione metodologica. Le attività ch’esso propone rappresentano l’applicazione di uno specifico modello formativo, che contraddistingue il laboratorio e lo rende riconoscibile nel dibattito nazionale sulla didattica della storia. Per laboratorio si intende una modalità di fare storia basata sull’uso dei documenti e finalizzata a coinvolgere gli studenti in un processo di costruzione delle conoscenze e delle competenze storiografiche.

 

Il museo sta promuovendo un importante Concorso Nazionale, ce ne può parlare?

 

Il Centro studi ha bandito un importante Concorso Nazionale dal titolo “Memorie Migranti”, per la migliore testimonianza video sul tema dell’emigrazione italiana all’estero, con particolare riferimento alla propria regione e realtà territoriale. Lo scopo dell’iniziativa è quello di stimolare il recupero e la sensibilizzazione della memoria storica giovanile sul tema dell’emigrazione italiana nel mondo dalla fine dell’Ottocento ai nostri giorni, nonché favorire un’attività di ricerca e di studio sugli aspetti storici, sociali ed economici legati al fenomeno. Il concorso prevede cinque categorie: scuole elementari, scuole medie inferiori, scuole medie superiori, centri territoriali per adulti, università, master post laurea, scuole di cinema, giornalismo, televisione e video.

Per scaricare il bando completo del concorso è possibile collegarsi al sito http://www.emigrazione.it

 

 

 

FARONOTIZIE.IT

 

Anno I - n° 7

Ottobre 2006

 

 

 

ANDAR PER ISOLE: PAXOS

di Francesco Aronne

 

 

Le vibrazioni dei motori trasmesse alla massa d’acciaio del Vivì che da Igoumenitsa ti porta stancamente a Paxos cullano i pensieri che spaziano in territori inusuali. Un moto, che dopo la traversata notturna dello Ionio, risulta dolcemente ozioso ed in attesa dello sbarco ci accompagna nel lento spostamento che fa scorrere il paesaggio della costa greca…

Alla vista di isolotti e scogli o anche di Corfù in lontananza, tornano alla mente le letture giovanili dei racconti di ignoti e temerari marinai su isole fantasma situate per lo più nel grande mare verde delle tenebre (come una volta si chiamava l’Atlantico settentrionale).

Racconti che portano alla mente luoghi magici e misteriosi come l’isola di San Brandano, l’isola dei Diavoli o l’isola di Buss, arcipelago fantastico di luoghi mai esistiti… altri pensieri vanno all’audacia di antichi navigatori che solcavano questo mare sulle rotte della Terrasanta e al Boudelaire di “Un viaggio a Citera”.

La distanza da quelle inquietanti acque e la navigazione che si svolge in un mare più tranquillo, ma ancor di più la vista dell’approdo, rincuora il montanaro viaggiatore che è in me. E Paxos si avvicina sempre più mostrando ad ogni ritorno qualche nuova ferita che ne offende il paesaggio, tuttavia ancora straordinario.

Finalmente sull’isola, si sbarca a Gaios nome che induce ad un divertito ottimismo. Prescindendo dall’abitudinarietà assunta per me da questo viaggio, volendo comunque dare qualche indizio sul luogo cerco di soffermarmi col pensiero su quanto di più forte induce sensazioni. Un luogo ha molti aspetti caratteristici e, agli occhi di ognuno, altri ed altri ancora. Prescindendo dai richiami di sirena dei depliant turistici e dei siti sull’isola, o meglio isole (Paxi ed Antipaxi), più d’altri hanno rapito la mia attenzione alcuni aspetti. Girovagando per il posto, per chissà quale sortilegio spazio-temporale, ho l’impressione che il tempo rallenti e di molto il suo cammino: la flemma degli indigeni è maestra ed il tempo sull’isola sembra invischiarsi intorno a questa. Non conosco il greco ma ho sentito spesso due parole avrio e metavrio credo siano traducibili con domani e dopodomani. Per esperienza ho appreso che la prima può indicar mesi, la seconda anni.

 

Girando per l’isola colpisce una vegetazione lussureggiante, a volte resa impenetrabile dai rovi, che tradisce una vasta incuria ed abbandono del territorio, la natura che si rimpossessa del luogo. Enormi e secolari alberi di ulivo trasmettono contrastanti sensazioni. E piacevole goderne l’ombra sulla seconda spiaggia di Logos (Marmari) ma passando per la prima (Levrechiò) colpiscono ulivi che sembrano esseri mostruosi, forse escrescenze vegetali di titani o altre creature mitologiche sull’isola sepolte. Soffermandosi con lo sguardo sulla foggia e dimensioni di questi alberi si è pervasi da un senso di inquietudine e di trasporto che forse serve a spiegare il radicamento della mitologia in questa terra. Abbracci di serpenti o creature avvinghiate, lotte antiche di indomiti guerrieri, o altro ancora. Il conforto a queste mie impressioni, forse esagerate, l’ho trovato tra le pagine de “Il sogno della Ragione (unicorni, ippogrifi, basilischi, mostri e sirene)”di  Brunamaria Del Lago che già nell’estate 1990 parlava di un negozietto lungo il porto di Gaios dove innocue pietre e conchiglie prendevano forma di animali, uomini e dei.

E da qui un altro spunto, le pietre. Non è esagerato dire che l’isola è di pietra. Di pietra le case, di pietra i muri che fanno da confine a terreni una volta coltivati, di pietra le scogliere che da Eremitis, dal Sunset o altri posti regalano “tramonti che si perdono nel nulla”. Dovunque nell’isola la pietra lavorata. Percorrendo viottoli e sentieri (monopati) dovunque muri, pietre squadrate, tagliate e poste in opera con magistrale sapienza. Colpisce il silenzio tutto intorno, il vuoto ed il senso di deserto. Una quantità incredibile di pietra lavorata da tante ed esperte mani, ore ed ore di lavoro trasformate in supporto di muschi e di licheni. Dove saranno andati gli antichi abitanti e la loro arte? Di tanto in tanto nella vegetazione si scorge una chiesina e il suo piccolo cimitero, poche tombe che non spiegano il vuoto ed il silenzio su quest’isola che in altri tempi doveva brulicar di vita.

 

Interessanti e anche queste a sostegno delle mie “poco turistiche” suggestioni, le righe contenute in “Bestiario Segreto” scritto da Alfredo Cattabiani nel 1995. Dal settimo racconto “Il capro di Paxos” apprendo di “Come il dio Pan riappare vivo nella stessa isola dove fu annunciata la sua morte duemila anni fa.” Ne consiglio, a chi interessato, la divertente lettura. Pur frequentando spesso gli stessi luoghi, del terrificante capro del racconto, per fortuna non ne ho trovato alcuna traccia. I paxioti attuali, ciò che resta degli antichi abitanti, vivono con inerzia le trasformazioni della loro isola, frastornati dall’ondata che ogni estate invade Paxos.

 

 

La inesorabile metamorfosi che scaturisce dall’attenzione turistica per questo luogo (come per altri) lascia intravedere un futuro fatto più di nubi

che di cielo terso. Il Vivì si allontana con la stessa stanchezza riportandomi verso Igoumenitsa. Lascia alle sue spalle oltre la scia la sagoma dell’isola che si rimpicciolisce sempre più all’orizzonte. Lentamente i miei pensieri mi riportano sul continente e le figure fantastiche si sciolgono nelle prime ombre della sera. Il paesaggio più bello è quello che non abbiamo ancora visto e questo è un viaggio che vale comunque la pena di fare.

 

 

 

 

 

 

UNA RICETTA PARTICOLARE

di Raffaella Santulli

 

Una donna che possiede due occhi affascinanti è quasi sempre bella: perché, se anche i suoi lineamenti non sono completamente estatici, lo splendore  che dallo sguardo si diffonde, basta a far apparire il viso perfetto.

Ciò succede perché la natura ha posto negli occhi il magnifico potere della seduzione: l’amore, questa fiamma misteriosa che arde nel cuore, sprigiona il suo bagliore dagli occhi.

 

E’ sempre con gli occhi che l’amore compie i suoi gentili misfatti: è con gli occhi che facciamo la nostra prima dichiarazione, ed è con gli occhi che, nostro  malgrado, noi manifestiamo la nostra indifferenza.

E’ indiscutibile: con gli occhi noi imploriamo e  comandiamo, concediamo e rifiutiamo, con gli occhi noi compiamo l’opera di seduzione.

In tutti i tempi furono chiamati “la finestra dell’anima”.

L’espressione è assai giusta: l’anima guarda attraverso questi organi.

Non solo la finestra, ma lo specchio dell’anima.

Ora, se noi sappiamo dare alla nostra anima questo speciale stato che si chiama entusiasmo, ebbrezza psicologica, fisica etc., è chiaro che esso si rifletterà negli occhi dando a questi un maggiore bagliore, ed una più magnetica espressione.

Tutta la difficoltà consiste, naturalmente, nel trovare questi stati d’animo.

Qual è dunque l’indicazione?

Quale il miglior conservativo di questo magnetismo?

La calma.

Non certamente nel senso dell’indifferenza e del cinismo, ma il requisito delle anime nobili che sanno scacciare le basse passioni.

Noi viviamo in un’epoca tormentosa e tormentata, in cui la febbre dell’esistenza è spinta fino all’ossessione; in cui mille motivi di sconforto, di dolore, di rabbia, di lotta, di travagli, ci turbano continuamente l’anima.

La sconvolgono, la vessano, la vilipendono, la obbligano a vivere in una perenne tempesta.

Mantenersi calmi, allora!

Ecco, dunque,  l’unico precetto.

Racchiudersi nella fortezza del proprio io e pensare… pensieri nobili ed elevati… i veri artefici della bellezza: sono essi i deputati ad imprimere quotidianamente, lentamente, sicuramente, sul nostro viso, la loro fisionomia.

 

La conservazione della bellezza ottenuta senza cosmetici.

 

 

VALOROSI NORMANNI

di Francesco e Marzia Rinaldi

 

 

Terra di esuli guerrieri, ascetici nei loro semplici piaceri, oggi la Normandia è terra per gusti raffinati.

Dai teneri formaggi di Camembert al vigoroso Calvados, dal burro di vacca al nettare degli dei immortali, il Sidro, con il quale è d’uso e d’obbligo pasteggiare in sostituzione del più “mortale” benché altrettanto eccellente vino, sia esso di Bordeaux o nobile di Borgogna. Senza omettere, poi, le ottime carni bovine ed ovine e, naturalmente, il pesce. E, si badi, non solo frutti di mare !

 

Dai boschi dell’Auge alle imponenti Falesie di Etretàt e alle scogliere di Fecamp, le più alte di Normandia, che proteggono i moderni pellegrini – i turisti – dal minaccioso Atlantico del “nord”.

Gente di carattere, chiusa ma schietta e cortese, i Normanni ben custodiscono quel sano modo di concepire e valutare le “cose” della vita, che tanto affannano, oggi come allora, l’essere “individuo pensante” di kantiana memoria.

 

Insomma, un bel tuffo in un ambiente discreto nel suo essere, lontano dallo scintillio, troppe volte forzosamente sfarzoso, di altri “mondi”, altrettanto interessanti, ma tendenzialmente isolanti.

L’individuo, qui, non si sente un semplice viandante ammaliato dalla straordinaria bellezza dei paesaggi – la memoria va specialmente a quel “Monte” che sorge dalle Acque, quello di San Michele –, bensì un po’ parte del paesaggio che lo circonda, mirabilmente integrato in esso, come un tutt’uno indistinguibile.

 

Questo è forse il fascino di questa peculiare terra, geologicamente composita ed interessante, storicamente teatro e custode di opere ed eventi significativi, fertile di messi ma, soprattutto, raccolta intorno a chi ha il privilegio ed il piacere di abitarla.

Ebbene, “Chi è come Dio ?”


 

 

BISOGNA CONOSCERE PER POTER APPREZZARE

di Nicola Perrelli

 

 

Un po’ di mustica?  si grazie, ma…che cos’è ? E’ con questo interrogativo che molti nostri giovani  accetterebbero di mangiare la saporita specialità originaria della costa ionica calabrese. Poca conoscenza degli usi e delle tradizioni alimentari regionali, che il Sud con la sua ancestrale lentezza , in controtendenza all’inarrestabile  fenomeno della c.d. globalizzazione, resiste a far conoscere  e circolare  nel mondo, e remissiva accettazione dei prodotti e pasti del  fast-food,   spiegano perché la mustica, o sardella, per le ultime generazioni è un illustre sconosciuto.

 

Eppure la vera ricchezza  della nostra Regione, quella sfruttabile economicamente e come indotto per lo sviluppo del turismo, si cela proprio tra i profumi ed i sapori della sua gastronomia. “I tesori della Calabria non sono i bronzi di Riace”, scrive a ragion veduta l’esperto di gastronomia Paolini. Formaggi, salumi, vino, olio e via dicendo parlano della sua storia e cultura. Narrano  cosa significa essere mediterranei. Ricordano il legame indissolubile che le nostre popolazioni hanno stabilito nei millenni  con questi prodotti fondamentali per la sopravvivenza. La cui produzione va ricordato è stata sempre faticosa, precaria ed incerta. Ma sarebbe altrettanto preciso dire che ognuno di questi alimenti ha i suoi paesaggi,le sue storie,le sue memorie,i suoi valori simbolici,il suo folklore. Il grande romanzo, appunto, della nostra terra.

 

Anche il mare aggiunge molto alle risorse alimentari della Calabria. Dall’incontro di prodotti che provengono dall’agricoltura e dalla pesca nascono cibi di straordinaria originalità. Il mare gioca dunque un ruolo significativo per l’affermarsi di particolari abitudini alimentari. Come quella di consumare pesce conservato e salato.  E’ dalla sapiente capacità nella lavorazione del pesce che sul versante ionico ,quello che va dai paesi di Crucoli a Trebisacce,  dalle acciughe appena nate o rosamarina, si riesce  ad ottenere quel prodotto unico che è la  sardella. La più piccante e gustosa conserva ittica del Mediterraneo. Una prelibatezza mai eguagliata.

 

Per farla occorre il bianchetto, altro nome della rosamarina, catturato con una apposita rete a sacco  tra i mesi di novembre ed aprile.

 

Il pescato viene poi lavato,leggermente salato e messo ad asciugare in canestri. Successivamente si passa alla conza ,ovvero la salagione a strati alterni di sardella e sale in contenitori di coccio detti salaturi.

Inizia ora, sotto peso, la stagionatura che dura 6/7 mesi. Da come viene seguita e curata la maturazione dipende la riuscita o meno della sardella. Il segreto è tutto qui. Solo le massaie più esperte sanno quando è il momento giusto per togliere la sardella dalla salamoia ed impastarla con la farina di pepe rosso piccantissimo  e il finocchio selvatico. Fino ad ottenerne un preparato compatto e omogeneo, simile ad una marmellata. Solo cosi, quando è difficile capire che si tratta di un prodotto a base di pesce, si può parlare di una sardella ben fatta.

La sardella più famosa, quasi una crema, è quella prodotta a Crucoli che ne rivendica la paternità, organizza ogni anno  una sagra nel mese di agosto e si fregia della seguente segnaletica ufficiale: Torretta di Crucoli il paese della sardella. Non è da meno quella di Trebisacce che utilizza però una rosamarina più adulta.

 

La sardella può essere gustata in tanti modi. Quello più semplice è di spalmarla sul pane tostato con un po’ di burro. Ma è ottima con l’uovo all’occhio di bue o cicato,  eccezionale se  soffritta e mescolata con gli spaghetti e poi ancora con la pitta, ecc.ecc. 

Sarà venuta voglia di mangiarla?

 

 

    

 

NUOVOMONDO
regia di Emanuele Crialese

visto da Carla Rinaldi

 

 Una bella lezione di cinema quella di “Nuovomondo” di Emanuele Crialese che si porta a casa un premio a Venezia istituito apposta per la sua pellicola, il Leone d’argento. In lizza, si spera tanto, per l’Oscar come miglior film straniero, “Nuovomondo” racconta bene e drammaticamente le partenze degli emigranti italiani per gli Stati Uniti.

 

Una famiglia arcaica siciliana che vive tra le pietre arse delle sue montagne, è lo spunto per ampliare una storia corale in cui migliaia di persone povere e desolate si imbarcavano su enormi ferry boat e occupavano la terza classe, quella destinata al bestiame, ai pacchi, ai motori.

Dopo un voto fatto alla Madonna e una richiesta di un semplice segno, la famiglia siciliana protagonista, decide che è arrivato il momento di partire e lasciare per sempre la terra amata ma avida di futuro e pregna di sfortuna. Senza mai scadere in una facile macchietta, si imbracano e per tre settimane compiono un lungo viaggio nella speranza che all’arrivo, dopo tanta sofferenza, riescano a superare i tanti test che li attendono a Elling Island, perché, come dirà un militare che sottopone ai quiz gli emigranti, gli Stati Uniti non vogliono persone poco intelligenti nella loro patria.

 

Ma il racconto narrato con perfezione stilistica e cromatismo pari solo ad un vecchio Pellizza da Volpedo, riflette con le sue incrinature di gialli malinconici e rossi sbiaditi, gli stati d’animo dei nostri gloriosi emigranti che rinunciavano alle piccole gioie quotidiane fatte spesso solo di un pezzo di pane e soppressata fuori ad una porta di legno scalcinato in compagnia di altri compari, per dare a loro ma soprattutto a tutta la loro stirpe, una vita dignitosa  accompagnata dal sacro valore del sacrificio. Bravo Crialese che affronta questo argomento proprio in un momento storico spinoso in cui si ci dimentica che immigrazione non significa solo criminalità. Nel cargo afoso dei nostri antenati, il dolore della lontananza e il rispetto per nuovi popoli è evidenziato, la discrezione che gli italiani hanno avuto quando hanno messo piede in America, la consapevolezza che un Paese che li ospitava e li sfamava ha aiutato tanti di loro a diventare ricchi e saggi.

 

Un film che è un piccolo capolavoro sia per l’intensità di una sceneggiatura scarna, proprio come erano le conversazioni degli emigranti, sia per le immagini perfette geometricamente, una storia reale, una scelta logistica adatta a mostrare  in silenzio gli stati d’animo in subbuglio e paura, alcuni intermezzi di vivaci canzoni swing  che alleggeriscono il dramma.
Ma “Nuovomondo” può considerarsi un bel film soprattutto perché Crialese conosce il linguaggio del cinema e rispetta lo spettatore, bilanciando  la scelta di ogni singolo fotogramma e mostrando, anche lui da semplice spettatore, cosa vuol dire arrivare in un posto. Perciò il film si chiude all’arrivo negli Stati Uniti, perché spesso la parte più dura delle scelte sta nell’accingersi a  compierle e quando si sono già compiute i sentimenti forti vengono volutamente accantonati per dare spazio alla costruzione di qualcosa.
Ma è l’incognita la parte  più emozionale. Gli emigranti di Crialese appena toccano le coste dell’Atlantico cacciano tutto l’orgoglio che hanno e lo spazio per la nostalgia lo affideranno alle lettere e al ritorno al paese dopo cinquant’anni di onorata fortuna e tanto sacrificio
.

 


 

 

 


IL  TASTASÀL

di  Monica Rigo                                                                      

 

Riso e carne di maiale si possono sposare in mille modi diversi ma, dalle parti del veronese,  parlare di risotto al tastasàl  (o all’isolana) evoca sapori antichi ed inconfondibili.

 

Il tastasàl, è un impasto fresco  di carne di maiale preparata per il salame, aromatizzata con aglio, sale, pepe, vino rosso, spezie varie. Le rasdore delle campagne padane usavano preparare il risotto con tastasal per assaggiare la pasta del salame prima di insaccarlo. Da ciò deriva il nome del tastasal: tastare la salatura (della carne del suino). Oggi, nel veronese e nel padovano, si trova pronto nelle migliori macellerie.

Isola della Scala, a pochi chilometri da Verona, è  centro di produzione del famoso Vialone Nano,  varietà risicola con caratteristiche gastronomiche ottimali per i risotti, che ha trovato nella Bassa veronese il suo habitat migliore, tanto da ottenere il riconoscimento Europeo I.G.P., cioè il marchio di Indicazione Geografica Protetta.

 

Qui ogni anno, in concomitanza con la raccolta, la domenica successiva al primo venerdì di ottobre, si celebra la Fiera del Riso, giunta quest’anno alla sua quarantesima edizione. Nella sagra si cimentano i migliori  chef, locali e non,  che presentano le diverse interpretazioni del risotto con il tastasàl , piatto unico nel suo genere  poiché è una via di mezzo tra un risotto ed un riso bollito.

 

Ecco la ricetta per quattro persone:

 

·        Tre bicchieri colmi di riso Vialone nano  (circa 350 g.)

·        450 g. di tastasàl

·        2 rametti di rosmarino fresco

·        Noce moscata q.b.

·        Formaggio grana grattugiato

 

Il tastasàl viene messo a cuocere con il rosmarino, senza aggiunta alcuna, si lascia poi  colare tutto il grasso (che nella versione light si elimina), si fa andare  ancora a fuoco medio per 5- 10 minuti fino a che la carne comincia a rosolare, quasi tostando.

Intanto viene lessato il riso, per 10 minuti in acqua salata, che poi si scola e si rimette nella pentola di cottura assieme al tastasàl.  Il  tutto viene coperto con un canovaccio e, mescolando ogni 2 o 3 minuti, viene cotto ancora a fiamma media per 18-20 minuti.

Il tocco finale (segreto dello chef !)  consiste nell’aggiungere a fine cottura un cucchiaino di grana a persona,  precedentemente insaporito con la noce moscata.

Un’ultima mescolata ed il risotto con il tastasal è pronto per essere servito con grana a volontà.

 

Provatelo e fatemi sapere !

 

 

 

 

ARRIVA L’AUTUNNO
OCCHIO AI PNEUMATICI DELLA VOSTRA AUTO
    

di Stefano Ferriani

 

                                                                                                         

Quanti di noi  attribuiscono la giusta importanza ai pneumatici della propria auto?              

 

Le statistiche dicono che la percentuale è molto bassa.  Della nostra auto curiamo principalmente il lato estetico,siamo quindi portati a mantenere la carrozzeria bella e lucida,curiamo inoltre la tappezzeria interna              accessoriandola con tappeti e profumatori di ultima generazione,ma non curiamo gli pneumatici.                                                                                                           

Cosa significa curare gli pneumatici?                                           

Partiamo analizzando innanzitutto la funzione  del  pneumatico che è essenzialmente quella di collegare l’automobile con una superficie.
La funzione è quindi fondamentale, l’aderenza del pneumatico al terreno è direttamente proporzionale alla sicurezza di utilizzo che ne deriva e l’elemento che determina l’aderenza è l’usura.                         

Allora quando uno pneumatico si intende usurato?                   

Quando il suo battistrada nel punto di maggiore usura è inferiore a 1,5 mm, per comodità d’uso su tutti gli pneumatici moderni delle “tacchette”posizionate sul battistrada indicano il limite massimo di usura.

Gli pneumatici usurati vanno immediatamente sostituiti attenendosi rigorosamente alle indicazioni riportate sul libretto di circolazione, tali indicazioni fanno riferimento alle dimensioni e al codice velocità per le quali è stata omologata la vettura in oggetto.       

           

Nel caso in cui si volessero montare pneumatici di dimensione non citata sul libretto di circolazione è assolutamente necessario ottenete il nulla osta dalla casa costruttrice dell’automobile sulla quale si intende effettuare la modifica,solo e unicamente questo  ne determina la possibilità e la sicurezza di utilizzo.                   

                                              

Non attribuiamo invece troppa importanza alla marca dello pneumatico,il livello qualitativo medio è alto quindi non risulta indispensabile acquistare prodotti di marca magari super  pubblicizzati a prezzi proibitivi, il mercato offre prodotti validi a prezzi competitivi (fatevi consigliare dal vostro gommista di fiducia)

 

Che caratteristiche deve avere uno pneumatico per essere definito valido? Innanzitutto un giusto rapporto qualità prezzo dove per qualità intendiamo: buona tenuta  di strada in tutte le condizioni atmosferiche, silenziosità, comfort, durata intesa come percorrenza chilometrica e per finire una buona scorrevolezza per contenere i consumi di carburante.                                                                                                                                             

Un consiglio:nel periodo invernale sarebbe opportuno montare le gomme “TERMICHE”        che hanno la caratteristica di avere il battistrada maggiormente scolpito unitamente ad una mescola particolarmente tenera che ne permette un riscaldamento più veloce e maggiore migliorando cosi la tenuta di strada e la frenata anche in condizioni particolarmente difficili come ghiaccio e neve.                                                                                                               

Buona percorrenza a tutti!  

 


 

 

ZONA FRANCO- BOLLO

di Francesco Aronne

 

 

 

 

Una sera di tanti anni fa, in un ufficio che non c’è più, di un’azienda che non c’è più, che produceva sogni che non ci sono più, fui raggiunto da un amico, da tempo disperso in chissà quale naufragio, e da altri suoi nuovi concittadini, saviglianesi di Savigliano, sua nuova patria adottiva.

 

L’amico, le cui ultime e datate notizie certe lo davano come postino in quel luogo del Cuneese, fece le presentazioni e con innocente compiacimento declamava agli increduli suoi compagni di viaggio l’importanza della fabbrica che non c’è più di sogni che non ci sono più, in questo posto che c’è ancora … quasi a sottendere che anche al sud si è capaci di fare qualcosa.

 

L’occasione dello sbiadito incontro, tornata alla memoria in modo bislacco, fu determinata dal gemellaggio che l’amministrazione comunale di allora, oramai dimenticata come le altre che la seguirono, fece con la città di Savigliano.

 

L’iniziativa su cui è superfluo opinare, voleva riannodare interrotti fili tra Mormanno e la folta comunità di Mormannesi che hanno migrato le loro

energie rendendole disponibili all’economia di quest’angolo di Piemonte.

 

Un gemellaggio che in qualche modo potesse affrancare i nostri compaesani, alleviandoli nelle sofferenze subite in quel trapasso, con una mossa che, battendo sul tempo tutti gli altri comuni, vittime di similari emorragie, rendeva i mormannesi un po’ meno emigrati degli altri (se non altro perché “gemelli” della città ospitante).

 

Per quanto di mia conoscenza a quella iniziativa riassumibile come una allegra visita parenti (non posso non ricordare in un Carosello antico la pubblicità in cui Nicola Arigliano da un autobus diceva “Gruppo vacanze Piemonte si parte!”) non ci fu alcun seguito, neanche sui cartelli che delimitano il territorio comunale.

 

In questi giorni mi è ripassato tra le mani un vecchio libro “Ricerche Etimologiche su mille voci e frasi del dialetto Calabro-Lucano” . Il suo autore tal Sac. Teodoro Cetraro era Socio Benemerito della “Società Filomatica di Mormanno”. Nel volumetto, malconcio e tormentato dagli anni e dall’incuria di chi l’abbandonò in un cumulo di carte da macero, leggo in data 26 gennaio 1872 la relazione n° 78 del Consiglio Accademico della citata Società e della Biblioteca Popolare Circolante Mormannese.

 

Nulla so di più su questa biblioteca, qualche notizia scarna e da verificare: circa 1.400 volumi, per lo più dispersi (arsi per ristorar operai ignari e rozzi in un freddo giorno d’inverno, sottratti e trafugati nelle tante peregrinazioni dei volumi, in minima parte giacenti nella Biblioteca Comunale)… Certo fa pensare che all’epoca di Quintino Sella (sacrifici, tasse scioperi, ma anche passaggio dalle 11 alle 10 ore di lavoro) e Bismark, in un’epoca in cui Cristo aspettava ancora la ferrovia per Eboli, Mormanno avesse una Biblioteca Popolare Circolante (vi fu successivamente anche un “Centro di Lettura” ma questa è altra storia…).

 

Di lettura in lettura e di suggestione in suggestione son partito da qui e finito nel Mali e nel suo pezzo di deserto… ho letto da qualche parte due frasi di Amadou Hampaté Ba (nacque nel 1900 a Bandiagara), "in Africa, quando un vecchio muore, è una biblioteca che brucia" e "Quando a Chinguettio a Timbuctù una biblioteca brucia o si disperde è la memoria di mille vecchi che scompare". Sotto le sabbie del deserto, nelle scuole coraniche, nelle moschee di argilla, tra le tende dei nomadi o anche nelle semplice case, anche queste di argilla, sono custoditi migliaia di manoscritti antichi, commentari medievali del Corano o testi di Ulema letti nei secoli da legioni di Taleban, una gigantesca enciclopedia antica che dalla linguistica, all’astronomia, alla fisica abbraccia mille discipline

(inevitabile un pensiero al “Manoscritto trovato a Saragoza” di Jan Potocki).

 

Uomini semplici e colti che tutt’oggi vivono distanti dal mondo presunto civile, depositari e custodi di un sapere millenario che ha radici nell'Università medievale di Sankoré a Timbuctù. Le Biblioteche del Deserto, è il nome con cui è noto questo patrimonio dell’umanità. Il fascino del Sahara, i libri, la sabbia che tutto copre, nasconde e protegge… i miei liberi pensieri, forzando il narrato, collegano arditamente questi due angoli calabro-africani del deserto globale. “Farenheit 451” ci ha ricordato (con gli operai del comune) come si distruggono i libri,

l’UNESCO vuole salvare (soprattutto dalla voracità delle termiti) il salvabile a Timbuctù…

 

E noi in tutto questo? Perché non pensare ad un utopico progetto di una nuova (e assolutamente non antica) Biblioteca Popolare Circolante Mormannese?

 

Magari nell’era di internet riaffermare il potere (e piacere) del cartaceo supporto per voli che da secoli l’uomo tenta di lasciare a chi verrà dopo.

 

Ed è così che pensando ad un impossibile gemellaggio ho immaginato per qualche istante Mormanno apparentata a Timbuctù, analogie note e meno note, forzate ma anche reali, metaforiche ma pertinenti, secondo la libera scelta di ognuno. A chi con la lettura è giunto fin qui, l’invito al piacere del cimento nell’esercizio di acrobazie intellettuali e nella serena valutazione di questo grande insegnamento che ancora una volta proviene dalla generosa e grande madre Africa.


[1] Un appunto riportato sul frontespizio recita così: “Libro primo de’ Battesimi di questa Parrocchiale Arcipretal Chiesa di Mormanno. Copia fedelmente estratta e con diligenza dall’originale, il quale essendosi corroso e quasi reso incapace a leggersi, affinché non mancassero le prime memorie e le più antiche di quante ne formassero gli Arcipreti fin da che forse si ordinò la formazione de’ Libri Parrocchiali, il R.do D. Francescantonio Perrone di Domenico, s’ha preso la cura e il fastidio di trascrivere, e coll’aiuto di alcuni zibaldoni e carte de’ suoi antenati venendo nel conoscimento di quelle persone, che appena possono leggersi nell’originale, ha formato il presente, restando tuttavia quello per autenticarsi all’occorrenza qualunque fede. Quale copia s’è fatta in quest’anno 1803 a petizione e preghiere dell’Ec. Curato R.do D. Francesco Maradei – Dall’anno 1547”.

[2] Relazione per la Causa beneficiale della Cappellania del Carmine e S. Anna, colli sacerdoti D. Giuseppe, D. Fran.co Antonio e D. Mosè Perrone nel 1776

[3] Serie de Familia Perrone ex parochialibus libris deduca – anno 1776

[4] Libro dei nati e battezzati anni 1600 – 1705 e Cronologia degli Arcipreti dal ‘500 redatta di mio pugno.

[5] Annotazione riportata di fianco l’atto di morte – Libro III de’ defunti anni 1764 – 1799 -

 

FARONOTIZIE.IT  - Anno I - n° 7Ottobre 2006

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