FARONOTIZIE.IT - Anno I - n° 7, Ottobre 2006
Questa pagina contiene solo
il testo di tutti gli articoli del n° 8/2006
Redazione
e amministrazione:
Scesa Porta Laino, n.33 87026 Mormanno (CS)
Tel. 0981 81819 Fax 0981 85700 reedazione@faronotizie.it
Testata
giornalistica registrata al Tribunale
di Castrovillari n°02/06 Registro Stampa (n.188/06 RVG) del 24 marzo 2006
Direttore responsabile Giorgio Rinaldi
IL PAESE DEI BALOCCHI, E DEI FESSI
di Giorgio Rinaldi
Non c’è
giorno senza essere allietati da qualche notizia paradossale o surreale .
In questo
giornale esiste –addirittura- una rubrica apposita –“Doctor Livingston J
suppose...”- il cui titolo rimanda, appunto, alla involontaria comicità della
scena che vedeva l’incontro tra gli unici due uomini bianchi presenti in quel
momento in tutta l’Africa equatoriale, Livingston e Stanley, i quali,
nientedimeno, dubitavano, con anglosassone ipocrita educazione!, l’uno
dell’identità dell’altro .
Il dramma è
che tali notizie ci vengono spacciate come di ovvia normalità, anziché come il
prodotto più emblematico della stupidità umana, quantomeno di una bella fetta
di umanità.
Prendiamo,
per esempio, il Giappone.
Grande
potenza economica, all’avanguardia nelle scoperte di tecnologia più avanzata e
sofisticata.
Ebbene,
questo Paese, in cui tutto è razionalizzato al massimo, va in paranoia al solo
pensiero che il divino erede al trono possa nascere femmina anzichè maschio, e
si blocca –letteralmente- nell’attesa di conoscere il responso, come sarebbe
accaduto mille anni fa ¡
Che dire,
poi, della Invincibile Armata che al comando degli americani ha invaso l’Iraq
per “portarvi la democrazia”?
Basti solo
considerare che due degli alleati più importanti,
E, la
storia della bambina bielorussa che la famiglia affidataria italiana ha
rifiutato di restituire? L’ambasciatore ha minacciato per ritorsione di
impedire a 25.000 bambini bisognosi di cure e del clima italiano di venire nel
nostro Paese, come se
In questa
situazione di vuoto celebrale, i furbi e gli inetti, come al solito allignano e
prosperano.
E tutto “gira al contrario”.
Fiere campionarie,
settoriali, generali etc.: produttori, commercianti, enti pubblici e privati vi
pubblicizzano prodotti, merci, servizi, e –ovviamente- sono li per venderveli.
Ci si
aspetterebbe che all’ingresso ti offrissero pranzo e assistenza, visto che sei
un loro potenziale cliente, cioè una persona che può contribuire al loro
personale arricchimento.
Invece no,
ti fanno pagare il biglietto per andare a vedere le cose che ti vogliono
vendere.
E’
incredibile ma è così, e la “gente” tranquillamente accetta il sopruso.
Hanno
inventato il “telepass”, il “bancomat” e altri strumenti che da un lato ti
semplificano la vita e dall’altro assicurano un grandissimo risparmio alle
aziende interessate.
Tu ragionevolmente
pensi che non solo ti dovrebbe essere fornito gratis, ma che ne fossero
obbligatoriamente dotate tutte le autovetture, visto il notevole risparmio in
costi di personale per l’esazione del pedaggio autostradale, nei costi di
custodia e trasferimento materiale di danaro, nei costi sanitari e ambientali dati
dal maggiore inquinamento etc. .
Invece no,
devi pagare un canone mensile per averlo!
Così, chi
gestisce le autostrade ci guadagna due volte, lo Stato in spese sanitarie ed
ambientali ci rimette dieci volte, e non si sa quante persone ne pagano in
salute.
Si potrebbe
continuare e continuare, ma lo spazio non lo consente.
Vale la
pena riportare solo un ultimo episodio che mi ha visto testimone.
L’altra
sera in stazione aspettavo un treno che doveva arrivare ad una tal ora sul tal
binario.
Qualche
minuto prima, su quello stesso binario arriva, dirottato dal capostazione, un
altro treno in ritardo. In assenza di informazioni audio e video, chiedo ad un
ferroviere, in evidente attesa del mio stesso treno, se avesse avuto delle
notizie più precise (anche i ferrovieri sono stati dotati di cellulare
aziendale).
Risposta:
“non si preoccupi, adesso parte questo treno e quello in arrivo prende il suo
posto”.
Passa
qualche secondo e l’altoparlante annuncia che il treno che aspettavo era in
arrivo su un binario diverso e molto distante dall’altro.
Fuggi fuggi
generale, vecchiette con diversi bagagli, che i facchini avevano scaricato sul marciapiedi, in lacrime; persone con problemi di non
perfetta deambulazione con il volto stravolto dalla rabbia e dallo sforzo.
Infine, qualche ritardatario che si era recato al naturale binario e, accortosi
della sostituzione, non aveva poi fatto a tempo a prendere quello giusto;
qualche altro, invece, non si era accorto del diverso treno sul binario e vi
era salito sopra partendo, così, per una destinazione opposta.
Solo chi
non ha mai preso un treno può pensare che questo sia solo un episodio
eccezionale.
Purtroppo,
è ordinaria realtà e, per quanto mi consti, nessun capostazione è stato mai
licenziato per manifesta e totale incapacità, oltre che per assoluta mancanza
di rispetto per l’utenza.
Allora, tu
ti chiedi: ma a tutela dei cittadini, e specialmente in situazioni di attività
esercitate in regime monopolistico, non sono stati inventati (certamente da
qualche buontempone, sicuramente disinteressato...!) e istituiti i Garanti
(antitrust, privacy, pubblicità, editoria, comunicazioni etc.) che, fra
l’altro, ci costano milioni e milioni di euro in stipendi, affitti, arredi,
colazioni di lavoro, autoblu etc.?
E’ vero, ma
sono tutti sempre impegnati in cerimonie, pranzi ufficiali, a presentare
costosissime quanto inutili pubblicazioni che mai nessuno leggerà e nel
proporre norme buone solo a complicare la vita ai comuni cittadini.
Per fortuna
viviamo nel Paese dei balocchi.
E siamo
tutti dei fessi.
Fino a
quando ?
di Ricardo Sangiovanni
In
Brasile, la fama dello stato di Bahia è dovuta, principalmente, alle
manifestazioni della cultura d’origine africana. Intanto, oltre gli “afoxè” e
il “candomblè”, altri gruppi cercano di mantenere viva la sua tradizione. Fra
“tamburi” ed “atabachi”, la cultura italiana è una tra quelle che sono vive: in
questo mese, ad esempio, si celebra l’Incontro Annunale della Famiglia Sarno,
che riunisce varie generazioni di discendenti dei primi italiani che sono
emigrati a Bahia, alla fine del secolo XIX ed inizio del secolo XX.
Da
una semplice riunione, il “pranzo”, pian piano, è diventato una tradizione.
Fino al 2004, era fatto nella casa d’una delle organizzatrici, Vera Sarno. Ma,
la progressiva crescita della famiglia ha obbligato le organizzatrici – Vera ed
Aurora – a traslocare l’evento in uno spazio più grande: questo sarà il secondo
anno che il pranzo si farà nella Casa D’Italia, spazio dedicato alla cultura
italiana a Salvador. Aurora Sarno fa i preparativi per una festa per circa 150
persone il prossimo 22 ottobre. Nel menu, tradizionali piatti italiani,
mischiati alle specialità della culinaria baiana. Tutto accompagnato da molto
vino e birra.
L’incontro
è fatto principalmente per mantenere unita
Camila
ha già perso il conto di quante volte è andata alla “riunione”. “Quando ero
piccola, a volte non volevo andare, ma la mia mamma mi obbligava. Io resistevo,
ma poi andavo. Ed alla fine era cosi sempre divertente”, ricorda. Camila
desidera un giorno di poter conoscere Mormanno, da dove è partito suo nonno,
Luigi Sarno. “Oltre al paesino e il bel panorama, mi piacerebbe tantissimo
conoscere di più la mia storia, sentirmi più vicino a mio nonno”, dice, con
nostalgia. Realizzare il desiderio, intanto, non è cosa molto facile: solo per
il biglietto d’aereo (andata e ritorno) da Salvador a Roma, si paga circa 750
euro. “Ma io ci andrò!”, dice piena di determinazione.
Il
nonno di Camila è arrivato in Brasile all’inizio del secolo XX. Era uno fra i 6
fratelli che sono venuti a seguito del pioniere Vincenzo Sarno, che è partito
da Mormanno per costruire la sua vita e la città di Poções, nell’interno dello
stato di Bahia. Qui hanno lavorato per molto tempo col commercio di alimenti
nel mercato della città. Il negozio s’è sviluppato ed ha iniziato l’attività nel
settore di vendita di materiali per la costruzione edile. Oggi è chiuso e non
c’è piú.
Negli
anni 20, tra mormannesi e trecchinesi, c’erano circa 120 italiani a Poções.
Oggi ne rimangono pochi, e le famiglie sono diffuse per lo Stato di Bahia, principalmente a Salvador.
L’informazione è di Eduardo Sarno. Eduardo ha una libreria,
Ho chiesto della
ricerca dei “Sarno” di maggior rilievo, Eduardo scherza: “Ogni Sarno è un
rilievo. Però colui di cui si parla di più è Corinto Sarno, che è stato una
figura benemerita nella città di Poções. A livello nazionale, il più conosciuto
é il regista di cinema Fidelis Geraldo Sarno.” E continua: “Il più sconosciuto
è un tale Eduardo Sarno, un critico acido ed ironico, che rimane seduto sulla
sua poltrona, aspettando l’arrivo della morte, scherzando di soggetti seri e
ridendo da solo”.
Attualmente,
Eduardo è coprotagonista, con chi scrive, d’una proficua discussione che tratta
politica, etica, estetica, ideologia e natura umana. La prossima tappa di
questo dibattito sarà il
LETTERA AL FIGLIO DI UN TERRONE
di Raffaele Miraglia
Ti ricordi?
Si
riconoscevano subito i sei terroni che
abitavano in quel paesotto veneto che sta sulle rive del Lemene.
Verso
le sei, sei e mezzo del pomeriggio si ritrovavano sul liston e iniziavano la loro passeggiata. I veneti non
passeggiavano. Si sedevano al bar a giocare a briscola e a bere un’ombra. I sei
terroni camminavano e parlavano fra
loro in campano, molisano, pugliese, lucano, calabrese e siciliano. Era l’unico
momento della giornata in cui potevano farlo. Anche in casa dovevano parlare in
italiano. Avevano sposato donne del nord. Uno perfino una jugoslava. I loro
figli diventavano presto trilingue. Parlavano, meglio dei loro amichetti,
l’italiano. Poi parlavano il veneto e poi, ancora, il dialetto che imparavano
in agosto, quando la famiglia si trasferiva al paese del papà.
Quel
viaggio estivo era per i bambini (e anche per le loro madri) un vero e proprio
viaggio all’estero. Per molti anni ci vollero due giorni per attraversare
l’Italia. Si partiva all’alba, su una seicento stipata di bagagli (poi la
seicento si tramutò in una millecento) e sul sedile posteriore un lenzuolo per
te e il tuo fratellino e degli asciugami attaccati ai finestrini per
proteggervi dal sole.
L’autostrada
esisteva solo in qualche tratto. Se facevi l’Adriatica, quasi in nessun tratto.
Il Po’ i primi tempi lo attraversavi su un traghetto e poi su un ponte di
barche dalle parti di Taglio di Po’. C’era la mitica salita di Ortona, dove
trovavi sempre un camion che rallentava a lungo il viaggio. La prima notte la
trascorrevi nelle Marche e la sera del giorno dopo finalmente arrivavi e
trovavi per cena qualcosa di leggero dopo il lungo viaggio. Di solito della
pastina in brodo con polpettine di carne.
Già
quella sera iniziavi a praticare un po’ l’altro dialetto, ma sarebbe stata la
mattina dopo, all’incontro con gli amichetti, che velocemente avresti cambiato
lingua e anche giochi.
Al
nord nessuno giocava con in mano un lungo ferro, arcuato in cima, per far
correre in equilibrio un cerchione di una ruota di bicicletta.
Sia
al nord che al sud esisteva nascondino, ma al sud si chiamava ‘a mucciarella e la prima volta avevi
chiesto che gioco fosse, prima di capire che lo conoscevi e lo conoscevi bene.
Al
nord giocavi agli indiani con archi, frecce e persino il copricapo di piume. Al
sud nessuno aveva archi e frecce.
Quando,
poco poco più grande, portasti giù il Monopoli,
diventasti il centro del mondo e tutti venivano a giocare davanti al
portone della casa di tuo nonno e si finiva per litigare perché al gioco non
c’era posto per tutti.
Poi
diventasti un po’ grandicello e tra i nove e i dieci anni scendevi dal paese
con una frotta di amichetti e arrivavi al Sinni a fare il bagno in una pozza.
Ti facevi chilometri in discesa e poi chilometri in salita e la sera andavi a
letto dopo Carosello, perché anche al sud era intanto arrivata
Ma
a quel punto le strade erano migliorate e il primo giorno ti eri fermato a
mangiare a San Benedetto del Tronto, in una trattoria scelta perché nel
parcheggio c’erano sempre dei camion fermi. E questo era un buon segno, anzi la
migliore pubblicità possibile. La notte avevi dormito a Vasto, dove c’era un
grattacielo, segno del progresso che stava arrivando. Stavano finendo gli anni
’60.
E
al ritorno al nord - ti eri appena trasferito in una cittadina sulle rive del
Noncello - avresti trovato grandi novità.
Davanti
alle scuole dei grandi c’erano degli studenti con i capelli lunghi che
distribuivano fogli di carta ciclostilati.
E
avresti visto migliaia di operai della Zanussi che camminavano insieme per la
strada e urlavano.
Tramontava
l’era dell’olio di fegato di merluzzo.
LUCANIA
di Francesco Arleo
(tratta dal sito della Gazzetta del Mezzogiorno)
Mia
madre non si chiede perché è nata qui,
noi siamo figli innervati di silenzio
mia madre non si chiede perché siamo scappati
noi siamo i dispersi:
laureati irraccomandabili
camerieri al Caffè Canova
cuochi di Holloway road
inquilini sotterranei
portieri di Milano
facchini di Boulevard Saint-Germain
stallieri nelle Pampas
puttanieri di via Collatina
locandieri di Buenos Aires
predatori gentili di Montecarlo
morti di fame a Caracas
siamo i tuoi figli
Lucania:
non sei verdi declivi, faggi o versi d'Orazio tu sei i tuoi dispersi.
3/6/2004
DUE MAESTRI ED UNA DECORAZIONE BAROCCA NELLA BASILICA DI SAN PETRONIO
di Camillo Tarozzi
La
costruzione della basilica di san Petronio ebbe momenti di stasi alternati
altri di grande fervore, nell'intento mai sopito di portare a termine un
progetto a quei tempi impensabile se non per una indomita cocciutaggine di una
classe dirigente saldamente legata ad una idea assai campanilistica del proprio
destino.
Persone
o famiglie, cariche o corporazioni cambiarono con il
tempo, ma non si spostò di un millimetro il gigantesco piano di una costruzione
tardogotica le cui forme appariranno sempre più sorpassate nel tempo e nella
moda dallo sviluppo della rappresentazione delle forme e delle architetture che
le contenevano.
Si
depositò nell'immenso cantiere, nel corso di un paio di secoli, gran parte del
fare artistico della più alta qualità ed attualità fra gli episodi di vita
artistica bolognese, uno sparso sedimento di molte fra le più importanti
manifestazioni degli spiriti creativi e delle capacità artigianali che
inseriscono nel disegno di un grandissimo architetto e manager,
Antonio di Vincenzo 1390, espressioni più significative
delle evoluzioni formali della decorazione nella nostra città.
Partiremo
da uno degli esempi fra i più tipici e
scombinati, che ci occuperà in più occasioni nel racconto di fasi decorative
distanti anni luce, nei termini della storia dell'arte, eppure uniti dai
consueti meccanismi di accettazione estetica che il grande pubblico, assai
prima che la critica, attribuisce a costruzioni di tale assurdità compositiva
ed insieme di così piacevole effetto decorativo.
La
cappella di Sant'Antonio è tipico per qualità ed ampiezza.
Costruita
entro la metà del quattrocento, essa fu dedicata al santo di Padova dalla famiglia
Saraceni, che provvide al suo decoro con sculture e pitture
a partire dal 1524/1526. Il ricco commerciante Giovanni Antonio di
Girolamo Saraceni affidò il primo incarico a Girolamo a Treviso che vi dipinse ad olio la parte bassa delle
pareti con miracoli della vita del santo e vi organizzò e disegnò l'intero
arredo, con sculture di marmo ed arenaria. Allo stesso tempo, maestri vetrai di
origine transalpina, ma sul disegno di
artisti bolognesi, costruirono la meravigliosa grande vetrata che ancor oggi
racchiude la finestra della cappella, inserendo nelle nicchie di pietra con
forma gotica un continuo di architetture e forme di ormai tardo rinascimento.
Degli
inizi di questa grande decorazione, con pittura di luce nella vetrata e di
monocromo ad olio nella muratura, parleremo nelle prossime occasioni,
ripercorrendo a ritroso il succedersi della stratificazione decorativa, a
partire dalla più recente.
Nel
1662 Fu quindi ordinata una nuova decorazione che doveva coprire le pareti fino
alla sommità della volta su commissione del nuovo patrono della cappella, il
marchese Alessandro Cospi. Ricco ed influente, egli avrebbe voluto affidare i
lavori ai migliori decoratori sul mercato in quel momento, Giuseppe Maria
Mitelli e Michelangelo Colonna, che avevano coperto con le loro fantasiose
invenzioni prospettiche tante pareti di palazzi e chiese bolognesi.
Ma
la loro partenza per
Con
questa impresa l'Alboresi conquista uno spazio da protagonista della
decorazione a Bologna, e lavorerà con Cignani e Franceschini all'enorme trompe l'oeil absidale dove San Petronio dedica
la città delle due torri alla Madonna.
I
due quadri a figura sono dipinti a fresco e tempera da Fulgenzio Mondini, un
artista che, se non avessimo certezze documentarie, figurerebbe forse fra gli
anonimi di buon livello che affollano la pittura seicentesca., raffigurano
L'abilità
costruttiva rivela la sicura qualità di un maestro, ben inseribile fra i
migliori della scuola del barocco bolognese, , affine ai più conosciuti
esponenti del periodo, come Pier Francesco Cittadini e Flaminio Torri. A
rivelare la figura dell'artista assegnandolo ad uno spazio non mediocre
contribuiscono le parole di Carlo Cesare Malvasia. A suo parere se non fosse
morto giovane 'nel principio del suo meraviglioso operare', quello che è da lui
considerato 'uno dei più bravi allievi che uscisse mai dalla numerosa schiera
del Barbieri,' - il Guercino- ' certo passava ogni altro de, suoi tempi in
figurare a fresco, mostrandovi una risoluzione e facilità che mai vidi di simile…'
La
maggior parte delle sue opere è andata distrutta, così i sopravvissuti dipinti murali della cappella
petroniana sono ancora più preziosi : 'scioltezza del ductus e verità del lume'
annunciano le realizzazioni di Lorenzo
Pasinelli mentre alcuni spunti ritrattistici ricordano ancora il giovane
Guercino (Roli).
UN’ESTATE... CON IL CUBANO
di Nicola Perrelli
A
settembre si riprendono i ritmi della vita abituale, che vuol dire lavoro,
ferrmento, affanno…
ll
caldo e l’abbraccio dei raggi solari,la vita all’aria aperta e le notti
stellate di agosto, l’allegria e i
fugaci incontri tipici della bella stagione,
sono ricordi già lontani. Alcuni
però ingialliscono più lentamente. Inconsapevolmente li teniamo in un
angolo della nostra memoria per poterne fruire al bisogno: quando affiora la
nostalgia. Scene quotidiane, gesti, ritualità e abitudini di amici che al
momento niente evocavano o stimolavano vengono ora illuminati da un’altra luce.
Penso allora all’amabile compagnia di un
amico , gaudente amatore del fumo di sigaro, un redivivo Churchill. Al suo
immancabile cubano che, ogni sera
dopo cena, in piazza diffondeva
nell’aria, sempre fresca di Mormanno e tra la compagnia, sempre uguale di anno
in anno, il profumo ed i sapori del fumo. Sono ricordi che lasciano una
fragranza e un odore soave a chi come me
ne apprezza gli aromi e ancora di più la sottostante filosofia di
vita. Anche se qualcuno dai tavoli sottovento lanciava messaggi di insofferenza con stizzosi colpi
di tosse.
E’
vero, il sigaro , come il buon vino, e’
nutrimento dello spirito. Comunica emozioni,predispone la mente ad un viaggio ricco di sensazioni e
di profumi, stimola il dialogo con se stessi. E’ la contrapposizione al ritmo troppo frenetico
della vita moderna, è l’ invito a vivere
una vita slow. Il sigaro richiede
tempo e lentezza. Fumare un puros è
un’arte, l’ultimo atto di un rituale che inizia con la scelta, con la perfetta
conservazione e umidificazione, che prosegue con il controllo della testa,
prima di tranciarla con il tagliasigari, e della tenuta della fascia, per
arrivare all’accensione,il momento più delicato, che è preferibile effettuarla
in un interno per poi eventualmente uscire con la brace ben viva . Una volta
acceso il sigaro va fumato intero in
modo che il fumo giunga al palato fresco e ossigenato. Per questo motivo i puffs,- i tiri del fumo- non si aspirano
, si degustano. Non a caso i suoi appassionati spesso sono anche amanti della
buona tavola,quella delle preparazioni fatte nel rispetto dei tempi naturali.
Due passioni che si accordano felicemente, che combinano gusto,conoscenza e
piacere. Chi apprezza il buon mangiare e bere non può non apprezzare il fumo
dei puros.
Un
sigaro cubano abbinato ad un ottimo
Armagnac d’annata è la degna chiusura di ogni
pasto, al quale conferisce una voluttà incomparabile soprattutto se il
menù è stato appetitoso. Accompagnare al fumo il giusto abbinamento è il modo
migliore per scoprire nuove sensazioni.
L’accoppiata
sigari-porto, è l’ abbinamento classico della cultura europea, sinonimo di
saper vivere e di unicità, un po’ come le ostriche della
Bretagna
con lo champagne o il caviale del
Davidov di San Pietroburgo con la vodka. Ma per un viaggio del palato tra i
sentori , gli aromi e i profumi di mondi lontani l’abbinamento per eccellenza è tra i puros cubani e il Rhum. Un connubio che
esalta ulteriormente la già forte personalità delle due parti in causa.
Che
immancabilmente rimanda alla calura
delle terre caraibiche, alle danze creole e a mari cristallini, teatro di
esotiche avventure. Altro che vizio!!
I
sigari cubani hanno sempre avuto ed hanno ancora grandissimi estimatori. Il
citato Churchill adorava i Romeo e Giulietta per il loro aroma unico, Che
Guevara prediligeva i Montecristo per il
loro gusto , Fidel Castro si dice invece
preferisca i Cohiba, questi sigari
antichissimi ottenuti arrotolando una
sola foglia di tabacco.
Di
fronte a queste leggende popolari che hanno mitizzato il fenomeno si è creata
una vera e propria moda.
Possedere
oggi una scatola di Cohiba originali e poterli offrire agli amici o ad un
party, viene ritenuto un segno di differenziazione . Uno status symbol che colloca in una determinata posizione della
stratificazione sociale. Sicuramente in quella che può dedicare tempo ad
occupazioni e rituali impudentemente non
produttivi. E i rituali ,com’è noto, hanno lo scopo di creare e
mantenere,proprio tramite la formazione di status,
le gerarchie nella società. La vita sociale del resto abbonda di rituali che
spesso non ci rendiamo conto di compiere. Da quelli più semplici,come salutarsi
o prendere un caffé al bar in compagnia , a quelli più complessi dell’amore
piuttosto che delle liturgie collettive.
Anche fumare il sigaro, specie quello
costoso , diventa cosi un’attività nella quale ciò che appare produce effetti
di gran lunga più importanti dell’azione in se stessa.
Per
i veri fumatori,comunque,senza sminuire il valore di quest’ultime brevi
considerazioni di taglio sociologico, fumare il sigaro, anzi il cubano, è semplicemente puro
piacere.
ZAN GOGH
di Francesco M. T. Tarantino
E quale
premio dovrebbero darti?
Oltre il
danno la beffa senza grazie
Ora dimmi
come posso raccontarti
Senza
parlare delle tue disgrazie ?
Avevi la
casa un clarino e due sorelle
Suonavi una
musica di note celesti
Incomprensibile
a molti sotto le stelle
E di chi
non capiva finalmente ridesti
Eri bello
con la cravatta e il tuo clarino
Anch’io
guardavo con i tuoi occhiali
Un mondo
illudente che appariva vicino
Invece era
ostile nei suoi modi banali
Nascondevi
fra giaculatorie e preghiera
Un amore
proibito in odor di sacrestia
Nei tuoi
gesti rituali e gli sguardi di sera
Confessati
al mattino di ogni eucarestia
Rimanesti
solo con un amore inconfessato
Per un’illusione
e un piatto d’indulgenza
Un
testamento sul tuo clarino e l’abitato
Per
salvarti l’anima e quietare la coscienza
Han venduto
la casa per soldi in “suffragio”
E il tuo
clarino che ha respirato le tue pene
Non è al
museo di via Rossi:sarebbe oltraggio
Nei musei
si espone solo quel che conviene
Resta la
promessa di un paradiso guadagnato
Senza fiori
ma con tante messe e benedizioni
Per essere
al più presto dal purgatorio liberato
Al suono luccicante dei tanti troppi milioni…
* Francesco M. T. Tarantino ha di recente
pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “Cose Mie”, MEF - L’Autore Libri Firenze.
STORIE DEI PRIMI EMIGRANTI TRA
di
Piccola storia di
un’avventura argentina
Il cugino
Francesco aveva costruito una casetta ad
un piano.
Al posto
del tetto una terrazza che d’inverno trasformava le sottostanti stanze in un
frigorifero e d’estate in un forno crematorio.
Alla prima
notte insonne e tormentata ne seguirono altre.
Nel rione
vi era un capataz che per un compenso
sul futuro lavoro pari al due per cento della paga e per la durata di un anno,
fece occupare i due nostri nella costruzione di una ferrovia che portava da
Buenos Aires a Cordoba.
Cominciò
così l’avventura argentina. Dovettero lasciare casa cittadina e adattarsi a
vivere nei cantieri di lavoro. Furono 10 anni di sacrifici e sofferenze. Appena
realizzato un buon gruzzoletto ritornarono nella metropoli e, acquistando un
terreno, vi costruirono una casa. Nello
stesso quartiere risiedeva da poco una famiglia siciliana. I nostri dopo un
anno erano sposi di due sorelle. Aprirono due negozi: Antonio un genere
alimentare e Nicola una peluqueria.
Antonio ed
Antonia non ebbero figli. Nicola e Maria ne ebbero tre. L’ultima, andando a
lavorare cadde sotto un collettivo e
morì a 18 anni per trauma cranico. Il secondo ebbe problemi alla vista e dopo
pochi anni di lavoro con il padre dovette smettere perchè divenuto cieco. La
terza sposò un altro corregionale e fu donna di casa. Ebbe un figlio che
arrivato a trent’anni emigrò negli Usa lasciando una madre sessantenne ed un
padre settantenne in un paese che travagliato da lotte, guerre, rivoluzioni e
instabilità non assicurò più una vecchiaia
felice. La famiglia si estinse poi alla fine degli anni trenta con il desiderio
di Mormanno.
Piccola storia di un’avventura spagnola.
Luigi
Apollaro fu Biase e Maria Maddalena Nunziata Sangiovanni, sposi nel 10
settembre 1848, ebbero otto figli. Tra essi Giuseppe, calzolaio, nato il 1855 e
Carmine, calderaio nel 1865 decisero, dato il mestiere che praticavano, di far
fortuna a Nova Yorca (New York). Giuseppe, già sposato, prese la
moglie,
Mariangela e due figlie (ne ebbe in seguito altri
cinque) e insieme a Carmine, raggiunta Napoli e poi Genova iniziarono la loro
avventura.
Ma il
destino giocò loro un tiro mancino. A Barcellona Mariangela si ammalò tanto
gravemente da essere costretta a sospendere il viaggio proseguito dal solo
Carmine.
Giuseppe,
con la moglie e le due figlie, si trovò di punto in bianco nella Spagna.
Non potendo vivere a Barcellona si diresse in provincia e trovò
lavoro a Sabadell. Qui aprì dapprima una calzoleria. Accortosi che il mestiere
non tirava, cominciò a fare l’ambulante di chincaglierie passeggiando con un
asino e un carrettino tra Tarrasa, Olesa
e altri paesini. Intanto ebbe altri
cinque figli tra cui due maschi uno dei quali morì di appena un anno. Fu
raggiunto anche da usa delle sue sorelle rimaste a Mormanno. Un’altra famiglia
e altre cinque bocche da sfamare! Quando qualche tintinnante quattrino cominciò
ad appesantire le sue tasche, si stabilì a Tarrasa aprendo quella che oggi si
dice una mesticheria e privilegiando tutti gli oggetti in rame che, memore del
mestiere del fratello, cominciò costruire con successo. Erano mestoli, secchi, forme per dolci,
lanterne ad olio, casseruole, coperchi, bracieri e tanti altri piccoli oggetti di uso domestico. Il Negozio che vediamo si trovava in Calle
Cremat Sei dei suoi figli restarono in
Catalogna: l’ultima, per uno strano gioco del destino, ritornò a Mormanno,
Quivi si sposò mettendo al mondo sei figli.
Carmine raggiunse l’America. Non
migliorò le sue condizioni economiche e dopo una diecina d’anni ritornò a
Mormanno ove aprì famiglia continuando quel lavoro cha sapeva fare. Visse fino
al 1942 attraversando un periodo di grave crisi economica che iniziata durante
e dopo la prima guerra mondiale si protrasse fino alle soglie della seconda.
Piccola storia di
un’avventura brasiliana
Giuseppe Paternostro, calzolaio,
nato 1849, si trasferisce in primis a S.
Domenica Talao. Rimasto vedovo con tre figli, si risposa e ha ancora tre.
Sbarca nel
La seconda ondata
migratoria
Prima dello scoppio della prima guerra mondiale vi
fu una seconda ondata migratoria. Questa volta si tentò la carta dell’America
del Nord. La meta preferita fu New York e qualche cittadina del Connecticut
come Hartford.
Dopo la buriana e dopo la vittoria
le cose non miglioravano. La borghesia italiana cominciava a guardare con
favore il sorgente fascismo mentre si moltiplicavano le azioni squadriste
contro le organizzazioni dei lavoratori, le cooperative e le sedi dei partiti,
specialmente di quello socialista.
Nel 1921 vennero condannati a morte,
accusati con prove inconsistenti di rapina e omicidio, Bartolomeo Sacco e
Nicola Vanzetti e subito dopo venne varata una legge che vietò l’immigrazione.
Nel 1924 gli Usa rimarcano con la
legge Huges tale divieto che previde una
chiusura per i giapponesi e ulteriori misure restrittive per le provenienze
europee.
Quando gli USA vennero colpiti dalla
Grande Depressione che raggiunse, al suo punto più basso, bel 15 milioni
di disoccupati con un potere d’acquisto dei salari ridotto del 40% rispetto al 1929, molti mormannesi, attratti
dalla propaganda del regime che tendeva a dimostrare una stabilità ed una
economia in crescita, abbandonarono gli States
e ritornarono al paesello, sfoggiando catene ed orologi d’oro. Qualcuno portò
anche un grammofono a tromba e dischi di vinile contenenti le note di una
musica strana, dalle strane parole, a volte tutte in slang, che nessuno
conosceva e che mal si legavano con le
polchette, le nostrane
tarantelle e qualche valzer. Erano
foxt-trott, swing, slow mai sentiti. Gli americani li ballavano sgraziatamente agitando
vistosamente le braccia e
ancheggiando. Questi nuovi ricchi,
dopo aver ristrutturata la casa paterna, depositarono alla posta tutti i sudati
risparmi per vivere felicemente di rendita. La cosa durò fino alle soglie della
seconda guerra mondiale quando la galoppante inflazione spazzò via tutti i
sogni riducendoli nella più squallida
miseria aggravata dalla sopraggiunta vecchiaia. Ricordo qualcuno di loro che
pur di sbarcare il lunario portava gli asini dei contadini che venivano a vendere
la verdura e la frutta nel suo magazzino divenuto stalla oppure dispensava e
poi a mezzogiorno raccoglieva le bilance che il daziario gli forniva ricevendo in cambio avanzi di mercato.
Sorte
migliore non sarebbe toccata alla gioventù italiana del littorio. Il
regime pensò bene di mandare a morire i
poveri verso le assolate terre dell’Africa Orientale ove bastava allungare lo stivale per trovare il
nuovo eldorado.
Addis
Abeba era un villaggio di capanne di paglia sotto la guida di Hayla Sellase che
memore delle riforme di Menelich, si faceva chiamare negus neghesti come gli
antichi re dei re di babilonica memoria.
L’unica strada che collegava Gibuti alla capitale, costruita peraltro dai francesi, ormai era vecchia e al limite della praticabilità. Il Paese aveva vari usi e costumi. Il pane era di taff, la polenta di bultuc, una specie di panico sgusciato e ridotto in farina. Al posto dei berretti aquilsigniti, si usava il barbuse. Si pregava in copto-monofisita, e s’incontravano anche pagani, maghi, stregoni ed ebrei.
Quest’ultimi
poi svuotarono anche l’Italia e
Cytron
Samuel, e Bruno Altermberg, tutti “confinati”. Wirt visitò e curò tutti i
bambini di Mormanno nati tra il 1939 e il 1943. Muni, correva come una
saetta,
al letto degli ammalati a qualsiasi ora del giorno e della notte, Altemberg,
che conosceva e parlava sette lingue, insegnò da Sarubbi. Tra essi vi furono
anche gli oppositori del regime. Il romagnolo Uguzzoni divenne poi Sindaco.
Cosa
succedeva in quegli anni ai mormannesi residenti?
Già
ai primi del secolo troviamo un’ imprenditoria locale che fin dal 1885 aveva
fornito, prima di Napoli, l’energia elettrica. Tra gli altri servizi ricordo
l’agibilità, a partire dal 1890, della strada Mormanno-Scalea, la costruzione
dell’acquedotto comunale fin dal 1886.
Nonostante
queste premesse non vi fu un forte risveglio economico. Prevalse il tornaconto
personale immediato e il disinteresse per migliorare le condizioni sociali.
Alla classe dirigente conveniva mantenere lo stato dei privilegi che
sottintendevano anche una dipendenza psicologica.
Neppure
la chiesa riuscì a dare uno scossone. Bisognò aspettare fino al 1916 per avere
una Cassa Rurale Cattolica nata per opera di don Francesco Sarubbi. La politica
italiana con il potere che passava da Giolitti a Sonnino, il terremoto di
Messina, 1908, la guerra libica, 1911, fu ben lontana dalla vita delle piccole
comunità. Qui arrivava l’eco degli avvenimenti. Nel 1912 l’estensione del
diritto di voto ai cittadini maschi che avevano compiuto i 21 anni ed erano
alfabetizzati, promosse la creazione, a partire dal 1914, della direzione
didattica e dell’istituzione di una scuola elementare a Procitta.
La
società aveva assunto questo aspetto: accanto ai pochi impiegati comunali tra
cui si contavano quattro insegnanti, ai pochi commercianti e imprenditori,
viveva una popolazione fatta da contadini, operai, braccianti, calzolai,
falegnami, segantini, sarti. Chi poteva contare in qualche modo su di una certa
sicurezza erano i contadini in proprio, piccoli proprietari, e chi offriva
servizi come sarti, barbieri, falegnami, calzolai i quali più che guadagni
manipolavano solo qualche lira accontentandosi di prodotti della terra a cambio
dei servizi. Queste erano le categorie che avevano dato vita all’emigrazioni
all’estero. Ma una della caratteristiche più importanti della fragile economia
paesana era quella migrazione interna operata specialmente dai segantini, veri
operai specializzati, che
raggiungevano
zone lontane come il Cilento o la Sila, passandovi la maggior parte dei mesi
invernali. Essi rientravano a Mormanno per i Santi Pietro e Paolo, fine di giugno, restandovi circa un mese
immettendo sul
mercato
moneta fresca che dava lavoro agli artigiani e soprattutto ai muratori
impegnanti a costruire o rifare le loro case. Questa presenza estiva si notava
poi nelle nascite primaverili. Marzo o aprile erano i mesi in cui si sentivano
pianti di bambini e si vedevano ceste di panni da lavare al fiume.
Un
altro fenomeno di migrazione stagionale era dato dalla raccolta delle olive e
dalla mietitura. Tra novembre e dicembre
si spostavano compagnie di donne guidate da caporali verso le pianure di
Sibari e Cassano, mentre tra giugno e luglio sugli stessi luoghi sudavano i
mietitori.
Lo
scoppio della prima guerra mondiale, alla quale la comunità mormannese diede un
notevole contributo di sangue, 116 caduti, lasciò dolori e ferite difficilmente
rimarginabili. Tra il 1926 e il 1928 fu sindaco Giuseppe Cornacchia, ex
colonnello in congedo che ebbe come sola preoccupazione quella di guardare a
quell’ordine e legalità apparente più che calarsi, e non lo poteva fare, nella
realtà cittadina. Ai suoi tempi si
costruì la ferrovia e si erse il Faro votivo. Questi avvenimenti portarono a
Mormanno maestranze nuove, minatori, falegnami, carpentieri che rimpinguavano
l’economia locale affollando anche numerose le cantine alcune delle quali facevano le funzioni di
veri e propri ristoranti. Dal 1929 al 1937 la carica di primo cittadino passò
all’avv. Giuseppe Rossi. In questo periodo, con inizio dal 1935, funzionò la
miniera delle pietre ferrigne,
estrazione del manganese, in località Milìscio. Fu il primo esempio di lavoro
organizzato per merito dei dirigenti tutti ingegneri. Tra essi ricordo il
mormannese Pierino
Fiorì
anche un ginestrificio per la produzione di fibre tessili sulle cui rovine
sorse poi il Pastificio D’Alessandro. Nel 1938 fu Sindaco l’avv. Gustavo
Ricordo
solo sabati fascisti, commemorazioni del 4 novembre, parate varie, segretari
politici che scendevano sorridenti, lucidi e ammiccanti, le scale della casa
del fascio che sembravano trasformarsi in quelle
percorse
dalla Wandissima, che agitando pennacchi
e stole, cantava ti parlerò d’amor! Al popolo toccavano ancora i soliti calci nel
c..!
(continua)
LIQUIRIZIA. ORO NERO DI CALABRIA
A Rossano, il Museo della liquirizia
“Giorgio Amarelli”
di Paola Saraceno
A Rossano Calabro, in provincia di Cosenza, il
museo della liquirizia “Giorgio Amarelli” continua ad attrarre annualmente
oltre 40.000 visitatori.
Un museo di una blasonata azienda
situato all'interno di un edificio che era il centro degli interessi agricoli
della famiglia, ma soprattutto un museo del territorio che vuole raccontare,
attraverso la liquirizia, la storia economica della Calabria. Da quel prodotto
misero, quasi di scarto della terra, si inventò nella prima metà del ‘700 un’
industria destinata a diventare una delle industrie tradizionali più fiorenti
della regione.
La liquirizia è un prodotto
antichissimo, già citato negli antichi trattati di medicina indiana, greca e di
altre civiltà. Cresce in una fascia di latitudine che va dalla Spagna fino alla
Cina. La migliore è quella che nasce in Calabria, definita dall'Enciclopedia
britannica come la liquirizia cru,
con la migliore qualità a livello mondiale.
La liquirizia pura di origine calabrese
è particolarmente equilibrata nel gusto dolce-amaro per cui può essere
utilizzata senza additivi o altre sostanze edulcoranti, mentre la liquirizia
prodotta in Cina, Pakistan, India, Turchia è molto amara.
Tale primato qualitativo ha fatto
sviluppare in Calabria l'industria della liquirizia. Consumata prima come
bastoncini naturali tratti dalla radice, intorno al 1700 si è incominciato a
pensare di trasformarla in una protoindustria, prima ancora della rivoluzione
industriale, per trarre dalla radice un succo, poi concentrato in liquirizia
nera, brillante e profumata, capace oggi di raggiungere i mercati
internazionali
Al 1731 risale l'origine del concio Amarelli, azienda
testimone di una antica tradizione produttiva, rappresentata nel Settecento da
molte realtà artigianali evolutesi in senso industriale nel secolo successivo.
Delle cinque fabbriche di liquirizia di
dimensione industriale esistenti in Calabria e Abruzzo alla fine del XIX secolo
– affiancate da una moltitudine di realtà artigianali – capaci di produrre
annualmente 5.000 quintali di succo di liquirizia e di dare occupazione a circa
300 persone, Amarelli è oggi l'unica ancora attiva.
Il Museo della liquirizia Giorgio
Amarelli ha aperto i battenti nel 2001, dopo circa un decennio di meticoloso
lavoro di selezione documentaria e di progettazione. Subito insignito del
Premio Guggenheim Il Sole 24 ore alla migliore azienda debuttante
nell'investimento culturale, in soli cinque anni di attività il Museo è
divenuto punto di riferimento per il turismo e per l'identità locale. Modello
virtuoso di valorizzazione della cultura d'impresa e di una tradizione
produttiva, fiore all'occhiello e veicolo d'immagine per l'azienda che ne ha
promosso l'allestimento e che ne è proprietaria.
Nel museo è contenuta la storia del
prodotto e della famiglia, attraverso mezzi di trasporto, mobilia,
abiti, documenti familiari e d'impresa ottocenteschi, attrezzi agricoli e
oggetti d'uso quotidiano. Iconografia storica e strumenti tradizionali relativi
alla produzione della liquirizia. Una
suggestiva ricostruzione di un ufficio di spedizione e di un punto vendita del
secolo di Napoleone concludono il percorso museale.
PELLEGRINO SUL CAMINO REAL DI SANTIAGO
di Antonio Penzo
Il
richiamo è stato forte e sono riuscito a trovare chi mi accompagnava nel percorso
a Santiago di Compostela a piedi e con la zaino in spalla. Nonostante la
preparazione di un paio di mesi su e giù per le colline bolognesi, in
autovettura ci siamo recati a Sarria, prima tappa dell’ultimo tratto di circa
La
salita al monastero è percorsa rapidamente e scendiamo lungo il cimitero per
raggiungere un ruscello sul quale si erge un primo caratteristico ponte in
muratura, poi il sentiero s’inoltra fra campi e boschi, costeggia la linea
ferroviaria e sale una collina boscosa. Il piano del sentiero è in terra e
quindi ci sentiamo tranquilli. L’incontro con altri pellegrini è gioioso, con
scambi di saluti e quando s’incontrano degli italiani, anche di brevi notizie.
Il tempo è splendido anche se non molto caldo. Molti pellegrini di gamba più
veloce ci sorpassano, ma ciò non ci crea alcun problema, poiché dobbiamo
imparare a misurare le nostre forze. Ognuno ha il suo passo e quindi si viaggia
in solitudine e questo è bene. Ogni tanto ci si riunisce, pur camminando in
continuazione.
Lungo
il percorso veniamo raggiunti da una ragazza italiana, con la quale inizia una
conversazione. Ci racconta che la seconda volta che compie il percorso fin da
Roncisvalle e che è di Perugia. Da questa città raggiunge spesso Assisi a
piedi. Inizia una lunga discussione, accompagnandoci nel cammino. Nei posti di
ristoro ci fermiamo solo per bere qualcosa o porre il “sello” (sigillo o
timbro) sulla credenziale. Al cippo che indica km 100 da Santiago si fa la foto
e via. Il caldo si fa sentire e il percorso diventa su sentiero o strada
asfaltata, che taglia un po’ le gambe.
Non
ci fermiamo a mangiare, rinviando il tutto a quando raggiungeremo Portomarin.
La fatica inizia a farsi sentire e notiamo la mancanza di fontanelle, anche se
si attraversano degli agglomerati di case che dovrebbero essere collegate con
un acquedotto.
L’acqua
e la frutta portata negli zaini ci ristorano un po’. L’ultima parte del percorso
è su di un altopiano riarso.
Con
fatica, alla spicciolata, giungiamo in
vista della meta. Con sorpresa notiamo che il lago non c’è, poiché
svuotato. La discesa al paese è lunga e faticosa, in quanto su strada asfaltata
e al sole. Un albero ci permette di sorseggiare l’ultima acqua dalla boraccia
all’ombra, poi l’attraversamento del ponte e la scalinata alla chiesina di S.
Nicola tagliano definitivamente le gambe.
Dalla
“perugina” si è apprende che alcuni pellegrini sono in ritardo, affaticati e un
po’ malandati. In paese si notano un ambulatorio medico, con coda di pellegrini
in attesa ed un servizio di massaggi, che a detta di chi lo ha sperimentato
rimette in sesto.
Dopo
la doccia di rito ed un breve pisolino in albergo, si scende in piazza a
familiarizzare con i vari pellegrini. Cerotti, fasciature, ginocchiere e
cavigliere abbondano e comunque spesso la camminata è claudicante. Questa prima
giornata di molti pellegrini ha lasciato un profondo segno. Ma la felicità di
essere riusciti a compiere la prima tappa è manifesta sul volto di tutti.
Sulla
porta di un ristorante, incontriamo una signora spagnola che parla italiano e
che ci narra che sta compiendo il viaggio da Roncisvalle. E’ molto informata
del Camino e ci dà informazioni per il giorno dopo. Occhi e capelli neri con un
bel sorriso, gonnellino minigonna e due cosce sode attirano l’attenzione; ci
racconta che da oggi il figlio di sette anni ha iniziato il percorso con lei da
Samos per raggiungere Santiago.
Alle
venti entriamo nel ristorante, e siamo i primi, stante la consuetudine degli
spagnoli di cenare dopo le ventuno. Ci sediamo e ordiniamo il pasto del
pellegrino: caldo gallego, bacalao e verdura. Una bottiglia di vino bianco è più che
sufficiente per il tavolo. L’acqua gasata si trova solo in bottigliette da cc
33, mentre quella sin gas è anche in
bottiglie da un litro. Il caldo gallego
è una zuppa calda di fagioli, patate ed altre verdure con foglie di cavolo ed
insaporita da qualche pezzo di carne di maiale. Ottima per ritemprarci dalla
fatica e prepararci al sonno. Il bacalao
è uno squisito pesce fresco, molto spesso e cotto alla perfezione. La verdura è
mista, fresca ed invitante.
Penso
che il pellegrino, nonostante il peso dello zaino, poi la sera non se la passa
male, a mangiare. Il problema sorge per coloro che dormono in camerata se c’è
qualcuno che russa. Di tappe ce ne sono altre quattro per arrivare a Santiago e
ritirare la mitica “compostela” e
potersi adornare della conchiglia pellegrina, e il non dormire non giova certo
al giorno successivo.
VIAGGIO ALLE ORIGINI: PERRONE
di
Francesco Regina
Dopo
la prima uscita dedicata alla famiglia che ci diede il cognome, ci occuperemo
in questa sezione di quella che dicesi essere stata la prima famiglia di
Mormanno.
L’omonimo
palazzo coincideva con le prime abitazioni edificate a ridosso del Castrum, ovvero sia nel luogo che veniva
indicato come Barbacane.
Nonostante
le modifiche apportate nel corso dei secoli abbiano inevitabilmente modificato
l’aspetto propriamente originario, nel suo insieme esso palazzo appare ancor
oggi ai nostri occhi un complesso continuo ed omogeneo.
Secondo
una diceria popolare, peraltro abbastanza accreditata, nel palazzo Perrone
trovavasi un cunicolo stretto che sbucava a valle della Costa – lato ovest –
conducendo verso località Minnàrra,
che costituiva com’è ovvio pensare, una via di fuga alternativa e sicura.
Messer
Pomponio Perrone
figlio del nobile Aurelio, nato il 26.02.1555, è il primo familiare che compare regolarmente registrato nel libro
I dei battesimi.[1]
Una
serie di sodalizi d’interesse con le famiglie che contavano nei territori
limitrofi, suggellati con il matrimonio dei primogeniti, nonché l’ascesa al sacerdozio
da parte secondogeniti, garantirono negli anni l’accrescimento del patrimonio e
la continuità del predominio sul territorio.
Da
un documento certamente di primissima mano, apprendiamo che già nel ‘700 le famiglie di Perrone siano in numero di case
distinte 64[2].
Ad
esso documento, vi è allegato un albero genealogico[3]
in cui compaiono nomi quali Antonaccio, Marc’Antonio, Cesare, Marcello ecc., e che lascia palesemente
intendere la derivazione dal tale Perro
de Perronis.
Perro è un vocabolo spagnolo che significa
cane. Ipotesi: alla stregua di quanto
riportato in precedenza, non è assurdo supporre un nesso con il Barbacane.
Nel
seicento troviamo arciprete di Santa Maria del Colle il Reverendo don Luca Giovanni Perrone figlio di Perro ( divenuto poi Perno), nato il 9 maggio 1557, subentrato al defunto
don Savoya Grisolia passato a miglior
vita nell’anno 1594[4].
Nel
settecento fu un altro Perrone a reggere le redini della parrocchia, Don
Isidoro Perrone iunior (1711
+ 1786) uomo di sacra dottrina ed insigne arciprete [5]
Costui
era però della Gens Flavia, usando
una dicitura dell’antica Roma, avente per stipite Flavio Perrone, nome che sarà molto ricorrente nelle successive
generazioni.
Don
Isidoro Perrone senior, della medesima famiglia, (1629 + 1706) fu valente
cantore e buon poeta.
Potremmo
continuare a lungo nelle enumerazioni; ma la tirannia dello spazio ed il
rischio di incappare nella pedanteria e nella ridondanza ce lo vietano,
rimandiamo quindi i visitatori del sito interessati ai nostri archivi per
notizie particolareggiate ed approfondimenti ulteriori.
IL
MUSEO REGIONALE DELL’EMIGRAZIONE “PIETRO CONTI”
DI GUALDO TADINO
di
Ferdinando Paternostro
Il Museo dell’Emigrazione
di Gualdo Tadino nasce dalla volontà di evocare e sottolineare il patrimonio
storico, culturale ed umano legato al grande esodo migratorio che coinvolse
l’Italia a partire dalla fine dell’Ottocento, riguardando più di 27 milioni di
persone. Centinaia di documenti, immagini e racconti provenienti da tutte le
regioni d’Italia sono custoditi nella sede museale, tutti insieme a raccontare
un’unica grande storia: gli addii, l’incontro e lo scontro con il paese
straniero, la nostalgia, le gioie e i dolori quotidiani, l’integrazione nella
nuova realtà, le sconfitte e le vittorie, il confronto e la riflessione con
l’immigrazione di oggi. Un viaggio corale che ha per protagonista l’emigrante.
Realizzato
con la coinvolgente tecnica delle proiezioni video, possiede in esclusiva tutto il materiale
documentario della Rai Teche e della Radio Televisione della Svizzera Italiana
riguardante l’emigrazione all’estero, costituito da filmati, servizi
giornalistici, film e documentari.
Il Museo,
ospitato nella splendida sede del Palazzo del Podestà e Torre civica coinvolge il visitatore in un emozionante
percorso a ritroso, l’arrivo degli emigranti all’estero, l’aggregazione, la vita
comunitaria, il cibo, la religione, l’occupazione, con particolare riguardo alla ricostruzione della
vita lavorativa nelle miniere di ferro e carbone. Al secondo piano l’avventura
del viaggio, rare e commoventi immagini di traversate
transoceaniche, monitor che emergono da vecchie valige di cartone e antichi
bauli, campane del suono che raccontano preziose testimonianze di viaggi ardui
e perigliosi a bordo di lenti e stracolmi bastimenti. Ed,infine, il terzo piano
dedicato alla partenza, ai motivi
che spinsero milioni di italiani a tentare la via dell’emigrazione verso terre
straniere, in paesi ospitanti ma non sempre ospitali, le difficoltà
dell’integrazione.
Alla Dott.ssa Catia Monacelli, Direttore del Museo Regionale
dell’Emigrazione, che ringraziamo per la sua cortese disponibilità, abbiamo
chiesto quale sia lo scopo del Cento studi
del Museo?
Il Museo dell’Emigrazione “Pietro
Conti” è un Centro di ricerca permanente, pubblica ogni anno i volumi della
collana “I quaderni del Museo dell’Emigrazione”, ha una ricca biblioteca che
raccoglie testi e ricerche sull’argomento, ha un archivio fotografico e
documentario in continuo aggiornamento, una nastroteca ed un’esclusiva
videoteca di riferimento nazionale. Un aggiornato sito internet che è stato
inserito sul portale del governo http://www.gov.it
, come esempio di collegamento e rappresentatività per gli italiani all’estero.
L’istituzione collabora con tutti i
centri studi che si occupano di migrazioni che si trovano nel mondo, appoggiata
dal Ministero Italiani nel Mondo è anche al centro dei rapporti culturali ed
istituzionali con i vari consolati italiani all’estero e con le comunità e le
associazioni italiane.
Brasile, Canada, Argentina,
Australia, Pennsylvania, Francia, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, Germania, sono
stati i paesi che hanno accolto ed ospitato conferenze e presentazione dei
volumi del Museo.
Quali sono le
principali attività che il museo svolge?
Si tratta di un Museo “vivo” e
“polifunzionale”, non solo contenitore e custode della memoria
dell’emigrazione, ma anche luogo deputato allo svolgimento del laboratorio
didattico per le scuole di ogni ordine e grado. Il laboratorio didattico del
Museo dell’Emigrazione si caratterizza anche come centro di ricerca e di
sperimentazione metodologica. Le attività ch’esso propone rappresentano
l’applicazione di uno specifico modello formativo, che contraddistingue il
laboratorio e lo rende riconoscibile nel dibattito nazionale sulla didattica
della storia. Per laboratorio si intende una modalità di fare storia basata
sull’uso dei documenti e finalizzata a coinvolgere gli studenti in un processo
di costruzione delle conoscenze e delle competenze storiografiche.
Il museo sta
promuovendo un importante Concorso Nazionale, ce ne può parlare?
Il Centro studi ha bandito un
importante Concorso Nazionale dal titolo “Memorie Migranti”, per la migliore
testimonianza video sul tema dell’emigrazione italiana all’estero, con
particolare riferimento alla propria regione e realtà territoriale. Lo scopo
dell’iniziativa è quello di stimolare il recupero e la sensibilizzazione della
memoria storica giovanile sul tema dell’emigrazione italiana nel mondo dalla
fine dell’Ottocento ai nostri giorni, nonché favorire un’attività di ricerca e
di studio sugli aspetti storici, sociali ed economici legati al fenomeno. Il concorso
prevede cinque categorie: scuole elementari, scuole medie inferiori, scuole
medie superiori, centri territoriali per adulti, università, master post
laurea, scuole di cinema, giornalismo, televisione e video.
Per scaricare il bando completo del
concorso è possibile collegarsi al sito http://www.emigrazione.it
FARONOTIZIE.IT
Anno I - n° 7
Ottobre 2006
ANDAR PER ISOLE: PAXOS
di
Francesco Aronne
Le vibrazioni dei motori trasmesse alla massa
d’acciaio del Vivì che da Igoumenitsa ti porta stancamente a Paxos cullano i
pensieri che spaziano in territori inusuali. Un moto, che dopo la traversata
notturna dello Ionio, risulta dolcemente ozioso ed in attesa dello sbarco ci
accompagna nel lento spostamento che fa scorrere il paesaggio della costa
greca…
Alla vista di isolotti e scogli o anche di Corfù in
lontananza, tornano alla mente le letture giovanili dei racconti di ignoti e
temerari marinai su isole fantasma situate per lo più nel grande mare verde
delle tenebre (come una volta si chiamava l’Atlantico settentrionale).
Racconti che portano alla mente luoghi magici e
misteriosi come l’isola di San Brandano, l’isola dei Diavoli o l’isola di Buss,
arcipelago fantastico di luoghi mai esistiti… altri pensieri vanno all’audacia
di antichi navigatori che solcavano questo mare sulle rotte della Terrasanta e
al Boudelaire di “Un viaggio a Citera”.
La distanza da quelle inquietanti acque e la
navigazione che si svolge in un mare più tranquillo, ma ancor di più la vista
dell’approdo, rincuora il montanaro viaggiatore che è in me. E Paxos si
avvicina sempre più mostrando ad ogni ritorno qualche nuova ferita che ne
offende il paesaggio, tuttavia ancora straordinario.
Finalmente sull’isola, si sbarca a Gaios nome che
induce ad un divertito ottimismo. Prescindendo dall’abitudinarietà assunta per
me da questo viaggio, volendo comunque dare qualche indizio sul luogo cerco di
soffermarmi col pensiero su quanto di più forte induce sensazioni. Un luogo ha
molti aspetti caratteristici e, agli occhi di ognuno, altri ed altri ancora.
Prescindendo dai richiami di sirena dei depliant turistici e dei siti
sull’isola, o meglio isole (Paxi ed Antipaxi), più d’altri hanno rapito la mia
attenzione alcuni aspetti. Girovagando per il posto, per chissà quale
sortilegio spazio-temporale, ho l’impressione che il tempo rallenti e di molto
il suo cammino: la flemma degli indigeni è maestra ed il tempo sull’isola
sembra invischiarsi intorno a questa. Non conosco il greco ma ho sentito spesso
due parole avrio e metavrio credo siano traducibili con domani
e dopodomani. Per esperienza ho appreso che la prima può indicar mesi,
la seconda anni.
Girando per l’isola colpisce una vegetazione
lussureggiante, a volte resa impenetrabile dai rovi, che tradisce una vasta
incuria ed abbandono del territorio, la natura che si rimpossessa del luogo.
Enormi e secolari alberi di ulivo trasmettono contrastanti sensazioni. E
piacevole goderne l’ombra sulla seconda spiaggia di Logos (Marmari) ma
passando per la prima (Levrechiò) colpiscono ulivi che sembrano esseri
mostruosi, forse escrescenze vegetali di titani o altre creature mitologiche
sull’isola sepolte. Soffermandosi con lo sguardo sulla foggia e dimensioni di
questi alberi si è pervasi da un senso di inquietudine e di trasporto che forse
serve a spiegare il radicamento della mitologia in questa terra. Abbracci di
serpenti o creature avvinghiate, lotte antiche di indomiti guerrieri, o altro
ancora. Il conforto a queste mie impressioni, forse esagerate, l’ho trovato tra
le pagine de “Il sogno della Ragione (unicorni, ippogrifi, basilischi,
mostri e sirene)”di Brunamaria Del
Lago che già nell’estate 1990 parlava di un negozietto lungo il porto di Gaios
dove innocue pietre e conchiglie prendevano forma di animali, uomini e dei.
E da qui un altro spunto, le pietre. Non è
esagerato dire che l’isola è di pietra. Di pietra le case, di pietra i muri che
fanno da confine a terreni una volta coltivati, di pietra le scogliere che da
Eremitis, dal Sunset o altri posti regalano “tramonti che si perdono nel
nulla”. Dovunque nell’isola la pietra lavorata. Percorrendo viottoli e
sentieri (monopati) dovunque muri, pietre squadrate, tagliate e poste in
opera con magistrale sapienza. Colpisce il silenzio tutto intorno, il vuoto ed
il senso di deserto. Una quantità incredibile di pietra lavorata da tante ed
esperte mani, ore ed ore di lavoro trasformate in supporto di muschi e di
licheni. Dove saranno andati gli antichi abitanti e la loro arte? Di tanto in
tanto nella vegetazione si scorge una chiesina e il suo piccolo cimitero, poche
tombe che non spiegano il vuoto ed il silenzio su quest’isola che in altri
tempi doveva brulicar di vita.
Interessanti e anche queste a sostegno delle mie
“poco turistiche” suggestioni, le righe contenute in “Bestiario Segreto”
scritto da Alfredo Cattabiani nel 1995. Dal settimo racconto “Il capro di
Paxos” apprendo di “Come il dio Pan riappare vivo nella stessa isola
dove fu annunciata la sua morte duemila anni fa.” Ne consiglio, a chi
interessato, la divertente lettura. Pur frequentando spesso gli stessi luoghi,
del terrificante capro del racconto, per fortuna non ne ho trovato alcuna
traccia. I paxioti attuali, ciò che resta degli antichi abitanti, vivono con
inerzia le trasformazioni della loro isola, frastornati dall’ondata che ogni
estate invade Paxos.
La inesorabile metamorfosi che scaturisce
dall’attenzione turistica per questo luogo (come per altri) lascia intravedere
un futuro fatto più di nubi
che di cielo terso. Il Vivì si allontana con la stessa
stanchezza riportandomi verso Igoumenitsa. Lascia alle sue spalle oltre la scia
la sagoma dell’isola che si rimpicciolisce sempre più all’orizzonte. Lentamente
i miei pensieri mi riportano sul continente e le figure fantastiche si
sciolgono nelle prime ombre della sera. Il paesaggio più bello è quello che non
abbiamo ancora visto e questo è un viaggio che vale comunque la pena di fare.
UNA
RICETTA PARTICOLARE
di Raffaella Santulli
Una
donna che possiede due occhi affascinanti è quasi sempre bella: perché, se
anche i suoi lineamenti non sono completamente estatici, lo splendore che dallo sguardo si diffonde, basta a far
apparire il viso perfetto.
Ciò
succede perché la natura ha posto negli occhi il magnifico potere della
seduzione: l’amore, questa fiamma misteriosa che arde nel cuore, sprigiona il
suo bagliore dagli occhi.
E’
sempre con gli occhi che l’amore compie i suoi gentili misfatti: è con gli
occhi che facciamo la nostra prima dichiarazione, ed è con gli occhi che,
nostro malgrado, noi manifestiamo la
nostra indifferenza.
E’
indiscutibile: con gli occhi noi imploriamo e
comandiamo, concediamo e rifiutiamo, con gli occhi noi compiamo l’opera
di seduzione.
In
tutti i tempi furono chiamati “la finestra dell’anima”.
L’espressione
è assai giusta: l’anima guarda attraverso questi organi.
Non
solo la finestra, ma lo specchio dell’anima.
Ora,
se noi sappiamo dare alla nostra anima questo speciale stato che si chiama
entusiasmo, ebbrezza psicologica, fisica etc., è chiaro che esso si rifletterà
negli occhi dando a questi un maggiore bagliore, ed una più magnetica
espressione.
Tutta
la difficoltà consiste, naturalmente, nel trovare questi stati d’animo.
Qual
è dunque l’indicazione?
Quale
il miglior conservativo di questo magnetismo?
La
calma.
Non
certamente nel senso dell’indifferenza e del cinismo, ma il requisito delle
anime nobili che sanno scacciare le basse passioni.
Noi
viviamo in un’epoca tormentosa e tormentata, in cui la febbre dell’esistenza è
spinta fino all’ossessione; in cui mille motivi di sconforto, di dolore, di
rabbia, di lotta, di travagli, ci turbano continuamente l’anima.
La
sconvolgono, la vessano, la vilipendono, la obbligano a vivere in una perenne
tempesta.
Mantenersi
calmi, allora!
Ecco,
dunque, l’unico precetto.
Racchiudersi
nella fortezza del proprio io e pensare… pensieri nobili ed elevati… i veri
artefici della bellezza: sono essi i deputati ad imprimere quotidianamente,
lentamente, sicuramente, sul nostro viso, la loro fisionomia.
La
conservazione della bellezza ottenuta senza cosmetici.
VALOROSI
NORMANNI
di
Francesco e Marzia Rinaldi
Terra di esuli guerrieri, ascetici
nei loro semplici piaceri, oggi
Dai teneri formaggi di Camembert al
vigoroso Calvados, dal burro di vacca al nettare degli dei immortali, il Sidro,
con il quale è d’uso e d’obbligo pasteggiare in sostituzione del più “mortale”
benché altrettanto eccellente vino, sia esso di Bordeaux o nobile di Borgogna.
Senza omettere, poi, le ottime carni bovine ed ovine e, naturalmente, il pesce.
E, si badi, non solo frutti di mare !
Dai boschi dell’Auge alle imponenti
Falesie di Etretàt e alle scogliere di Fecamp, le più alte di Normandia, che
proteggono i moderni pellegrini – i turisti – dal minaccioso Atlantico del
“nord”.
Gente di carattere, chiusa ma
schietta e cortese, i Normanni ben custodiscono quel sano modo di concepire e
valutare le “cose” della vita, che tanto affannano, oggi come allora, l’essere
“individuo pensante” di kantiana memoria.
Insomma, un bel tuffo in un ambiente
discreto nel suo essere, lontano dallo scintillio, troppe volte forzosamente
sfarzoso, di altri “mondi”, altrettanto interessanti, ma tendenzialmente
isolanti.
L’individuo, qui, non si sente un
semplice viandante ammaliato dalla straordinaria bellezza dei paesaggi – la
memoria va specialmente a quel “Monte” che sorge dalle Acque, quello di San
Michele –, bensì un po’ parte del paesaggio che lo circonda, mirabilmente integrato
in esso, come un tutt’uno indistinguibile.
Questo è forse il fascino di questa
peculiare terra, geologicamente composita ed interessante, storicamente teatro
e custode di opere ed eventi significativi, fertile di messi ma, soprattutto,
raccolta intorno a chi ha il privilegio ed il piacere di abitarla.
Ebbene, “Chi è come Dio ?”
BISOGNA CONOSCERE PER POTER APPREZZARE
di Nicola Perrelli
Un
po’ di mustica? si grazie, ma…che cos’è
? E’ con questo interrogativo che molti nostri giovani accetterebbero di mangiare la saporita
specialità originaria della costa ionica calabrese. Poca conoscenza degli usi e
delle tradizioni alimentari regionali, che il Sud con la sua ancestrale
lentezza , in controtendenza all’inarrestabile
fenomeno della c.d. globalizzazione, resiste a far conoscere e circolare
nel mondo, e remissiva accettazione dei prodotti e pasti del fast-food,
spiegano perché la mustica, o sardella,
per le ultime generazioni è un illustre sconosciuto.
Eppure
la vera ricchezza della nostra Regione,
quella sfruttabile economicamente e come indotto per lo sviluppo del turismo,
si cela proprio tra i profumi ed i sapori della sua gastronomia. “I tesori
della Calabria non sono i bronzi di Riace”, scrive a ragion veduta l’esperto di
gastronomia Paolini. Formaggi, salumi, vino, olio e via dicendo parlano della
sua storia e cultura. Narrano cosa
significa essere mediterranei. Ricordano il legame indissolubile che le nostre
popolazioni hanno stabilito nei millenni
con questi prodotti fondamentali per la sopravvivenza. La cui produzione
va ricordato è stata sempre faticosa, precaria ed incerta. Ma sarebbe
altrettanto preciso dire che ognuno di questi alimenti ha i suoi paesaggi,le
sue storie,le sue memorie,i suoi valori simbolici,il suo folklore. Il grande
romanzo, appunto, della nostra terra.
Anche
il mare aggiunge molto alle risorse alimentari della Calabria. Dall’incontro di
prodotti che provengono dall’agricoltura e dalla pesca nascono cibi di
straordinaria originalità. Il mare gioca dunque un ruolo significativo per
l’affermarsi di particolari abitudini alimentari. Come quella di consumare
pesce conservato e salato. E’ dalla
sapiente capacità nella lavorazione del pesce che sul versante ionico ,quello
che va dai paesi di Crucoli a Trebisacce,
dalle acciughe appena nate o rosamarina, si riesce ad ottenere quel prodotto unico che è la sardella. La più piccante e gustosa conserva
ittica del Mediterraneo. Una prelibatezza mai eguagliata.
Per
farla occorre il bianchetto, altro nome della rosamarina, catturato con una
apposita rete a sacco tra i mesi di
novembre ed aprile.
Il
pescato viene poi lavato,leggermente salato e messo ad asciugare in canestri.
Successivamente si passa alla conza ,ovvero
la salagione a strati alterni di sardella e sale in contenitori di coccio detti
salaturi.
Inizia
ora, sotto peso, la stagionatura che dura 6/7 mesi. Da come viene seguita e
curata la maturazione dipende la riuscita o meno della sardella. Il segreto è
tutto qui. Solo le massaie più esperte sanno quando è il momento giusto per
togliere la sardella dalla salamoia ed impastarla con la farina di pepe rosso
piccantissimo e il finocchio selvatico.
Fino ad ottenerne un preparato compatto e omogeneo, simile ad una marmellata.
Solo cosi, quando è difficile capire che si tratta di un prodotto a base di
pesce, si può parlare di una sardella ben fatta.
La
sardella più famosa, quasi una crema, è quella prodotta a Crucoli che ne
rivendica la paternità, organizza ogni anno
una sagra nel mese di agosto e si fregia della seguente segnaletica
ufficiale: Torretta di Crucoli il paese della sardella. Non è da meno quella di
Trebisacce che utilizza però una rosamarina più adulta.
La
sardella può essere gustata in tanti modi. Quello più semplice è di spalmarla
sul pane tostato con un po’ di burro. Ma è ottima con l’uovo all’occhio di bue
o cicato, eccezionale se soffritta e mescolata con gli spaghetti e poi
ancora con la pitta, ecc.ecc.
Sarà
venuta voglia di mangiarla?
NUOVOMONDO
regia di Emanuele Crialese
visto da Carla Rinaldi
Una bella lezione di cinema quella di
“Nuovomondo” di Emanuele Crialese che si porta a casa un premio a Venezia
istituito apposta per la sua pellicola, il Leone d’argento. In lizza, si spera
tanto, per l’Oscar come miglior film straniero, “Nuovomondo” racconta bene e
drammaticamente le partenze degli emigranti italiani per gli Stati Uniti.
Una
famiglia arcaica siciliana che vive tra le pietre arse delle sue montagne, è lo
spunto per ampliare una storia corale in cui migliaia di persone povere e
desolate si imbarcavano su enormi ferry boat e occupavano la terza classe,
quella destinata al bestiame, ai pacchi, ai motori.
Dopo
un voto fatto alla Madonna e una richiesta di un semplice segno, la famiglia
siciliana protagonista, decide che è arrivato il momento di partire e lasciare
per sempre la terra amata ma avida di futuro e pregna di sfortuna. Senza mai
scadere in una facile macchietta, si imbracano e per tre settimane compiono un
lungo viaggio nella speranza che all’arrivo, dopo tanta sofferenza, riescano a
superare i tanti test che li attendono a Elling Island, perché, come dirà un
militare che sottopone ai quiz gli emigranti, gli Stati Uniti non vogliono
persone poco intelligenti nella loro patria.
Ma
il racconto narrato con perfezione stilistica e cromatismo pari solo ad un
vecchio Pellizza da Volpedo, riflette con le sue incrinature di gialli
malinconici e rossi sbiaditi, gli stati d’animo dei nostri gloriosi emigranti
che rinunciavano alle piccole gioie quotidiane fatte spesso solo di un pezzo di
pane e soppressata fuori ad una porta di legno scalcinato in compagnia di altri
compari, per dare a loro ma soprattutto a tutta la loro stirpe, una vita
dignitosa accompagnata dal sacro valore
del sacrificio. Bravo Crialese che affronta questo argomento proprio in un
momento storico spinoso in cui si ci dimentica che immigrazione non significa
solo criminalità. Nel cargo afoso dei nostri antenati, il dolore della
lontananza e il rispetto per nuovi popoli è evidenziato, la discrezione che gli
italiani hanno avuto quando hanno messo piede in America, la consapevolezza che
un Paese che li ospitava e li sfamava ha aiutato tanti di loro a diventare
ricchi e saggi.
Un
film che è un piccolo capolavoro sia per l’intensità di una sceneggiatura
scarna, proprio come erano le conversazioni degli emigranti, sia per le
immagini perfette geometricamente, una storia reale, una scelta logistica
adatta a mostrare in silenzio gli stati
d’animo in subbuglio e paura, alcuni intermezzi di vivaci canzoni swing che alleggeriscono il dramma.
Ma “Nuovomondo” può considerarsi un bel film soprattutto perché Crialese
conosce il linguaggio del cinema e rispetta lo spettatore, bilanciando la scelta di ogni singolo fotogramma e
mostrando, anche lui da semplice spettatore, cosa vuol dire arrivare in un
posto. Perciò il film si chiude all’arrivo negli Stati Uniti, perché spesso la
parte più dura delle scelte sta nell’accingersi a compierle e quando si sono già compiute i
sentimenti forti vengono volutamente accantonati per dare spazio alla
costruzione di qualcosa.
Ma è l’incognita la parte più
emozionale. Gli emigranti di Crialese appena toccano le coste dell’Atlantico
cacciano tutto l’orgoglio che hanno e lo spazio per la nostalgia lo affideranno
alle lettere e al ritorno al paese dopo cinquant’anni di onorata fortuna e
tanto sacrificio.
IL TASTASÀL
di
Riso
e carne di maiale si possono sposare in mille modi diversi ma, dalle parti del
veronese, parlare di risotto al tastasàl (o all’isolana)
evoca sapori antichi ed inconfondibili.
Il
tastasàl, è un impasto fresco di carne di maiale preparata per il salame,
aromatizzata con aglio, sale, pepe, vino rosso, spezie varie. Le rasdore
delle campagne padane usavano preparare il risotto con tastasal per assaggiare la pasta del salame prima di insaccarlo. Da
ciò deriva il nome del tastasal:
tastare la salatura (della carne del suino). Oggi, nel veronese e nel padovano,
si trova pronto nelle migliori macellerie.
Isola della Scala, a pochi
chilometri da Verona, è centro di
produzione del famoso Vialone Nano,
varietà risicola con caratteristiche gastronomiche ottimali per i
risotti, che ha trovato nella Bassa veronese il suo habitat migliore, tanto da
ottenere il riconoscimento Europeo I.G.P., cioè il marchio di Indicazione
Geografica Protetta.
Qui ogni anno, in concomitanza con
la raccolta, la domenica successiva al primo venerdì di ottobre, si celebra la Fiera del Riso, giunta quest’anno alla
sua quarantesima edizione. Nella sagra si cimentano i migliori chef, locali e non, che presentano le diverse interpretazioni del
risotto con il tastasàl , piatto unico nel suo genere poiché è una via di mezzo tra un risotto ed
un riso bollito.
Ecco
la ricetta per quattro persone:
·
Tre
bicchieri colmi di riso Vialone nano
(circa
·
·
2
rametti di rosmarino fresco
·
Noce
moscata q.b.
·
Formaggio
grana grattugiato
Il
tastasàl viene messo a cuocere con il rosmarino, senza aggiunta alcuna, si
lascia poi colare tutto il grasso (che
nella versione light si elimina), si
fa andare ancora a fuoco medio per 5- 10
minuti fino a che la carne comincia a rosolare, quasi tostando.
Intanto
viene lessato il riso, per 10 minuti in acqua salata, che poi si scola e si
rimette nella pentola di cottura assieme al tastasàl. Il
tutto viene coperto con un canovaccio e, mescolando ogni 2 o 3 minuti,
viene cotto ancora a fiamma media per 18-20 minuti.
Il
tocco finale (segreto dello chef !)
consiste nell’aggiungere a fine cottura un cucchiaino di grana a
persona, precedentemente insaporito con
la noce moscata.
Un’ultima
mescolata ed il risotto con il tastasal è pronto per essere servito con grana a
volontà.
Provatelo e fatemi sapere !
ARRIVA
L’AUTUNNO
OCCHIO AI PNEUMATICI DELLA VOSTRA AUTO
di Stefano
Ferriani
Quanti
di noi attribuiscono la giusta importanza
ai pneumatici della propria auto?
Le
statistiche dicono che la percentuale è molto bassa. Della nostra auto curiamo principalmente il lato estetico,siamo
quindi portati a mantenere la carrozzeria bella e lucida,curiamo inoltre la
tappezzeria interna accessoriandola con tappeti e
profumatori di ultima generazione,ma non curiamo gli pneumatici.
Cosa
significa curare gli pneumatici?
Partiamo
analizzando innanzitutto la funzione
del pneumatico che è
essenzialmente quella di collegare l’automobile con una superficie.
La funzione è quindi fondamentale, l’aderenza del pneumatico al terreno è
direttamente proporzionale alla sicurezza di utilizzo che ne deriva e
l’elemento che determina l’aderenza è l’usura.
Allora
quando uno pneumatico si intende usurato?
Quando
il suo battistrada nel punto di maggiore usura è inferiore a
Gli
pneumatici usurati vanno immediatamente sostituiti attenendosi rigorosamente
alle indicazioni riportate sul libretto di circolazione, tali indicazioni fanno
riferimento alle dimensioni e al codice velocità per le quali è stata omologata
la vettura in oggetto.
Nel
caso in cui si volessero montare pneumatici di dimensione non citata sul
libretto di circolazione è assolutamente necessario ottenete il nulla osta
dalla casa costruttrice dell’automobile
sulla quale si intende effettuare la modifica,solo e unicamente questo ne determina la possibilità e la sicurezza di
utilizzo.
Non
attribuiamo invece troppa importanza alla marca dello pneumatico,il livello
qualitativo medio è alto quindi non risulta indispensabile acquistare prodotti
di marca magari super pubblicizzati a
prezzi proibitivi, il mercato offre prodotti validi a prezzi competitivi
(fatevi consigliare dal vostro gommista di fiducia)
Che
caratteristiche deve avere uno pneumatico per essere definito valido? Innanzitutto
un giusto rapporto qualità prezzo dove per qualità intendiamo: buona
tenuta di strada in tutte le condizioni
atmosferiche, silenziosità, comfort, durata intesa come percorrenza
chilometrica e per finire una buona scorrevolezza per contenere i consumi di
carburante.
Un
consiglio:nel periodo invernale sarebbe opportuno montare le gomme “TERMICHE” che hanno la caratteristica di avere il
battistrada maggiormente scolpito unitamente ad una mescola particolarmente
tenera che ne permette un riscaldamento più veloce e maggiore migliorando cosi
la tenuta di strada e la frenata anche in condizioni particolarmente difficili
come ghiaccio e neve.
Buona percorrenza a tutti!
ZONA FRANCO- BOLLO
di Francesco Aronne
Una sera di tanti anni fa, in un
ufficio che non c’è più, di un’azienda che non c’è più, che produceva sogni che
non ci sono più, fui raggiunto da un amico, da tempo disperso in chissà quale
naufragio, e da altri suoi nuovi concittadini, saviglianesi di Savigliano, sua
nuova patria adottiva.
L’amico, le cui ultime e datate
notizie certe lo davano come postino in quel luogo del Cuneese, fece le
presentazioni e con innocente compiacimento declamava agli increduli suoi
compagni di viaggio l’importanza della fabbrica che non c’è più di sogni che
non ci sono più, in questo posto che c’è ancora … quasi a sottendere che anche
al sud si è capaci di fare qualcosa.
L’occasione dello sbiadito incontro,
tornata alla memoria in modo bislacco, fu determinata dal gemellaggio che
l’amministrazione comunale di allora, oramai dimenticata come le altre che la
seguirono, fece con la città di Savigliano.
L’iniziativa su cui è superfluo
opinare, voleva riannodare interrotti fili tra Mormanno e la folta comunità di
Mormannesi che hanno migrato le loro
energie rendendole disponibili
all’economia di quest’angolo di Piemonte.
Un gemellaggio che in qualche modo
potesse affrancare i nostri compaesani, alleviandoli nelle sofferenze subite in
quel trapasso, con una mossa che, battendo sul tempo tutti gli altri comuni,
vittime di similari emorragie, rendeva i mormannesi un po’ meno emigrati degli
altri (se non altro perché “gemelli” della città ospitante).
Per quanto di mia conoscenza a
quella iniziativa riassumibile come una allegra visita parenti (non posso non
ricordare in un Carosello antico la pubblicità in cui Nicola Arigliano da un
autobus diceva “Gruppo vacanze Piemonte si parte!”) non ci fu alcun seguito,
neanche sui cartelli che delimitano il territorio comunale.
In questi giorni mi è ripassato tra
le mani un vecchio libro “Ricerche Etimologiche su mille voci e frasi del
dialetto Calabro-Lucano” . Il suo autore tal Sac. Teodoro Cetraro era Socio
Benemerito della “Società Filomatica di Mormanno”. Nel volumetto, malconcio e
tormentato dagli anni e dall’incuria di chi l’abbandonò in un cumulo di carte
da macero, leggo in data 26 gennaio 1872 la relazione n° 78 del Consiglio
Accademico della citata Società e della Biblioteca Popolare Circolante
Mormannese.
Nulla so di più su questa
biblioteca, qualche notizia scarna e da verificare: circa 1.400 volumi, per lo
più dispersi (arsi per ristorar operai ignari e rozzi in un freddo giorno
d’inverno, sottratti e trafugati nelle tante peregrinazioni dei volumi, in minima
parte giacenti nella Biblioteca Comunale)… Certo fa pensare che all’epoca di
Quintino Sella (sacrifici, tasse scioperi, ma anche passaggio dalle 11 alle 10
ore di lavoro) e Bismark, in un’epoca in cui Cristo aspettava ancora la
ferrovia per Eboli, Mormanno avesse una Biblioteca Popolare Circolante (vi fu
successivamente anche un “Centro di Lettura” ma questa è altra storia…).
Di lettura in lettura e di
suggestione in suggestione son partito da qui e finito nel Mali e nel suo pezzo
di deserto… ho letto da qualche parte due frasi di Amadou Hampaté Ba (nacque nel
(inevitabile
un pensiero al “Manoscritto trovato a Saragoza” di Jan Potocki).
Uomini
semplici e colti che tutt’oggi vivono distanti dal mondo presunto civile,
depositari e custodi di un sapere millenario che ha radici nell'Università medievale di Sankoré
a Timbuctù. Le Biblioteche del Deserto, è il nome con cui è noto questo patrimonio
dell’umanità. Il fascino del Sahara, i libri, la sabbia che tutto copre,
nasconde e protegge… i miei liberi pensieri, forzando il narrato, collegano
arditamente questi due angoli calabro-africani del deserto globale. “Farenheit
l’UNESCO vuole salvare (soprattutto
dalla voracità delle termiti) il salvabile a Timbuctù…
E noi in tutto questo? Perché non
pensare ad un utopico progetto di una nuova (e assolutamente non antica)
Biblioteca Popolare Circolante Mormannese?
Magari nell’era di internet
riaffermare il potere (e piacere) del cartaceo supporto per voli che da secoli
l’uomo tenta di lasciare a chi verrà dopo.
Ed è così che pensando ad un impossibile
gemellaggio ho immaginato per qualche istante Mormanno apparentata a Timbuctù,
analogie note e meno note, forzate ma anche reali, metaforiche ma pertinenti,
secondo la libera scelta di ognuno. A chi con la lettura è giunto fin qui,
l’invito al piacere del cimento nell’esercizio di acrobazie intellettuali
e nella serena valutazione di questo grande insegnamento che ancora una volta
proviene dalla generosa e grande madre Africa.
[1]
Un appunto riportato sul frontespizio recita così: “Libro primo de’ Battesimi di questa Parrocchiale Arcipretal Chiesa di
Mormanno. Copia fedelmente estratta e con diligenza dall’originale, il quale
essendosi corroso e quasi reso incapace a leggersi, affinché non mancassero le
prime memorie e le più antiche di quante ne formassero gli Arcipreti fin da che
forse si ordinò la formazione de’ Libri Parrocchiali, il R.do D.
Francescantonio Perrone di Domenico, s’ha preso la cura e il fastidio di
trascrivere, e coll’aiuto di alcuni zibaldoni e carte de’ suoi antenati venendo
nel conoscimento di quelle persone, che appena possono leggersi nell’originale,
ha formato il presente, restando tuttavia quello per autenticarsi
all’occorrenza qualunque fede. Quale copia s’è fatta in quest’anno
[2]
Relazione per
[3] Serie de Familia Perrone ex parochialibus libris deduca – anno 1776
[4] Libro dei nati e battezzati anni 1600 – 1705 e Cronologia degli Arcipreti dal ‘500 redatta di mio pugno.
[5] Annotazione riportata di fianco l’atto di morte – Libro III de’ defunti anni 1764 – 1799 -
FARONOTIZIE.IT - Anno I - n° 7, Ottobre 2006
Questa pagina contiene solo il
testo di tutti gli articoli del n° 8/2006
Redazione
e amministrazione:
Scesa Porta Laino, n.33 87026 Mormanno (CS)
Tel. 0981 81819 Fax 0981 85700 reedazione@faronotizie.it
Testata
giornalistica registrata al Tribunale
di Castrovillari n°02/06 Registro Stampa (n.188/06 RVG) del 24 marzo 2006
Direttore responsabile Giorgio Rinaldi